[René Magritte, La reproduction interdite, 1937.]Ero lì ad aspettare pazientemente il mio turno allo sportello della banca quando mi sono messo a riflettere (non fateci caso, a me capita così) sulla sostanziale differenza di accezioni esistente tra due termini molto simili, stupido e stupito, il primo – sostantivo o aggettivo – con connotazione generalmente negativa («Non hai capito niente, sei veramente uno stupido!») mentre il secondo – aggettivo o voce verbale – sostanzialmente positiva («Sono rimasto stupito dalla bellezza di quel quadro!»). Tuttavia entrambi hanno la stessa origine etimologica – dal termine latino stupĭdus che è derivato di stupēre, “stupire” – e un tempo condividevano la stessa accezione, cioè indicare la reazione riguardo qualcosa o qualcuno che genera stupore, appunto. Poi, è bastata una sola lettera e un’accentazione diverse e i due significati si sono separati, ma, a prescindere da ciò, m’è venuto da riflettere (tanto l’attesa in banca si stava prolungando) su come la loro differenza semantica diventi evidente nel considerare l’atteggiamento delle persone nei confronti del paesaggio – elemento di valore estetico-culturale per eccellenza.
Mi spiego: il fruitore del paesaggio, quando esso sia un elemento di attrazione turistica, ricreativa o culturale perché dotato di peculiarità particolari in tal senso, o è stupito dalla sua bellezza in quanto ne coglie il valore e se ne dimostra consapevole, oppure lo fruisce da stupido cioè in modi poco intelligenti e menefreghisti proprio perché, al contrario, non sa coglierne il citato valore. In altre parole: il primo dimostra di essere capace di stupirsi e di possedere la giusta sensibilità di mente e di spirito al riguardo, il secondo invece la rifiuta, che è un altro modo per dire che non utilizza la propria intelligenza.
Alla base di queste mie elucubrazioni è l’impressione – che io condivido soltanto e che altri prima di me segnalano da tempo – che l’uomo contemporaneo sta via via perdendo la capacità di stupirsi. Che, sia chiaro, non vuol dire solo esclamare «wow!» di fronte a qualcosa ma, ribadisco, significa meravigliarsene perché se ne comprende il valore, l’importanza, il senso. In un mondo dove (apparentemente) quasi tutto viene preconfezionato, omologato, conformato a bisogni preventivamente fabbricati ad hoc, spesso diventando mero prodotto da consumare a vantaggio di qualcuno (mai del consumatore), lo stupore appare qualcosa di disturbante e confondente oppure semplicemente una sensazione trascurata e incompresa. Detta anche qui in parole più semplici, quando si perde la capacità di stupirsi si diventa “stupidi”. Riportando il tutto all’esempio prima citato, se della bellezza, del valore e del senso del paesaggio non sappiamo più stupirci, finiremo per goderne in modo stupido, superficiale, banale e probabilmente dannoso per il paesaggio stesso. Quelli che visitano un luogo di pregio e lo insozzano con i propri rifiuti o vi schiamazzano come fossero ad un concerto, per dire, si comportano così stupidamente perché a quanto pare della pregevolezza di quel luogo non sanno stupirsene, non manifestando l’intelligenza, la curiosità, la sensibilità per farlo. Ecco.
E tutto questo per una sola lettera e un accento diversi, vedete un po’ voi. Come spesso accade, il confine tra cose belle e positive e cose brutte e negative è assai labile, per chi non sappia rendersene conto.
Addì 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo Littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno. Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Era l’ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio. Prima dell’alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all’imboccatura della foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba.
Testimonianza di Giovanni Radeticchio, nato a Sissano in Istria, (oggi Sisan, Croazia) prima esule in Italia e poi emigrato in Australia dove, consunto dai postumi delle ferite e delle contusioni degli organi interni nonché dagli stenti, nel 1970 morì per un attacco cardiaco. È il mio contributo al Giorno del Ricordo di quest’anno.
P.S.: per saperne di più sui massacri delle foibe, oltre al citato sito web lefoibe.it, cliccate sull’immagine lì sopra per leggere l’ottimo e completo articolo di Wikipedia sul tema.
I paesaggi esistono e acquisiscono valore in quanto prodotto culturale della nostra mente, e di paesaggi i luoghi vissuti ne producono parecchi o, per meglio dire, il paesaggio di un luogo è l’elaborazione culturale articolata di diversi elementi, materiali e immateriali, che contribuiscono in modo fondamentale a determinare il senso, l’anima e l’identità del luogo, diventando – se mi permettete l’immagine particolare – il “curriculum vitae” del suo Genius Loci.
Uno dei “paesaggi” più identificativi di un luogo è senza dubbio quello legato all’espressività delle genti che lo abitano: la parlata, il lessico, il dialetto ovvero la lingua, vera e propria manifestazione culturale di esso che da immateriale si fa materiale attraverso le voci dei suoi abitanti. In tal senso l’Italia possiede un patrimonio di lingue locali notevolissimo e di immenso valore, come si più già intuire dalla semplice osservazione di questa mappa linguistica:
[Cliccate sull’immagine per ingrandirla.]Inutile rimarcare poi che nell’ambito delle stesse zone e dei gruppi dialettali le varianti e le sotto-varianti sono altrettanto numerose, al punto che vi sono borgate di uno stesso comune la cui parlata risulta differente nei modi di dire, nella terminologia quotidiana, nell’inflessione.
A fonte di tale varietà, qualcuno potrebbe pensare che essa rappresenti un elemento divisivo per una comunità che si configuri come unitaria e nazionale. Se è vero, da un lato, che la prima e più immediata comunanza socioculturale è quella che nasce dalla condivisione di un lessico e di una parlata comuni, al punto che tale condivisione linguistica definisce spesso – teoricamente o praticamente – anche il concetto di “nazione”, dall’altro lato la varietà di idiomi diventa condizione divisiva soltanto ove così venga resa forzatamente, senza poi considerare il fatto che all’interno di un’area geografica omogenea le varie parlate sono per la maggior parte ascrivibili a un’origine pressoché comune che a sua volte unisce quell’area ad altre ben più vaste (per l’Italia quella legata alle lingue romanze, ad esempio). Peraltro, a tal proposito, mi viene da mettere in relazione la questione delle varietà linguistiche con la varietà geografico-morfologica della regione alpina: un territorio relativamente vasto del quale si può dire che ci sia una parlata per ogni singola valle, o quasi (della peculiare varietà linguistica alpina ho scritto di recente qui), ma che di contro ha sempre rappresentato uno spazio di contatto tra le varie genti e le loro culture, inclusa quella linguistica. Al punto che, nonostante la diversità di idiomi, si possono frequentemente riscontrare cognizioni culturali comuni in zone anche molto lontane delle Alpi, indice di un transito notevole di tali saperi i quali, evidentemente, riuscivano a generare comprensioni lessicali condivise. Tutto ciò avveniva proprio perché mai in passato le montagne hanno rappresentato dei confini, come accade da tre secoli a questa parte in senso geopolitico (e a volte non solo), ma sono sempre state zone di attrazione, transito, condivisione, incontro tra versanti, vallate, comunità, le cui parlate pur diverse generavano comprensioni sufficienti a mettere in relazione anche le rispettive culture.
Tutto ciò può (dovrebbe) accadere anche in senso più generale con qualsiasi lingua e con la varietà pur vasta di idiomi, al di là di contesti e referenze geografiche. Ma se queste mie considerazioni originano da un punto di vista primariamente antropologico, non essendo io un linguista, simili osservazioni le ho trovate espresse da un linguista autorevole, Ugo Vignazzi, Accademico emerito della Crusca, che in occasione dell’uscita del suo volume EH? Espressioni tipiche regione per regione (Einaudi Ragazzi, 2019) ha così detto: «Dobbiamo riconoscere che nostra ricchezza e forza sono proprio le diversità, la possibilità di scambio tra le diverse culture che attraversano la penisola. […] Se vogliamo comprendere bene l’italiano dobbiamo partire dai dialetti. Tutti i grandi scrittori italiani, compreso Manzoni, hanno preso le mosse dal dialetto, lo parlavano, anzi lo usavano anche nella loro corrispondenza personale come faceva proprio l’autore dei “Promessi sposi”. Il dialetto divide se ci si chiude nel proprio piccolo recinto, se si diffida negli altri, se si vede nel vicino il nemico come è avvenuto spesso nella storia italiana. Invece, i dialetti sono costitutivi del Dna del nostro Paese. Sono sempre stato un sostenitore dell’idea di ‘Italia delle Italie’, un’Italia che è allo stesso tempo plurale e unita.»
Chiunque volesse approfondire la conoscenza del paesaggio linguistico italiano ha a disposizione il Fondo Tullio De Mauro, che ospita un patrimonio specialistico in dialettologia e linguistica di oltre 5.000 titoli, con monografie e periodici di 150 testate, comprendenti, oltre alle preziose “settecentine” in ottava rima napoletana della Gierusalemme liberata e dell’Eneide, dizionari, raccolte di poesie, saggi, opere letterarie nelle varie lingue dialettali italiane, da Nord a Sud. Tutti i titoli sono consultabili, su richiesta, presso la sede del Fondo in via dell’Arsenale 27 a Torino, ma è possibile anche la consultazione on line e il download del catalogo. Per saperne di più date un occhio qui.
[Foto di Dmitry Vechorko da Unsplash.]Spesso dietro un’apparente dimostrazione di “forza” – espressa con le azioni, con le parole dette o scritte oppure con altro – si cela una prova di notevole debolezza – mentale, emotiva, intellettuale – che con quella forza si vorrebbe celare ma in realtà finendo per palesarla ancora di più. E mentre la vera forza col suo manifestarsi costruisce da subito qualcosa di positivo, per se stessa e per ciò che ha intorno, la forza apparente e fasulla cagiona immediatamente danni, a ciò che ha intorno e poi a se stessa. Per cui, nel constatare il comportamento di certi individui che urlano, sbraitano, denigrano, insultano, additano inquisitori, odiano, prevaricano, c’è soltanto da vedere una dimostrazione di miserrima, meschina debolezza e un’indubitabile richiesta di aiuto, come di chi si sia messo a correre sulla superficie d’un lago gelato pur a fronte dei cartelli di pericolo e, caduto nell’acqua gelida per l’inesorabile rottura del ghiaccio, si metta a insultare rabbiosamente il mondo intero dal quale ancora nessuno gli abbia lanciato un salvagente. Così rappreso nella propria tenebra mentale da non capire che, facendo in quel modo, chiunque vorrebbe gettargli il salvagente potrebbe alla fine anche cambiare idea e ritenere che, a conti fatti, così debbano andare le cose.
D’altro canto sono cose risapute da sempre, queste: come una volta si usava dire dalle mie parti, «Quèl ché gà püse tórt èl vusa sèmper püse fórt» ovvero quelli che hanno più torto, che le sparano più grosse (in ogni senso), sono pure quelli che urlano più forte degli altri. Dimostrando così di provare il terrore profondo che nessuno li possa ascoltare, non avendo nulla di importante o di sensato da dire. Ecco, fine.
Del “paesaggio”, una cosa della quale fatichiamo a renderci conto e non per colpa personale ma per una generale carenza culturale diffusa sul tema che tutti subiamo, è che non è fatto solo di cose materiali – orografie, morfologie, elementi geografici naturali e antropici, monti colline fiumi laghi boschi strade case paesi città eccetera – ma pure di cose immateriali, che sotto molti aspetti sono proprio quelle che del paesaggio completano e affinano l’identità: suoni, rumori, luci e ombre, tradizioni e narrazioni orali, etnologie, mitologie… e parole. Già, nel senso di lessici locali, di lingue parlate nei territori dai quali scaturiscono i relativi paesaggi che sovente compendiano molta parte della geografia umana sviluppatasi sulla geografia fisica. In tal senso la cosa diventa del tutto evidente ed emblematica in una zona che già “naturalmente” offre i più potenti paesaggi geografici e, parimenti, presenta una simile incredibile geografia linguistica sviluppatasi in e con quei paesaggi: le Alpi. Nei territori alpini, infatti, nonostante l’omologazione lessicale contemporanea è ancora oggi presente una grande e per certi versi sconcertante ma pure sorprendente diversità linguistica: a volte il parlato è omogeneo per territori relativamente vasti, altre volte cambia di molto anche tra borgate adiacenti, magari poste su due versanti diversi della stessa piccola valle sui quali, ad esempio, lo stesso oggetto viene definito con termini totalmente differenti.
Di questo tema, e di un bellissimo progetto ad esso correlato che si chiama VerbaAlpina, se ne occupa la Cipra – la Commissione Internazionale per la Protezione della Regione Alpina – in un recente articolo che potete leggere qui. VerbaAlpina è un progetto curato in primis dalla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera che dal 2014 ricerca, raccoglie e cataloga i lemmi delle varie lingue parlate sulle Alpi, presentandoli poi in una mappa interattiva e nel Lexicon Alpinum, nel quale ad oggi potete trovare oltre 16.000 vocaboli riferiti a ben 126 diversi “dialetti” (già: centoventisei! Ma che si potrebbero tranquillamente definire “lingue”) parlati nelle Alpi, un numero che peraltro non comprende le varianti ancor più topiche, cioè parlate in ambiti estremamente ristretti, che tuttavia fanno in gran parte riferimento al “dialetto” principale. D’altro canto «I dialetti si differenziano dalle lingue nazionali ufficiali solo per il loro status nella società» spiega Thomas Krefeld, uno dei due responsabili del progetto: «Ogni dialetto è una lingua perfettamente compiuta».
Dunque fateci caso, quando girate per il mondo e, appunto, in particolar modo le montagne, a come la gente che le abita e incontrate vi parla: con il suono emesso dalla loro voce e con le parole proferite stare sentendo il paesaggio in loco e generando una percezione di esso ben più ricca e rifinita di quanto potreste credere che i sensi vi consentano. Se le parole che vi dicono e l’inflessione della loro voce fossero diverse, anche il paesaggio lo sarebbe e ugualmente la nozione e il ricordo che di esso vi porterete a casa. E se poi tenete conto che dietro a ogni parola e alla sua etimologia c’è un mondo di storie, conoscenze, saperi, tradizioni, informazioni, intuizioni e che in fondo quelle parole sono la manifestazione dal territorio al pari del paesaggio visivo, potrete veramente constatare quanto sia vitale per la società umana la varietà linguistica e la sua salvaguardia, sulle Alpi come altrove. Non per essere contro a qualsivoglia omologazione lessicale funzionale, come quella che ci porta tutti ad essere sempre di più anglofoni (e ci sta, nelle relazioni internazionali), ma per parlare come si mangia – come dice quel noto motteggio – ovvero per come si è veramente, per essere se stessi e in relazione culturale, nella forma più immediata tanto quanto importante, con il luogo in cui si vive.