Luca Calvi, “Lost in translation” (Edizioni del Gran Sasso)

Come tanti altri appassionati frequentatori delle montagne, anch’io da adolescente ho letto innumerevoli libri di alpinismo, che nel tempo hanno fatto da potente combustibile alla passione per le vette che mamma e papà mi avevano suscitato portandomici spesso. In realtà sono poi diventato un’alpinista che definire «della domenica» è ben più che un complimento, vuoi anche per aver sviluppato un irrefrenabile interesse per le culture di montagna più che per le pareti e i gradi alpinistici, e vuoi perché, in tutta sincerità, dopo tante letture quei libri di alpinismo, quasi sempre autobiografici, mi sono sembrati un po’ tutti uguali e quasi sempre parecchio autoreferenziali. Inevitabilmente, per certi versi, anche no per altri ovvero nei casi in cui il ben noto atteggiamento da primedonne (in un mondo quasi del tutto maschile, peraltro) così diffuso nell’alpinismo, non di rado condito da rivalità e invidie difficilmente celabili, mi ha reso quelle letture abbastanza pesanti, pur rimanendo intatta l’ammirazione per i grandi alpinisti e le loro incredibili imprese. Ho preferito leggere altro, insomma.

Anche per ciò che ho appena denotato, Lost in translation di Luca Calvi, (Edizioni del Gran Sasso, 2023, con prefazione di Alessandro Gogna e postfazione di Alessandro Filippini) è un libro che ho subito voluto leggere, appena saputo della sua pubblicazione. Perché è un libro che parla di grandi alpinisti ma non parla di alpinismo, non nel senso che tutti si potrebbero aspettare, e dunque ho pensato potesse essere la lettura che mi riconciliasse con tale aspetto del mondo della montagna verso il quale, come osservato, avevo maturato una certa insofferenza. «E come può essere che un libro che parla di alpinisti non parli di alpinismo?» vi chiederete voi. Be’, ci riesce perché la visione che offre di questo ambito è assolutamente laterale, in tutti i sensi a partire da quello letterale (che diventa qui letterario, chiudendo il cerchio): Luca Calvi è un fenomenale traduttore, vero talento linguistico, superpoliglotta nonché grande appassionato di montagna, e per tali motivi da tempo è colui che si pone a lato – appunto! – dei grandi alpinisti stranieri di passaggio in Italia per i vari eventi dedicati alle alte quote così da tradurne le rispettive testimonianze, sia dal vivo in pubblico e sia per i loro testi, articoli e libri scritti. Ma non solo, Calvi è anche una persona di grande sensibilità e irrefrenabile simpatia, doti che nel rapporto con i personaggi tradotti diventano rapidamente empatia profonda: ciò lo fa diventare non un mero e pur notevole traslatore linguistico ma un vero e proprio alter ego di quei grandi alpinisti, dei quali sa fare proprie le inflessioni lessicali tanto quanto le intonazioni emozionali così che il racconto offerto al pubblico, oltre a essere filologicamente ineccepibile, è veramente come se provenisse dagli animi dei protagonisti – al plurale, sì, perché a quello dell’alpinista di turno Luca Calvi affianca il suo, in forza delle doti sopra citate e con la propria conoscenza culturale delle montagne e della loro frequentazione materiale.

Per tutti questi motivi, il racconto verbale che scaturisce dalla traduzione linguistica diventa per il pubblico un vero e proprio viaggio in un “paesaggio” fatto di voci, parole e immagini al contempo esteriore – generato dalla narrazione delle montagne dove si svolgono le imprese affrontare dagli alpinisti – e interiore, quello nel loro animo, attraverso il quale Calvi guida letteralmente gli ascoltatori con inimitabile maestria e coinvolgente perizia. Un “paesaggio” immateriale ma nemmeno troppo: se abitualmente le serate nelle quali i grandi alpinisti raccontano le loro imprese offrono anche le immagini, fotografiche e video, delle salite compiute, Calvi a modo suo aggiunge un’altra visione che diventa parimenti importante per il godimento dell’evento da parte del pubblico presente, nelle cui menti le parole tradotte e elaborate al fine di renderle autentica narrazione letteraria facilmente si trasformano a loro volta in immagini vivide e significative, che arricchiscono l’esperienza degli spettatori rendendola memorabile.

È lo stesso autore a descrivere meglio, in alcuni passaggi del libro, il prodigioso lavoro linguistico compiuto. Ad esempio a pagina 94, spiegando che «Entrare realmente in contatto con la persona che devi tradurre, soprattutto quando si tratta di qualcosa di “sentito”, di “non arido”, prevede la capacità di entrare in sintonia con il linguaggio e la modalità espressiva dei pensieri della persona tradotta. Forse è questo ciò che mi è stato indicato come “valore aggiunto” da qualche persona che mi ha visto al lavoro intento a ricreare anche con le tonalità della voce e addirittura con la mimica quanto proposto sul palco dall’oratore.» E più avanti, a pagina 175, quando rivela che «Mi viene spesso fatto notare che uno dei privilegi e, contestualmente, una delle più grandi responsabilità di chi è chiamato a tradurre da una lingua ad un’altra derivino dalla capacità di instaurare una sintonia reale tra oratore e traduttore. Quando poi ambedue condividono, ognuno a modo suo e con una intensità assolutamente propria, la stessa passione, se da un lato si presenta il rischio dell’assenza di imparzialità, dall’altro si ottiene una sinergia i cui risultati sono evidenti al fruitore, ovvero al pubblico, all’ascoltatore o al lettore che sia.»

Ah, ma non vi ho ancora detto degli alpinisti dei quali Luca Calvi si fa voce intrigante e alter ego temporaneo ma assolutamente compiuto: Simon Yates, Jim Bridwell, Mick Fowler, Dean Potter, Alex Honnold, Tommy Caldwell, Leo Houlding, Igor Koller, Reinhold Messner, Hansjörg Auer, Alex Txikon, Nirmal Purja e molti altri… il top dell’alpinismo mondiale, insomma, che ormai in Italia sanno di trovare non solo dei “colleghi” all’altezza con i quali confrontarsi – il panorama alpinistico italiano per quantità e qualità non è secondo a nessuno, anzi, presenta delle eccellenze riconosciute: i lecchesi, ad esempio, e li cito non tanto per personale campanilismo quanto perché Lecco, con i suoi eventi legati al mondo della montagna, è stata di frequente una preziosa palestra linguistico-alpinistica per Calvi e l’occasione per intessere preziose amicizie – ma anche belle montagne da arrampicare, un folto e “alto” pubblico di appassionati nonché, ormai da qualche lustro a questa parte, un traduttore di rarissime capacità grazie al quale i racconti delle loro imprese sulle montagne del mondo, senza perdere nulla della componente tecnica, acquisiscono una profondità umana che, io credo, difficilmente possono trovare altrove. Con Luca Calvi le “primedonne” che sovente sono i grandi alpinisti tornano a essere le persone che realmente sono, più autentiche, meno prestazionali e più emozionali, riavvicinandosi ai tanti «alpinisti della domenica» che li vanno a vedere/sentire o che leggono i loro libri e in tal senso sicuramente acquisendo ammirazione e gradimento.

Dunque, in fin dei conti, questo Lost in translation che racconta di alpinisti senza sostanzialmente raccontare di alpinismo – ovvero, ribadisco, parlandone “lateralmente” – è anche e forse soprattutto una gustosa e avvincente autobiografia di un “translactor” ovvero, in lingua franca, un traduattore, come lo definisce nella postfazione Alessandro Filippini, amico e collega nell’organizzazione di tanti eventi dedicati alla montagna: uno che sul palco insieme ai grandi personaggi dell’alpinismo mondiale non è affatto comparsa ma protagonista al pari dei primi, ovviamente in modi differenti ma non meno importanti che un altro grande alpinista, Alessandro Gogna, il quale firma invece la prefazione del libro, identifica e descrive efficacemente.

Insomma, Lost in translation è un gran bel libro di montagna, e lo è proprio perché la montagna vi pulsa dentro innanzi tutto come un potente e costante afflato vitale, ritornando a essere non più soltanto il pur sublime campo giochi verticale di un esclusivo club di atleti arrampicanti dalle grandi doti psicofisiche e con qualche “indispensabile” rotella fuori posto, ma una delle dimensioni “geofilosofiche” più importanti e emblematiche nella quale vivere appieno l’esistenza terrena ricavandone un’evoluzione spirituale che si fa compiuta soprattutto quanto trasmessa ad altri nel modo più approfondito possibile. Un club alpinistico che potrebbe tranquillamente denominarsi «Quelli che hanno avuto la fortuna di essere stati tradotti da Luca Calvi», ecco: e sono certo che se leggerete Lost in translation sarete d’accordo con me.

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