La Svizzera (e la “Svizzeritudine”), secondo Gottfried Keller

Seldwyla, secondo l’antica parlata, indica una località solatia e deliziosa, che si trova da qualche parte in Svizzera. Essa è ancora circondata da alte mura e torri, come lo era trecento anni fa, ed è rimasta sempre lo stesso nido; l’originale e profondo intendimento di questo insieme è stato consolidato dalla circostanza, che gli stessi fondatori della città, si erano posti a una buona mezz’ora da un fiume navigabile, con il chiaro segno, che non se ne sarebbe fatto nulla. Ma essa è sistemata bene, nel mezzo di verdi monti, troppo esposti a mezzogiorno, cosicché il sole la può investire appieno, ma neppure un alito di vento la sfiora. Così vi cresce attorno alle antiche mura un buon vitigno, mentre più in alto sui monti si estendono zone boscose, che costituiscono il patrimonio della città; perciò è questo stesso un emblematico e curioso destino, che la comunità sia ricca ma la cittadinanza povera e precisamente che nessuna persona di Seldwyla abbia qualcosa e nessuno sappia, di che cosa essi da secoli vivano.

(Gottfried Keller, Kleider machen leute (“Gli abiti fanno le persone”) in Die Leute von Seldwyla (“La gente di Seldwyla”), 2a ed. 1873-1874.)

Gottfried Keller in un disegno di Karl Stauffer-Bern del 1887

Quella descritta da Keller, scrittore “nazionale” svizzero per eccellenza ovvero uno dei più significativi in senso assoluto della letteratura elvetica (ma pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano), è una località immaginaria, Seldwyla, che tuttavia compendia in modo letterariamente efficace i principali caratteri della Confederazione e delle sue genti: il paesaggio montano e boscoso (patrimonio della città così come della Svizzera reale, innegabilmente) e la cura agricola delle terre (i vitigni) ma pure la difesa di esse (le alte mura e le torri), la concretezza degli abitanti (il fondare la città a mezz’ora da un fiume navigabile) così come una certa condizione sociale, e socioeconomica, che per certi versi è emblematica anche per la contemporaneità elvetica. Come si può leggere su Wikipedia nella voce dedicata alla novella da cui è tratto il testo qui citato, “Persone di poche parole, gli abitanti di Seldwyla, ridono raramente e non perdono tempo ad immaginare storielle divertenti ed altre amenità. Essi non vogliono saperne di politica, che, secondo loro, conduce spesso a guerre, che loro, essendo da poco arricchiti, temono più del diavolo.

Ecco: svizzeri, appunto. Oggi che è il 1° di agosto, la Festa Nazionale Svizzera, anche di più.

Scrivere romanzi è come impilare gattini esausti (Haruki Murakami docet)

Cosa significa scrivere romanzi? – e, in modo ancor più assoluto: cosa significa scrivere?
E’ una domanda che chiunque scriva, credo, per mestiere o per diletto, dovrebbe porsi di continuo. Forse alcuni se la sono posta troppe poche volte, magari certi nemmeno una. Personalmente, temo di pormela fin troppo…
Ed è una domanda che ha infinite risposte: le più istintive può darsi siano banali, tante altre assai più profonde, radicate nell’essenza più intima dello scrittore e da essa scaturenti con un processo non certo facile, forse anche ostico e tribolato ma, appunto, assolutamente fondamentale da attuare.
Ecco cosa scrive al proposito Haruki Murakami, il più importante scrittore giapponese contemporaneo, certo con visione parecchio orientale ma anche per questo curiosa e interessante.

La memoria è qualcosa di simile a un romanzo, o forse un romanzo è qualcosa di simile alla memoria.
Da quando ho incominciato a scrivere, provo veramente questa sensazione, che tra memoria e romanzo vi sia una somiglianza. In entrambi i casi, ci si sforza di mettere tutto in ordine, ogni cosa al suo posto, ma il contesto tende a sfuggire, e alla fine si dilegua. Come mettere quattro gattini esausti uno sull’altro. Caldi di vita, e tremendamente instabili. Ogni tanto mi dico che è imbarazzante considerare un tale materiale alla stregua di merce – merce, vi rendete conto? A volte mi capita davvero di arrossire. E se divento rosso io, lo diventano tutti.
Tuttavia, se si prende l’esistenza umana come una condotta stupida basata su motivi relativamente puri, il problema di cosa sia giusto o sbagliato perde drammaticità. E da lì nasce la memoria, nasce il romanzo. Un meccanismo di moto perpetuo che nessuno può arrestare. Percorre rumorosamente il mondo intero, tracciando sul suolo una linea ininterrotta.
Speriamo che vada tutto bene, dice uno. Ma non c’è motivo che vada bene. E neanche nessuna prova che sia andata bene.
Allora cosa bisogna fare?
Allora io cerco di radunare di nuovo i gattini e di metterli uno sull’altro. Sono stanchi morti e mollissimi. Cosa penserebbero se si svegliassero e scoprissero di essere stati messi in pila come della legna per un fuoco da campo? “Oh, c’è qualcosa di strano”, si direbbero forse. In quel caso – se la reazione fosse tutta lì – io ne ricaverei un piccolo aiuto.
E’ questo che volevo dire.

Haruki Murakami, L’elefante scomparso e altri racconti, Einaudi 2009, pag.93.