Il paesaggio non è mai uguale a se stesso e parimenti il luogo che identifica non è mai lo stesso, anche se sembra tale, persino se è la millesima volta che lo si visita e contempla.
Questa verità me la riconfermo ogni volta che torno in Valle della Pietra, laterale della Valgerola che a sua volta lo è della Valtellina: secondo me uno dei posti più belli delle Prealpi lombarde. Salendo da Gerola o da Laveggiolo e superando la boscosa dorsale nordorientale del Pizzo Melàsc, mi ritrovo davanti la testata della valle in tutta la grandiosa potenza alpestre che la caratterizza e che lo sguardo può cogliere. Non so quante volte l’abbia percorso, quell’itinerario che d’altro canto è parte della DOL dei Tre Signori, la Dorsale Orobica Lecchese: decine e decine di sicuro, eppure ogni volta lo stupore nell’osservare il paesaggio della Valle della Pietra è lo stesso della prima, il colpo d’occhio appena fuori dal bosco mi sgrana tanto le palpebre quanto la mente e l’animo, sicché per qualche secondo non posso che restare imbambolato a godermi la straordinaria visione.
Lo stesso paesaggio di sempre ma ogni volta diverso: sembrerebbe un controsenso, questo, e invece è la pura verità. Cambiano le condizioni ambientali, il tempo, la luce e le ombre, i colori, i profumi, la vegetazione e ancor più ogni volta sono cambiato io che osservo. Il paesaggio esteriore cambia perché è cambiato il paesaggio interiore e, come ha scritto Lucius Burckhardt, «Il paesaggio è un costrutto, non va ricercato nei fenomeni ambientali ma nelle teste degli osservatori». Ecco perché non è mai uguale anche se così a molti appare, e perché ogni volta che lo si osserva può suscitare le stesse impressioni della prima volta: è come se a ciascun ritorno in quel paesaggio lo si ricreasse, come se la nostra mente lo reinventasse ex novo in base alle condizioni del momento e alle sensazioni dell’osservatore.
Posso tornare infinite volte nello stesso luogo conoscendone ormai a menadito ogni suo elemento, anche il più microscopico e insignificante, eppure mi sento sempre come se vi giungessi per la prima volta. In fondo, così facendo, ogni volta non rigenero solo il paesaggio ma pure me stesso. Credo sia un buon modo per sentirsi vivi e esserne gratificati, questo.
Oggi nella mia Val di Non e in Trentino molto è cambiato; molti paesaggi sono diventati uniformi, indifferenziati. Laddove l’insidia non è rappresentata dagli interessi economici il paesaggio rurale e montano è minacciato dalla banalizzazione di un approccio utilitario e consumistico al territorio, per cui diventa oggetto di sfruttamento o di attrazione turistica e la sua bellezza anziché costituire un’esperienza estetica ed insieme etica, anziché produrre quel piacere misto a inquieto stupore che è all’origine di ogni rigenerazione profonda, è il teatro di emozioni fugaci e passeggere. Allo stesso modo la storia culturale di una comunità rischia così di essere confusa col folklore, privata del suo spessore.
[Giovanni Widmann, Il paesaggio è cultura, pubblicato nel sito di Mountain Wilderness il 01 febbraio 2022. Per saperne di più, visto che del testo di Widmann ne ho già scritto, cliccate qui.]
In giro per le Alpi vi sono molte montagne morfologicamente iconiche e culturalmente identitarie – ovviamente il Cervino/Matterhorn è la prima che verrà in mente a tanti – ma ve ne sono poche che assumono un carattere di ineluttabilemarcatore referenziale come il Grosser Mythen (che invece verrà in mente a pochi, immagino), posto praticamente al centro della Svizzera e vetta profondamente elvetica per molti aspetti.
In primis per la sua posizione geografica, appunto così baricentrica per il territorio della Confederazione e peraltro centrale anche rispetto ai cantoni primitivi, quelli del Patto del Grütli dal quale, nel 1291, è nata la Svizzera odierna, dunque assumente un valore storico simbolico notevole; poi perché questa sua posizione, isolata rispetto ad altre sommità (eccetto che per la presenza del “fratello” Kleinen Mythen, un poco più basso e meno imponente) e dominante la zona dei laghi della Svizzera centrale, rende il monte visibile da molte parti del paese; la sua morfologia particolare lo rende inoltre inconfondibile oltre che, ribadisco, lo fa sembrare un gigantesco cairn piazzato nel bel mezzo del più caratteristico paesaggio svizzero – laghi, prati verdi, mucche al pascolo, foreste di conifere, chalet… insomma, la Svizzera al suo massimo immaginifico.
[Foto di Roland Zumbühl, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte: commons.wikimedia.org.]
La iconicità identitaria del monte è tale che una raffigurazione artistica del Grosser Mythen, insieme al Kleinen Mythen, dipinta nel 1901 e significativamente intitolata La culla della Confederazione, è presente anche nell’Aula del Consiglio Nazionale presso il Palazzo del Governo Federale di Berna: la vedete qui sotto, insieme alla veduta “reale”.
[Foto di Charles Giron, tratta dal sito web del Parlamento Svizzero, fonte: commons.wikimedia.org.][Immagine tratta da www.myswitzerland.com.]D’altro canto anche il toponimo è sovraccarico di potenziali simbologie, visto che mythen significa “miti” e al riguardo, come se non bastasse, il leggendario eroe nazionale elvetico Guglielmo Tell sarebbe nato proprio all’ombra del Grosser Mythen. Tuttavia bisogna denotare che l’origine del toponimo viene ritenuta differente e proveniente dalla parola femminile latina meta che indica qualcosa di importante o imponente: in effetti fino all’Ottocento il monte veniva chiamato al femminile, Mythä, come accade per numerose altre sommità svizzere, poi nel parlato comune ha finito per prevalere il genere maschile – ma in zona c’è ancora qualcuno che lo chiama nel modo antico.
In questo monte così pienamente svizzero però c’è anche un po’ di Italia: infatti il vertiginoso sentiero che conduce fino alla vetta, tutt’oggi assai frequentato, venne realizzato nel 1864 da un italiano, tale Muratori, incaricato da un appaltatore di Gersau dal nome altrettanto sudalpino, Domenico Taddei. Ma la montagna stessa possiede antichissime origini mediterranee: la sua geologia rivela una formazione del rilievo nelle acque di quello che è oggi il Mar Mediterraneo, all’epoca un bacino secondario del grande oceano che copriva buona parte dell’Europa, la cui massa è stata poi spinta verso Nord (a 150 km dalla posizione iniziale, addirittura) durante l’innalzamento tettonico della catena alpina; i ghiacciai delle epoche geologiche successive, in questa zona spessi fino a 800 metri, hanno poi modellato la montagna generando la forma odierna.
Ma per tornare alle peculiarità proprie del monte, e per rendere ancor più “svizzera” la montagna, il Grosser Mythen palesa un’altra gran mania degli elvetici, quella di piazzare ristoranti o cose affini (quando non funivie o funicolari, fortunatamente non qui) in vetta alle loro montagne: ecco dunque che appena accanto al punto più elevato sorge l’omonimo ristorante con alloggio, raggiunto dal sentiero che ho citato poco sopra ma per il resto circondato quasi ovunque dai più impressionanti precipizi. Una posizione unica che regala uno tra i più spettacolari panorami di tutta la Svizzera, per certi versi anche superiore a quello celeberrimo del Monte Rigi (o della Rigi, per dirla al femminile con i locali, vedi sopra).
Insomma, sotto molti punti di vista il Grosser Mythen rappresenta un autentico e basilare fulcro geografico-culturale della Confederazione. Di montagne iconiche e sovraccaricate di simbolismi (anche se a volte meramente turistici e dunque piuttosto artificiosi) la Svizzera abbonda, inutile rimarcarlo: basti pensare ai già citati Matterhorn o al(la) Rigi, al vicino Pilatus, alle vette dell’Oberland bernese oppure alla “montagna nazionale” (intesa idealmente) del Passo del Gottardo; tuttavia i Mythen, e il Grosser in particolare, ha attratto a sé una narrazione più specifica e speciale, priva ad esempio degli afflati alpinistici propri di vette più elevate e spettacolari e maggiormente impregnata di sentimento nazionale tanto quanto di figurazione antropologica. In ciò è senza dubbio un monte iconico nel senso più compiuto del termine, che magari non troverete raffigurato come altri su locandine e gadgets turistici ma che è “Svizzera”, ovvero è la materializzazione dello spirito geopolitico e culturale di un intero paese, probabilmente più di quelli ordinariamente riconosciuti. Se viaggiate oltre Gottardo per andare verso Lucerna o Zurigo oppure ancora più a Nord o viceversa, sia dall’autostrada che dalla ferrovia date un’occhiata verso l’alto e probabilmente lo vedrete, il Grosser Mythen, dacché transiterete quasi ai suoi piedi. E, se l’angolazione, la meteo e gli altri fattori ambientali del momento saranno favorevoli, capirete sicuramente meglio quanto vi ho raccontato fino a qui.
Occupandomi di studiare la relazione che si instaura tra il territorio e le genti che lo abitano, la stessa dalla quale scaturisce il concetto di “paesaggio”, so bene e constato di continuo che si tratta di una relazione prettamente culturale. Di sicuro si struttura attraverso le molte declinazioni del termine “cultura” – storica, antropologica, sociale, geografica, eccetera – ma in ogni caso anche la parte più emozionale della relazione, pur importante, risulta sostanzialmente subalterna alla prima e da questa influenzata.
Tuttavia, quasi con altrettanta frequenza mi rendo conto che il legame che possiamo instaurare con il territorio e il suo paesaggio può risultare ancora più istintivo, ovvero legato a percezioni poco mediate che pescano da suggestioni diverse e “alternative”: per dire, la veduta fotografica che vi propongo qui sopra di primo acchito mi ha suscitato l’impressione di qualcosa di vivo, la visione ravvicinata d’un organismo vivente, come se gli spettacolari calanchi ritratti fossero linee muscolari o articolazioni oppure, se immaginate ad una scala minore, rughe di un’epidermide antica ma per nulla sfibrata, anzi, ricolma di energia e assolutamente dinamica, appunto (e non solo perché in effetti i calanchi sono parti del territorio dotate di “movimento”). Ciò mi ha generato nella mente la sensazione di una potenziale relazione con questo luogo basata in primis sul contatto fisico tra organismi vivi più che su una elaborazione di matrice culturale, cioè sulla considerazione del luogo come parte a contatto di una grande entità con la quale instaurare un legame fisico, prima che mentale e intellettuale.
Da tempo è stata elaborata la concezione della Terra come grande organismo vivente, derivandola nell’idea di fondo dalla mitologia greca (Gea o Gaia – ma in fondo anche il Genius Loci dei Romani in altro modo dà vita ai luoghi così come certo Panteismo) e mediandola con la visione ecologica e olistica (nonché laica) contemporanea su tali temi: ma è un concetto che appare quasi sempre astratto, tanto suggestivo e affascinante quanto immaginifico e sfuggente. In effetti lo è ma, al di là di qualsiasi possibile tematizzazione di esso in chiave ambientalista, se riusciamo a osservare con maggior dettaglio e sensibilità la forma del territorio nel quale ci troviamo, credo che frequentemente possiamo trovare percezioni e parvenze fisiologiche e così elaborare una visione “biologica” del paesaggio atta a generare una relazione con esso più stretta e, appunto più viva oltre che un’essenza soggettiva del territorio e non solo funzionalmente oggettiva. Una relazione che ci può far comprendere meglio l’importanza della conoscenza e della salvaguardia del mondo nel quale viviamo, anche attraverso una forma di “affetto” generata proprio dal pensarci come organismi a contatto e in vincolo, interattivi e interdipendenti, legati da una relazione diversa nella forma ma non nella sostanza a quella che ci lega con qualsiasi altra creatura vivente: toccare la superficie terrestre come tastare un’epidermide che a suo modo genera vita e che dunque non possiamo permetterci di maltrattare, di ferire, di lacerare o sfigurare, se non assumendo tutta la cura e l’attenzione del caso e senza generare danno ma beneficio, proprio come dovessimo curare la pelle d’un’altra persona, di un nostro simile.
Ma a ben vedere, in quanto organismi viventi parte di un unico grande ecosistema, non siamo tutti quanti vicendevolmente simili?
È una visione estremamente immateriale e astratta, questa mia, lo so bene. Eppure anch’essa mi aiuta a comprendere meglio il territorio, il luogo il paesaggio nel quale mi trovo e a relazionarmi con esso, per quanto posso essere capace di fare: nel modo più culturalmente approfondito possibile, certamente, ma non senza l’apporto di quelle libere percezioni emozionali suddette. Solo vaneggiamenti, forse, o forse no. Chissà.
[Mezzogiorno sulle Alpi, 1891, Museo Segantini, Sankt Moritz.]
Ultimamente studiai l’umane forme più precisamente nelle loro bellezza come feci colle pecore, i cavalli, le vacche, e tutti gli altri animali; così passai dalla pianura ai colli da questi ai monti fino alle cime senza altra preoccupazione che di rendere nelle cose quella passione affascinante che mi determinò a concederle tutto il mio amore. Così d’amore, in amore, passai dall’espressione delle belle forme per le forme, alla bella colorazione in sé, e per la conoscenza della luce, e per la conoscenza del colore nella sua bellezza armoniosa e per la conoscenza delle belle forme e delle belle linee e per quella dei bei sentimenti, e per la conoscenza di tutte queste bellezze insieme, credo di poter comporre il mio pensiero verso la bellezza suprema, creando liberamente quello che lo spirito mi detta.
[Giovanni Segantini, Lettera a Vittore Grubicy de Dragon da Maloja, 17 aprile 1898.]
[Il paesaggio di Savognin in Val Sursette/Oberhalbstein (Svizzera) con il Piz d’Err, sullo sfondo, che ispirò a Segantini l’opera sopra pubblicata. Immagine tratta da www.trueriders.it.]