Oggi nella mia Val di Non e in Trentino molto è cambiato; molti paesaggi sono diventati uniformi, indifferenziati. Laddove l’insidia non è rappresentata dagli interessi economici il paesaggio rurale e montano è minacciato dalla banalizzazione di un approccio utilitario e consumistico al territorio, per cui diventa oggetto di sfruttamento o di attrazione turistica e la sua bellezza anziché costituire un’esperienza estetica ed insieme etica, anziché produrre quel piacere misto a inquieto stupore che è all’origine di ogni rigenerazione profonda, è il teatro di emozioni fugaci e passeggere. Allo stesso modo la storia culturale di una comunità rischia così di essere confusa col folklore, privata del suo spessore.
[Giovanni Widmann, Il paesaggio è cultura, pubblicato nel sito di Mountain Wilderness il 01 febbraio 2022. Per saperne di più, visto che del testo di Widmann ne ho già scritto, cliccate qui.]
[Un frame del video di “Enjoy the Silence“, uno dei brani più belli e iconici dei Depeche Mode. Cliccate sull’immagine per vederlo.]
L’incontro con la montagna, quando assume il valore di un’esperienza autentica, capace di provocare, in chi la vive, una vera crescita interiore, non può prescindere da due condizioni gemelle: la solitudine e il silenzio.
Solitudine e silenzio non sono corollari marginali, facoltativi, come alcuni stoltamente credono; ma rappresentano i perni indispensabili su cui s’incardina qualsiasi rapporto significativo tra gli esseri umani e i grandi spazi incontaminati della natura.
Gli esseri umani troppo spesso attraversano gli spazi naturali avvolti in una nube di rumore: scafandro sonoro che li rende irrimediabilmente avulsi da quanto li circonda; rozzi astronauti, capitati per caso su un pianeta estraneo e incomprensibile, incapaci di decodificare il messaggio della natura. Quel messaggio eterno che vive e parla attraverso la voce del silenzio.
Se i rumori si aprono la strada violentemente, anche contro la nostra volontà, attraverso l’organo dell’udito, i suoni della natura entrano in noi – e si depositano gentilmente in noi – attraverso tutti i sensi. Impariamo ad ascoltare il silenzio. E ad amarlo, come si ama un insostituibile tesoro.
Ciò che scrive Pinelli – figura che nell’ambito della montagna e dell’ambientalismo non ha bisogno di presentazioni – è assolutamente condivisibile, in primis per il fatto che per le montagne e gli ambienti naturali in genere, l’anima dei luoghi e la loro identità culturale, costruita come ogni “identità” anche sull’alterità rispetto agli spazi antropizzati, deve contemplare la solitudine e il silenzio come elementi peculiari e referenziali.
D’altro canto posso capire che qualcuno ritenga le considerazioni espresse da Pinelli troppo radicali rispetto alla realtà delle nostre montagne, le Alpi soprattutto, il cui essere la catena montuosa più antropizzata del mondo (a prescindere da cosa ciò comporti nel bene o nel male) rende l’aspirazione alla solitudine e al silenzio per certi versi un’utopia e per altri versi una dimensione apparentemente contraria alla presenta umana su monti.
Tuttavia, è lo stesso Pinelli a fornire la chiave di lettura forse migliore in assoluto a tale questione, citando i rumori che «si aprono la strada violentemente, anche contro la nostra volontà» oltre che contro la realtà naturale delle montagne. Ecco: il problema non è tanto il rumore antropico in sé, che può ben essere un segno di vitalità umana armonica nel contesto montano nonché un elemento peculiare del suo paesaggio sonoro locale, ma è come viene imposto, con quale scopo, con quale attenzione o quale disinteresse verso il luogo che lo subisce, con quali conseguenze sul luogo stesso e su come lo si può vivere. Conseguenze non solo materiali del momento, ma pure immateriali, ovvero culturali, sul lungo termine, come ad esempio il rischio che l’abitudine al rumore ci faccia disimparare l’ascolto e l’apprezzamento del silenzio.
E quando uno spazio montano produce gli stessi rumori e simili disturbi sonori ovvero assume le stesse caratteristiche ambientali di uno spazio antropizzato e/o urbanizzato, il primo perde ogni suo attributo peculiare. Diventa un non luogo, privo di anima, di propria identità, di uno scopo culturale e antropologico e per ciò verrà vissuto in modo superficiale, incivile, maleducato, altrettanto rumoroso. È l’inizio della sua fine, in pratica.
[Il cielo di nord est come più o meno lo vedo da casa, in questo periodo.]In queste sere di meteo ciclonico e di cieli finalmente limpidi – per me che abito in montagna – dopo le continue piogge di ottobre, l’uscita serale in giardino per l’ultima pipì del segretario personale (a forma di cane) Loki diventa anche una sorta di piccolo rito di saluto alla volta stellata e, in modo particolare, alla costellazione per eccellenza dell’inverno: Orione, il gigante che combatte contro il Toro, «la più potente delle costellazioni» secondo l’astrologo romano Marco Manilio.
All’ora in cui esco la vedo sorgere a nordest, maestosa, grandissima, brillantissima, con la spada appesa alla cintura (forse l’allineamento stellare, questo, più famoso e celebrato del cielo) che pare conficcata nel crinale montuoso che da quella parte chiude il mio orizzonte visivo e mi genera la fantasia che il ciclopico gigante stellare si sforzi, aumentando ancor più la sua luminosità (in verità perché rimanendo fuori al buio l’occhio acuisce la sensibilità visiva), di estrarre la lama per continuare la propria ascesa nel cielo, mentre con il suo scudo cerchi di ripararsi dalla luminosità del pianeta Giove, che in questi giorni brilla sopra di lui, e dall’altra parte dall’ammasso delle Pleiadi, uno dei più spettacolari del cielo.
[La regione celeste attorno a Orione nella Uranographia di Johann Elert Bode, del 1801.]È un rito domestico banale – e funzionale ai bisogni di Loki, certamente – ma altamente suggestivo, che mi ricorda quanto sia non solo bello ma per molti versi necessario, per noi piccoli terrestri mortali, perdere lo sguardo e incantarsi il più spesso possibile nell’osservazione del cielo stellato e della sua infinità, così meravigliosa e inconcepibile da non poter essere nemmeno lontanamente compresa e per questo visione insuperabile di una vastità che si riverbera nella nostra mente e nell’animo aprendoli come non mai, facendoci per un attimo dimenticare di essere creature confinate quaggiù, su un piccolo pianeta tra miliardi di altri persi nel cosmo, e sognare di viaggiare in quell’infinito stellare apparentemente vuoto ma in realtà talmente pieno di bellezza da sembrare assolutamente denso di tutto.
[Immagine tratta da accademiadellestelle.org.]Peccato che tante persone non coltivino più l’abitudine di osservare il cielo stellato e la sua bellezza, ancor più perché spesso impedite nel farlo dall’inquinamento luminoso delle nostre città (leggete “Cieli neri” della bravissima Irene Borgna, al riguardo) e da quello dell’aria che vela il cielo e offusca, quando non spegne, la luce di gran parte delle stelle (al riguardo date un occhio alla “Scala del cielo buio di Bortle”). Sono convinto da sempre che se si praticasse diffusamente l’osservazione del cielo, tutti quanti “praticheremmo” molto meglio anche la nostra vita quotidiana quaggiù sulla Terra. Il che potrebbe sembrare un paradosso, ma solo a chi, appunto, non sia più in grado di rendersi conto quanto sia bello perdersi tra le stelle. Anche in questo caso, d’altronde, è un perdersi necessario per poi ritrovarsi, e il cielo stellato permette di farlo senza nemmeno muoversi da casa – inquinamenti permettendo, ribadisco.
[Il cielo stellato sopra le Alpi del Salzkammergut, vicino Salisburgo in Austria. Foto di Felix Wegerer su Unsplash.]Per cui, se potete, provateci: qualche minuto in meno sullo schermo dello smartphone, prima di dormire, per qualche minuto in più in giardino o sul terrazzo di casa col naso all’insù. Sembra una stupidaggine, una banalità, ma sono certo che vi sentirete molto meglio, e più sensibili alla bellezza che ci circonda – quella veramente che può salvare il mondo come nessun altra cosa – e che spesso non sappiamo più cogliere.
[Le Grigne viste da Milano. Immagine di Andrea Cherchi, tratta da www.milanomontagna.it.]Milano è una “città di montagna” sotto molti punti di vista: perché è fatta di “cose della montagna” – marmi, acque, pietre d’ogni sorta… -, perché le Alpi cominciano poco oltre la sua periferia nord e le vette alpine si scorgono benissimo dal centro, perché alle montagne è sempre stata culturalmente legata, perché ha una lunga tradizione alpinistica, perché tra sedici mesi sarà pure sede delle Olimpiadi invernali. Ci tornerò pure io, a breve, per parlare di montagne in un evento pubblico.
Bene: oggi a Milano apre l’intera linea 4 della Metropolitana cittadina. Con essa, e con le linee di superficie, la città è ormai totalmente servita dai trasporti pubblici. Cosa dovrebbe fare dunque ora l’amministrazione della città? Semplice: togliere il traffico dalle sue vie. Quel traffico che la sta soffocando e la rende invivibile – come se già non avesse altre criticità che la rendono tale – e qualche mente misera ritiene una manifestazione di vitalità, di attivismo, di libertà. Libertà di morte, già.
Avrà il coraggio di prendere quella decisione? Saprà Milano dimostrarsi veramente una “città di montagna” cioè una metropoli legata al territorio e all’ambiente che la circonda non solo dalle vicinanze geografiche ma pure da una autentica consonanza ecologica, facendosi elemento antropico armonico – nonostante la sua grandezza – al territorio d’intorno e non più fattore dissonante, squilibrato, ammorbante e, ribadisco, sempre più invivibile?
[I grattacieli di CityLife, il Monte Rosa e le Alpi Pennine, quando non c’è lo smog. Immagine tratta da milano.repubblica.it.]Io temo di no. Troppo impegnata Milano, ancora e pervicacemente, a costruire un’immagine di se stessa fatta di tanto marketing e di poca realtà, attrattiva per i forestieri e repulsiva per i milanesi, sempre più privata/privatizzata ed esclusiva, sempre meno urbana e civica. Una città, per giunta, che ora sta solo pensando a come imbellettarsi ancor più di prima per farsi bella davanti alle telecamere olimpiche.
[CityLife quando c’è lo smog. Immagine tratta da milanocam.it.]Una città meravigliosa, scintillante, avvenente, vibrante, che vien sempre meno voglia di visitare e vivere.
[Foto di Mario da Pixabay.]Qualche giorno fa l’artista Giada Bianchi, per il suo progetto del Vocabolario Collettivo Della Realtà (VCDR), ha chiesto ai suoi followers di rispondere alla domanda «Cos’è per te il bosco?». Personalmente ho risposto che «il bosco è il luogo di ritrovo di alcuni dei miei amici più cari, che vado spesso a incontrare per farci belle e illuminanti chiacchierate».
Ma al di là di tale risposta (e della sua intonazione faceta, solo apparente), la sua domanda mi ha fatto pensare a ciò cui effettivamente rimanda il mio rapporto con i boschi e a come quelli domestici, in particolar modo le faggete, siano veramente un luogo con il quale mi sembra di intrattenere una relazione basata sul dialogo, sulla conversazione sintonica ovviamente priva di parole e invece ricca di percezioni. Il tutto proprio come se per, per ritemprarsi dalla routine quotidiana, si andasse a ritrovare dei buoni amici coi quali scambiare qualche chiacchiera in simpatia.
Di conseguenza, ho pensato che ogni comunità arborea determinata, cioè un bosco formato da un certo tipo di albero, per molti versi può ben rimandare, non solo visivamente, all’idea di un popolo: con le sue caratteristiche, le sue peculiarità, la sua natura, tutti elementi che lo contraddistinguono dagli altri. So bene che questa è un’ovvietà biologica e botanica, ma forse non lo è dal punto di vista culturale, risulta più sfuggente o meno considerata. Voglio dire: le sensazioni che viviamo nel mentre siamo dentro una faggeta, un’abetaia o un lariceto sono sempre le stesse, o sono differenti per ciascuna popolazione arborea che ci sta ospitando? Io credo che sia questa seconda la realtà delle cose: sono esperienze di psicogeografia silvestre, in buona sostanza, che inevitabilmente quanto forse inconsapevolmente ci portano a intessere una relazione con un certo bosco, e il popolo che lo forma, diversa dagli altri e dai rispettivi esponenti arborei.
Faggeta
Lariceto
Betulleto
Abetaia
Castagneto
Pineta silvestre
Il termine «popolo» ha un’etimologia incerta. Sicuramente la parola che usiamo deriva dal latino populus che a sua volta proviene dal greco πλῆθος, «folla», «moltitudine», ma l’etimo originaria è indeterminata: potrebbe derivare da una radice indoeuropea (par– o pal-) usata per individuare l’insieme di una comunità ed esprimere il concetto di riunire, mettere insieme. Anche il greco antico ha assorbito questa radice che ritroviamo, ad esempio nella parola πλῆθος (plethos) = folla. Se il termine è da noi inteso nell’ovvia accezione antropica, regge bene anche se declinato in chiave botanica, e ciò senza temere accuse di eccessiva umanizzazione del bosco e degli alberi (a pensarci bene non ne ho mai abbracciato uno, come fanno alcuni – e fanno bene a farlo, se li fa stare bene). In effetti il bosco è una comunità di individui arborei, e tra di loro quelli di pari specie sono membri della stessa popolazione, cosa che diventa evidente nei boschi puri, formati da una sola specie. Un popolo unico riunito in un certo spazio, appunto. In esso, come dicevo, la relazione che vi intessiamo assume caratteristiche particolari: il nostro dialogo e ciò che ne possiamo ricavare lo è altrettanto, dunque differente dal dialogo con gli altri popoli arborei.
Quando vago nelle faggete dei monti sopra casa oppure altrove, insomma, sento di elaborare una presenza e una relazione diversa di quando cammino nelle abetaie, nelle selve castanili o nei lariceti. E se per generare questa mia relazione nel qui-e-ora alcuni elementi materiali influiscono senza dubbio – profumi, luci, ombre, colori, consistenze e altri elementi materiali o immateriali del paesaggio locale determinati dalla presenza degli alberi – per altri versi quella relazione viene elaborata interiormente in forza del bosco che mi sta ospitando in quel momento, degli alberi cioè del popolo arboreo che lo forma e di tutto ciò che scaturisce in me al riguardo, intellettivamente, emotivamente e spiritualmente.
Peraltro dal mio punto di vista tutto questo diventa anche un modo per dissolvere, o quanto meno mitigare, il distacco che noi umani generiamo sempre nel nostro rapporto con la natura, anche solo indicando con tale termine un ambito “altro” e diverso rispetto a quello antropizzato e ordinario – un’accezione secolare e sostanzialmente antropocentrica, al solito. Invece anche io, essere umano in fondo non diverso da qualsiasi altro vivente del pianeta, sono natura: per andare nel bosco non “vado nella natura”, ma io e gli alberi siamo natura, la stessa cosa nello stesso luogo allo stesso tempo. Differenti in tutto, chiaramente, ma in questo contesto uguali. Di conseguenza, io sono il rappresentante di un popolo in visita nel bosco ai componenti di un altro popolo verso i quali, come succede con qualsiasi altra comunità umana, adeguo la mia presenza e la conseguente reciproca relazione in modo da intessere il dialogo più aperto, franco e cordiale possibile – il quale serve anche per sentirmi bene nel bosco e non intimorito, come accade a qualcuno.
È un dialogo senza parole, come detto, ma grazie al quale vi assicuro che si possono fare bellissime, profonde e vivaci chiacchierate. Nonché arricchenti, garantito.
P.S.: del bosco come “popolo di alberi” avevo scritto anche qui, con un’altra chiave di lettura.