Il popolo degli alberi

[Foto di Chris Lawton da Unsplash.]
Kahlil Gibran affermò che «Se un albero scrivesse l’autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo.» Gli alberi come un popolo, già, ovvero boschi e foreste come “collettività”. Non siamo certamente adusi a definizioni del genere, per gli alberi, e invero già fatichiamo a non considerarli meri oggetti, a riconoscere a essi un valore vitale come quello di ogni altra creatura che dimora sul pianeta ed è dotata di moto.

D’altro canto, cosa definiamo noi “popolo”, normalmente? Una comunità umana, non altro; semmai a volte lo utilizziamo per certe comunità animali ma, al nostro solito, con accezione e punto di vista del tutto antropocentrici, come forma imitativa del nostro vivere sociale o per mera definizione funzionale se non pittoresca. E perché gli alberi non lo sarebbero, invece? Solo perché non si muovono come noi, non hanno occhi, bocche, arti, non si cibano come noi e non emettono suoni o versi? Perché non ci assomigliano in nulla, insomma? Ma se un albero per assurdo parlasse e sostenesse dal suo punto di vista la stessa cosa di noi umani, che non saremmo un “popolo” dacché siamo così diversi dalle loro comunità, non ce la prenderemmo e non ci sentiremmo offesi?

Lo so, potreste considerare tali mie elucubrazioni come quelle sul sesso degli angeli; in verità credo che non sia granché diffusa una consapevolezza adeguata su cosa siano gli alberi ovvero, in generale, su quante forme di vita differenti dalla nostra e da quelle a essa affini abbiamo intorno che non sappiamo identificare come meriterebbero. Per l’appunto, gli alberi sono l’esempio migliore di una forma di vita diversa, che assimilare alla nostra risulta fuori luogo ma con la quale relazionarsi come con ogni altra di tipo animale è fondamentale – tanto più che, come dimostra con sempre maggior compiutezza la scienza, trattasi a suo modo di una vita intelligente, cioè con modalità anche qui differenti dalle nostre ma non per questo meno considerabili. Credo sia importante conseguire questa consapevolezza riguardo la presenza degli alberi nello spazio-tempo mondano e tra di noi, ovvero sia necessario considerarne la peculiare importanza: sovente gli alberi, tanto più quelli che da tempo (magari anche da millenni) dimorano nei rispettivi spazi vitali non sono soltanto divenuti parte del paesaggio naturale dei luoghi che li ospitano ma pure delle geografie umane e sociali lì presenti e storicamente consolidate, presenze identitarie e culturali che con tutte le altre hanno costruito il luogo e la sua vitalità in ogni aspetto di essa. Bisogna assolutamente considerare non solo la nostra visione antropica verso di essi, c’è da capire a fondo anche la loro “visione” verso di noi umani, comprendere quanto la loro presenza nel tempo – e nel loro tempo, a sua volta diverso da quello degli uomini e più affine a quello della Terra – ha influito sullo sviluppo delle comunità umane, delle relazioni in esse e con la specifica realtà del luogo, sulla definizione del paesaggio locale e su come, in esso, la presenza arborea sia (nel passato e nel presente) assolutamente in equilibrio con quella degli uomini, degli animali e di qualsiasi altro elemento che quel paesaggio forma.

Un’autentica cura e sensibilità verso i territori in cui viviamo, i loro ambienti naturali e il paesaggio che se ne percepisce credo necessiti della consapevolezza suddetta: non solo per meglio salvaguardare il bosco – o per relazionarsi meglio ad esso negli spazi antropizzati ove sia presente – ma più in generale per comprendere meglio la dimensione ecosistemica della quale facciamo parte e comprenderci adeguatamente in essa, come elementi armoniosi e virtuosi. È una piccola azione, peraltro meramente immateriale e culturale, richiede pochissimo sforzo e solo un poco di attenzione ma può conseguire grandi risultati, già.

P.S.: sono considerazioni, queste che avete appena letto, ispirate dalle lunghe e belle chiacchierate con l’amico Tiziano Fratus, Homo Radix e cercatore di alberi, raffinato scrittore di libri sul tema e spirito tra i più affini alla meravigliosa dimensione silvestre.

La montagna anonima (e pure un po’ ridicola)

Tornando alla montagna vista dal cittadino, la città ha segnato indelebilmente il paesaggio alpino nella memoria collettiva, che ha captato l’idillio dell’alpe e se lo è portato in città mediante una sovrapposizione al tessuto urbano di improbabili castelletti neogotici montani o peggio ancora di finti chalet o portinerie realizzate come cabine elettriche alpestri che replicano la miniatura della montagna; viceversa la stazione alpina moderna è essa stessa un modellino in scala del corso cittadino.
Ma qualsiasi riduzione, in architettura come nella socialità dell’abitante, che in città difficilmente indossa i calzoni alla zuava, porta all’anonimato oltre che al ridicolo: il rischio è la perdita dell’identità a favore dell’impersonalità urbana, cosi pericolosa.

(Luciano Bolzoni, Abitare molto in alto. Le Alpi e l’architettura, Priuli & Verlucca, 2009, pag.144.)

Essere un po’ orsi

Ora, comunque, ditemi ciò che volete e guardatemi storto, se lo ritenete il caso, ma non potete negare che essere un po’ “orsi” – come effettivamente sono io, lo ammetto, nonostante la mia vena sociale a volte fervida e niente affatto repressa – è uno dei migliori metodi di autodifesa nel corso di una pandemia come questa. Si tornerà quanto prima possibile, mi auguro, a produrre tutti insieme socialità, assembramenti e baldorie, ma nel frattempo bersi una birra in distanziata solitudine non è ‘sta gran tragedia, alla fine.

N.B.: che poi sulla “solitudine” ci ho già disquisito in modo articolato, qui sul blog. Date un occhio a questo post, ad esempio.

Quando si abbattono i grandi alberi

[Il Ficus macrophylla dei Giardini Garibaldi nel centro di Palermo, considerato l’albero più grande d’Europa. Foto di Carlocolumba – Galleria Fotografica Siciliana, CC BY-SA 3.0, fonte: commons.wikimedia.org.]

«Il continuo abbattimento dei plurisecolari e maestosi “alberi padre”, Patriarchi della Natura, nei boschi, nelle campagne e persino nei viali e nei parchi cittadini, costituisce un “crimine ecologico” che non può avere giustificazione di sorta, e questo proprio nel momento in cui ogni Paese del mondo riscopre il valore inestimabile dei “Patriarchi verdi” sul piano non solo naturalistico, ma anche economico, sociale e culturale.»

(Franco Tassi, Alberi Sacri, citato in Tiziano Fratus, Alberi Millenari d’Italia, Gribaudo – Idee Editoriali Feltrinelli, 2021, pag.26.)

Quante volte leggiamo notizie che riferiscono del taglio, nei nostri paesi e nelle nostre città, di grandi alberi per far posto a nuovi parcheggi, strade o cantieri d’ogni genere! E spesso le amministrazioni pubbliche coinvolte rispondono dicendo che i tagli previsti sono “inevitabili”  e verranno compensati dalla messa a dimora di tot nuove piante, rivendicando che alla fine saranno più quelle nuove di quelle abbattute. Va bene, la risposta è nel principio anche apprezzabile, se seguita da fatti concreti e interventi ben fatti (cosa non automatica, dalle italiche parti). Il problema però è un altro: è il tagliare certi alberi che non sono alberi come altri ma autentici e fondamentali pezzi di paesaggio, marcatori referenziali (magari da secoli) di luoghi e punti di interesse socioculturale per la città, elementi identitari che determinano l’immagine e la percezione di un angolo cittadino addensando su di sé l’intera storia vissuta in loco. Sono “Patriarchi verdi” tanto quanto urbani, capaci di aver trovato nel tempo un equilibrio ecosistemico (pur circoscritto) con l’ambiente antropico e urbano d’intorno e con tutta la territorializzazione lì realizzata. Ma ancor più, ribadisco, sono creature con le quali il luogo nel tempo ha intessuto una relazione di natura geoidentitaria e culturale, magari pure spirituale oltre che affettiva: eliminare tali alberi da questi luoghi significa in qualche modo eliminare i luoghi stessi e il loro vissuto nel tempo. Se ne crea uno nuovo, di “luogo”, magari non più brutto ma certamente diverso e sicuramente meno vitale – o potrei dire meno vivo, cioè poco o per nulla dotato di evidente, percepibile vitalità come quella che un grande albero sa trasmettere a chiunque se lo trovi davanti agli occhi e nella propria visione del paesaggio locale.

Ha ragione Tassi: il taglio di un grande albero è quasi sempre la manifestazione di un crimine ecologico e pure culturale, sociologico, ambientale e paesaggistico, tanto più che non di rado questi tagli potrebbero essere tranquillamente evitati con meno intransigenza e più intelligenza da parte dei progettisti e degli uffici tecnici. Opporsi a tali azioni è un atto di senso civico, di difesa del paesaggio e di salvaguardia identitaria del luogo e della sua vivibilità. E non ultimo, di protezione della sua bellezza – la bellezza che i grandi alberi manifestano ovunque vivano e suscitano in noi.

Tiziano Fratus, “Alberi millenari d’Italia”

Un breviario, come saprete, è un libro che contiene un compendio o un sommario di cose legate a un certo tema, ovvero una raccolta ordinata di opere, estratti, cataloghi, inventari e altro di carattere sostanzialmente omogeneo; con accezione religiosa, è un volume liturgico composto di salmi, inni, preghiere e letture, ordinati secondo le ore del giorno. Tiziano Fratus i suoi libri li definisce silvari, con un neologismo di sua creazione che dal suddetto termine proviene e che ne coglie alcune caratteristiche ma che non sarebbe corretto pensare come mero sinonimo arboreo-letterario di quello. Alberi millenari d’Italia (Gribaudo – Idee Editoriali Feltrinelli, 2021), il suo ultimo libro, certamente può essere inteso come un “breviario” ovvero un compendio delle creature silvestri le cui caratteristiche esplicita da subito il titolo, degli alberi più vetusti, sovente dotati anche del titolo di “monumentali”, che si possono trovare sul territorio italiano, visitati da Fratus che nei vari capitoli racconta del suo incontro con tali vegliardi arborei. In tal senso il silvario, breviario silvestre, può essere letto come una vera e propria guida alla visita a questi grandi vecchi – a volte malandati, altre volte ancora floridi, comunque emozionanti come può esserlo stare accanto a una creatura che vive da mille e più anni – e a una forma di turismo ai luoghi che li ospitano che più “eco” e “green” non potrebbe essere, almeno nello spirito.

Ma risolvere così Alberi millenari d’Italia, un po’ come gli altri libri di Fratus e forse, se posso dire, anche più di essi, significherebbe ridurre grandemente il suo e loro valore. Il libro infatti appare un compendio anche per il pensiero dendrosofico dell’autore, una sorta di ulteriore e più appassionata testimonianza del suo essere Homo Radix, legato alle creature arboree non solo da una passione botanico-letteraria ma anche da una forma personale di spiritualità []

(Potete leggere la recensione completa di Alberi millenari d’Italia cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)