[La Cima Motta, 2336 m, nel comprensorio sciistico di Chiesa in Valmalenco. Foto di Zbigniew Rutkowski, CC BY-SA 3.0, fonte commons.wikimedia.org.]Durante la 26esima edizione delle Giornate del Turismo Montano che si sono svolte a Trento lo scorso novembre, è emersa una delle sfide principali che dovrà affrontare da qui al prossimo futuro il turismo montano: quella di sviluppare un racconto identitario dei territori di montagna, la narrazione dunque non solo dei servizi offerti ma anche – e soprattutto – delle specificità culturali, delle tradizioni, dei prodotti locali e delle esperienze autentiche che si possono vivere nelle terre alte e che rendono ciascun luogo montano unico e peculiare. Uno storytelling peraltro sempre più richiestoe apprezzato da chi decide di passare le proprie vacanze e trascorrere del tempo in montagna.
Ecco infatti come la Valmalenco decide al volo di partecipare a tale così importante sfida turistica:
[Articolo pubblicato da “Il Giorno” il 4 dicembre scorso, si veda anche qui.]«A Cima Motta apriremo un ristorante di pesce, gestito da due cuochi di Pantelleria!» Ma certo, cosa c’è di più tradizionale e identitario per una valle delle Alpi Retiche?
Be’, sarebbe da standing ovation se fosse la gag di uno spettacolo comico… ma non lo è, no.
Per la cronaca, e per chi non conosca il luogo, Cima (o Monte) Motta è il secondo punto più alto del comprensorio sciistico di Chiesa in Valmalenco e lo stabile nel quale si vorrebbe aprire il “ristorante di pesce” è parte della vecchia stazione di arrivo dell’ovovia ormai dismessa da decenni: un fabbricato parecchio vetusto che sarebbe da ristrutturare radicalmente oppure da abbattere, eliminandone l’attuale desolante visione.
In ogni caso, al netto di ciò e pure della “simpatia” che potrebbe suscitare l’iniziativa malenca, capirete bene quali cortocircuiti culturali inneschi lo sci di oggi nel disperato tentativo di restare attrattivo e contrastare l’inesorabile agonia alla quale viene sottoposto dalla crisi climatica e dalle circostanze socioeconomiche attuali – nel mentre che, con tali iniziative bislacche, temo proprio che invece acceleri la propria fine. D’altro canto vorrei proprio sapere chi sia lo sciatore che sale in alta Valmalenco, al cospetto dei ghiacciai del Bernina e a due passi dalla Svizzera, agognando di mangiare un fritto misto di pesce siciliano. Chissà se nel frattempo a Pantelleria giungeranno turisti desiderosi di gustarsi un ottimo piatto di pizzoccheri o di sciatt valtellinesi?!
Mi sa che, a pensarci bene, l’unico «fritto» qui sia lo sci, ormai diventato un «misto» di imprenditoria turistica sgangherata e alienazione culturale sconcertante in balìa degli effetti della crisi climatica, già.
[Veduta panoramica del Sasso Nero, soprastante l’Alpe Palù e il lago omonimo.]In Valmalenco, nel comprensorio sciistico di Chiesa (provincia di Sondrio) con l’approvazione dell’atto integrativo del Patto Territoriale da oltre 20 milioni di euro, si dà il «via libera» alla realizzazione, tra altre cose alcune delle quali sicuramente positive, di «un nuovo impianto di risalita dall’arrivo dell’impianto “Bocchel del Torno” (2.336 metri d’altitudine) a Cima Sasso Nero (2.900 metri d’altitudine) per un importo totale di 4,5 milioni di euro di cui 4 circa finanziati da Regione Lombardia» e «dell’ampliamento della pista blu all’Alpe Palù e la realizzazione di una nuova pista da gara in località Alpe Palù-Barchi e Prati Pedrana per un importo totale di circa 2,5 milioni di euro di cui il 90% (2,3 milioni) finanziato da Regione Lombardia».
Il tutto, secondo l’Assessore alla Montagna della Giunta Regionale lombarda in carica, «per accrescere l’attrattività e fruibilità (della Valmalenco), dotandosi di strutture e servizi in grado di attirare, con un occhio alla sostenibilità ambientale, turisti e sportivi.»
[L’attuale seggiovia che raggiunge la zona soprastante il Bocchel del Torno, dalla cui stazione a monte partirebbe la nuova seggiovia per il Sasso Nero. Immagine tratta da www.skiforum.it.]A tale proposito, se per il secondo intervento sarebbe utile sapere quanti alberi dei boschi di conifere presenti sui versanti coinvolti saranno tagliati e, nel caso, come verranno rimpiazzati, è il primo intervento che inquieta parecchio per quanto, sotto vari aspetti, risulti insensato; avevo già sostenuto tale opinione in questo articolo del maggio scorso. “Insensato” cioè letteralmente privo di senso, come già osservava lo stesso CAI valtellinese mesi fa:
La costruzione di questa nuova seggiovia quadriposto per rendere fruibile un versante in alta quota per attività di freeride (fuoripista in neve fresca), è però contrastante con le condizioni nivologiche di quella zona: si tratta di versanti soleggiati e rocciosi dove la neve spesso scarseggia o si trasforma rapidamente in crosta, risultando inadatta per poter essere sciata in freeride. Basti pensare che, nella stagione 2024-2025, caratterizzata da poche precipitazioni, una seggiovia al Sasso Nero avrebbe potuto operare soltanto pochi giorni, lontanissima dalle ottimistiche previsioni di 150 giorni di esercizio annuo ipotizzate nel Patto. Anche se si pensasse di realizzare una pista battuta, i limiti risultano comunque evidenti, infatti il muro della pista a valle evidenzia che, anche la pista battuta, ogni stagione, a causa del disgelo pomeridiano, nella notte si trasforma in una lastra di ghiaccio prima di ogni altra pista del comprensorio. Non si tratta solo di un errore tecnico, ma di una contraddizione culturale e politica. È opportuno ricordare che lo stesso “Patto Territoriale” (Allegato 1, pag. 68) raccomanda di tenere in debita considerazione gli effetti del cambiamento climatico e di promuovere un modello di sviluppo improntato alla sostenibilità integrale (Allegato 1, pag. 42). […] E allora? Come si giustifica un progetto così fragile, costoso, impattante e realizzato a discapito di altre opere più importanti per la Valmalenco?
D’altro canto, anche senza leggere le considerazioni del tutto obiettive del CAI valtellinese, qualsiasi frequentatore della zona che abbia salito il Sasso Nero in inverno o che lo abbia osservato da valle sa benissimo che la montagna, così esposta a meridione e dunque costantemente in pieno Sole, già da anni (ovvero ben prima che le conseguenze della crisi climatica diventassero evidenti) resta priva di neve o quasi oppure, come osserva il CAI, se pur nevicasse molto le condizioni della neve sarebbero costantemente opinabili per la pratica dello sci.
[Il versante del Sasso Nero lungo il quale salirebbe la nuova seggiovia; come si vede, la zona anche se innevata è ricca di rocce scoperte la cui presenza peraltro accelera la fusione del manto nevoso. Immagine tratta da www.skiforum.it.]Dunque, perché insistere con un impianto talmente insensato che, per quanto appena rimarcato, genererà soltanto l’inutile devastazione della montagna, uno dei balconi panoramici in quota più belli sulla Valmalenco e sul gruppo del Bernina? Perché svenderne in modi talmente scriteriati la sua bellezza e le valenze naturalistiche e paesaggistiche, buttandoci 4,5 milioni di Euro (nel 2022, ora probabilmente di più)? Che senso ha? Come può essere ambientalmente sostenibile un impianto del genere, e come potrebbe accrescere l’attrattività del luogo, se invece in buona sostanza ne deturpa una parte importante del territorio degradandone di conseguenza l’immagine turistica?
Anche lo stesso CAI Valmalenco si è espresso in maniera critica sul progetto della nuova seggiovia, e, giusto a proposito dell’attrattività che l’impianto si dice accrescerebbe, ha evidenziato a sua volta che
Una nuova seggiovia, inserita in un contesto in cui ci sono così tante cose che potrebbero essere sistemate, non andrebbe ad aumentare la percezione del valore della ski-area, ma anzi andrebbe ancor più ad aumentare la mancanza di coordinamento, lo squilibrio e la disarmonia che già oggi sono evidenti nella ski-area.
[Veduta panoramica e “didattica” del Sasso Nero, tratta da www.paesidivaltellina.eu.]Ribadisco: la montagna è un ambito tanto meraviglioso e di grandi potenzialità quanto fragile e delicato, oggi ancora di più in forza della crisi climatica in divenire e delle fenomenologie socioeconomiche e demografiche in corso da tempo, i cui problemi complessi non possono avere soluzioni troppo semplici e mal pensate, decontestuali, prive di relazione con i territori e le loro realtà, proposte per fini diversi da quelli atti ad uno sviluppo territoriale autenticamente organico e dotato di visione nel tempo, anche per non sprecare risorse pubbliche che potrebbero essere ben investite in altri interventi più consoni, puntuali e veramente utili ai bisogni delle comunità locali. Altrimenti, invece di contrastarlo, non si farà altro che accelerare il degrado – ambientale, economico, sociale, umano – dei territori montani. Un’eventualità che le nostre montagne non si meritano affatto.
P.S. – Pre Scriptum: dissertare di sci e neve anche in piena estate? Certamente! Perché la crisi climatica e le dinamiche socio economiche che condizionano il turismo sciistico non fanno le ferie estive, e perché quanto accade sulle montagne ha bisogno di costante attenzione e visione lunga nel tempo: qualcosa che sovente manca, nella gestione del turismo invernale – e le conseguenze negative di ciò si vedono, purtroppo.
[Le piste di Nara, stazione sciistica in Valle di Blenio, Canton Ticino, senza neve nel febbraio 2023.]
Il cambiamento climatico sta trasformando la Svizzera e questo è particolarmente evidente nelle regioni turistiche. “L’aumento delle temperature è fatale per le attività turistiche sugli sci”, afferma Monika Bandi, direttrice del Centro di ricerca sul turismo dell’Università di Berna. “A ciò si aggiungono precipitazioni intense più frequenti in estate, inverni con meno pioggia e lo scioglimento del permafrost, che può rendere instabili i pendii”.
Il problema maggiore legato all’aumento delle temperature riguarda però le località di sport invernali. “Garantire 100 giorni all’anno con un manto nevoso di 30-50 cm sta diventando sempre più irrealistico”, afferma Bandi. Secondo una scheda informativa di Funivie Svizzere, l’isoterma di zero gradi salirà di altri 300 metri entro il 2050. In futuro, le precipitazioni cadranno più sotto forma di pioggia che di neve, soprattutto all’inizio e alla fine dell’inverno. La stagione sciistica sarà quindi più corta. I cannoni da neve non potranno compensare questa mancanza, poiché funzionano solo nei giorni con temperature inferiori a 0 °C.
Quanto saranno profonde le trasformazioni per le stazioni sciistiche svizzere è difficile da prevedere. “Oggi non sono più molti i bambini che imparano a sciare”, osserva Monika Bandi. Tra 10 o 20 anni, s’interroga la ricercatrice, ci sarà ancora il desiderio di spendere 80 o 100 franchi per una giornata sugli sci?
Anche l’associazione Funivie Svizzere prevede un calo della domanda nella sua strategia di adattamento. Già oggi, oltre 60 impianti di risalita sono all’abbandono e con l’aumento delle temperature il loro numero è destinato a crescere.
C’è poco da commentare e molto da riflettere, a fronte di tali evidenze. In Svizzera da tempo lo stanno facendo, in Italia molto meno. Certo li posso capire, i gestori dei comprensori sciistici, messi ormai con le spalle al muro dalla crisi climatica, dalla situazione economica, dal cambio dei costumi e delle abitudini di chi frequenta le montagne in inverno.
[Immagine tratta da www.radiocittafujiko.it.]Ma a fronte della comprensione delle loro difficoltà, quei gestori (e i loro sodali, soprattutto in politica) devono a loro volta comprendere che in molte località l’attività sciistica è ormai al capolinea (se non già oltre) e che la loro perseveranza nel continuare a mantenerla e a rifiutare la transizione a forme di frequentazione turistica invernale più consone ai tempi non è affatto una forma di resilienza ma un’imposizione di sofferenza alle montagne e alle loro comunità, tenute in ostaggio di quel loro business ormai esaurito e per ciò incapaci – ovvero privati degli strumenti al riguardo – di sviluppare ogni altra forma di economia ecosistemica locale. Realtà ancora più grave nel caso in cui i finanziamenti pubblici, invece di sostenere lo sviluppo socioeconomico locale, vengano impiegati per realizzare nuovi impianti e piste di discesa a quote dove ormai lo sci è ormai qualcosa di utopico.
È difficile cambiare, certamente, ma è altrettanto ineludibile: altrimenti non saranno solo gli impianti e le società che li gestiscono a fallire e chiudere ma l’intero territorio che li ospita. Un’eventualità che non è possibile accettare, in nessun modo.
[Le montagne dell’Alta Valle Brembana nella zona dei Laghi Gemelli, in comune di Branzi. Immagine tratta da https://primabergamo.it.]Anche le valli montane bergamasche stanno sempre più diventando un caso emblematico in tema di gestione (o non gestione) politica dei territori montani.
Notizie recenti sulla stampa locale: le valli montane della Provincia di Bergamo, secondo l’Ispra, sono al 16° posto nella classifica nazionale per rischio frane (in una Lombardia che risulta la regione con il numero più alto di frane censite), ciò evidenziando la necessità di maggiori fondi pubblici per prevenire il dissesto idrogeologico e intervenire in caso di emergenze.
L’ASST locale chiede a gran voce aiuti alla politica per agevolare l’arrivo e la presenza di nuovi infermieri per gli ospedali di montagna, già in crisi di risorse da tempo come ben sappiamo, i quali altrimenti sono sempre più a rischio di chiusura.
In molte zone montane della provincia il segnale telefonico, per non parlare della connessione web, sono assenti, generando grossi problemi tanto ai residenti quanto a chi lassù vuole e vorrebbe lavorare in condizioni degne, per giunta in attività economiche che aiuterebbero i territori a mantenersi vivi. La scorsa settimana la questione «è stata sottoposta a Regione e deputati. Ma per ora, tutto resta fermo.»
Ecco, appunto: regione, deputati, enti pubblici… la politica.
Come risponde la politica a questi bisogni fondamentali per chi vive sulle montagne bergamasche?
Spendendo le risorse che dovrebbero essere impiegate per soddisfare i bisogni dei residenti per finanziare insensati progetti turistici come (un esempio tra i tanti) quello di Piazzatorre, in Valle Brembana: ben 15 milioni e rotti di Euro per un comprensorio sciistico posto sotto i 1800 metri di quota destinato per mille ragioni – climatiche, ambientali, economiche, socioculturali… – ad un inevitabile fallimento. Per non dire di Colere-Lizzola, dove le risorse pubbliche previste ammonterebbero (al momento) addirittura a 50 milioni di Euro.
Poste tali cifre, e viste le criticità sopra elencate (ma ve ne sarebbero altre di citare): va bene così?
È in questo modo che pensiamo di salvare le montagne dallo spopolamento, come ci viene continuamente ripetuto, e di rivitalizzarne le comunità e le economie locali? Costruendo impianti e piste dove non si scia più e lasciando franare strade, chiudere ospedali, e togliendo di fatto un servizio elementare come il telefono?
E quante altre situazioni simili possiamo constatare sulle montagne italiane, con la politica sensibilissima a certe iniziative molto d’immagine e invece poco o nulla nei riguardi dei bisogni concreti e delle necessità fondamentali delle comunità che in montagna vivono e vorrebbero continuare a farlo degnamente e non da cittadini di serie B o C?
[Veduta del territorio di Piazzatorre. Immagine tratta da www.in-lombardia.it.]Riguardo l’evoluzione del clima in corso sulle montagne, in particolar modo su Alpi e Prealpi, la scienza fornisce dati incontrovertibili: le temperature sono in costante aumento, le regioni alpine nel complesso sono un hot spot climatico, ovvero un ambito nel quale gli effetti del riscaldamento globale sono più marcati rispetto alla media globale; le nevicate sono in diminuzione da anni mentre lo zero termico medio invernale sale sempre più in alto: già oggi sulle Prealpi italiane è posto tra i 1700 e i 1800 metri, il che sposta la possibilità di permanenza continuativa della neve al suolo in inverno oltre i 2000 metri. Ciò si ripercuote direttamente sulla pratica dello sci, per la quale c’è sempre meno neve, resta al suolo per meno tempo e le temperature in aumento impediscono di produrre quella artificiale, rendendo i comprensori sciistici post sotto i 2000 metri insostenibili non solo climaticamente e ambientalmente ma anche economicamente. Infatti, non a caso, di gente che sale sui monti per sciare ce n’è sempre meno e quando ci va si dedica ad altre attività meno dipendenti dagli effetti della crisi climatica.
Posta tale realtà di fatto inoppugnabile, come detto, e d’altro canto sotto gli occhi di tutti, a Piazzatorre, in alta Valle Brembana (Provincia di Bergamo), si spenderanno 15,4 milioni di Euro pubblici per riqualificare un comprensorio sciistico posto interamente sotto i 1800 metri di quota, cioè dove non nevica più e non ci sono le temperature adatte per produrre neve artificiale e mantenerla al suolo per un tempo funzionale alla pratica sciistica.
Sono soldi buttati al vento. Punto.
Non c’è altro da dire al riguardo (e la questione l’avevo già denunciata tempo fa, qui).
Non vi sarà nessun «accrescimento dell’attrattività e del potenziale economico favorendo, quindi, il contrasto al fenomeno dello spopolamento» come affermano dalla Regione Lombardia che metterà la gran parte dei soldi – peraltro le solite frasi fatte enunciate in tali occasioni, alle quali ormai credono solo gli allocchi – e nemmeno la pretesa “destagionalizzazione” (altra parola del tutto abusata) porterà alcun vantaggio al territorio in questione, perché nessun vantaggio concreto può venire da una frequentazione turistica basata esclusivamente sulla fruizione in stile luna park del territorio montano che produce flussi incostanti e relativi fenomeni di overcrowding, cioè di sovraffollamento temporaneo, con tanta gente nei fine settimana e il deserto nei giorni feriali.
[La località Gremelli sul Monte Torcola Vaga, sopra Piazzatorre, in un recente inverno senza neve. Foto di Andrea Comi tratta da www.komoot.com.]Vantaggi reali e concreti per i territori come quello di Piazzatorre si producono invece con un piano di sviluppo territoriale strutturato, articolato nel lungo periodo, che sostenga e metta in rete tutte le economie locali, senza che quella turistica risulti predominante e assoggettante, e che abbia come obiettivo principale da un lato il potenziamento dei servizi ecosistemici a supporto della comunità locale e dall’altro la cura ambientale e culturale del territorio, anche a favore della rigenerazione del senso di comunità. In cose del genere avrebbe assolutamente senso spendere tutti quei soldi pubblici, non certo in progetti insensati, fuori dal tempo, già in partenza destinati al fallimento e che provocheranno un ulteriore inaccettabile degrado del territorio nonché della relazione culturale con esso dei suoi abitanti.Sono 15,4 milioni – quindici-virgola-quattro milioni – di Euro buttati al vento, ribadisco. E con questo denaro pubblico viene buttato al vento il futuro di un intero territorio e della sua comunità.
[Il centro di Piazzatorre. Immagine tratta da www.altobrembo.it.]Nel frattempo, nella stessa Valle Brembana a poca distanza da Piazzatorre, un’altra scuola di montagna chiuderà: quella di Laxolo, e ciò in forza dei mancati investimenti pubblici atti a favorirne la permanenza degli alunni su volontà dei genitori, che si sono visti costretti a mandare i propri figli in altri plessi al momento più attrezzati (ma chissà fino a quando).
In mezzo secolo nei venti comuni dell’alta Valle Brembana le scuole elementari sono scese da 25 a 4 – ma si contino anche quanti presidi sanitari hanno chiuso, quanti uffici postali e sportelli bancari, quante linee di trasporto pubblico sono state soppresse, quanti interventi concreti a favore delle comunità residenti e della loro quotidianità sono stati messi in atto… E poi si spendono più di 15 milioni di Euro di soldi pubblici in impianti sciistici dove non nevica più? Oltre agli altri progetti in corso, ovviamente, con ancora più denaro pubblico in ballo: buttato in tali assurdità e così tolto a interventi veramente necessari alla popolazione locale.
Ma di cosa stiamo parlando? O, per meglio dire: ma di quale devianza mentale e morale stiamo parlando? Veramente crediamo che la montagna si salverà così?
P.S.: non bisogna dimenticare che Piazzatorre detiene un altro primato (o quasi) piuttosto sconcertante: duemilacinquecento seconde case – 2.500! – a fronte di sole duecento prime case. E riaprire il suo comprensorio sciistico peraltro insostenibile sarebbe sul serio la cosa principale da fare, lassù?