Un breviario, come saprete, è un libro che contiene un compendio o un sommario di cose legate a un certo tema, ovvero una raccolta ordinata di opere, estratti, cataloghi, inventari e altro di carattere sostanzialmente omogeneo; con accezione religiosa, è un volume liturgico composto di salmi, inni, preghiere e letture, ordinati secondo le ore del giorno. Tiziano Fratus i suoi libri li definisce silvari, con un neologismo di sua creazione che dal suddetto termine proviene e che ne coglie alcune caratteristiche ma che non sarebbe corretto pensare come mero sinonimo arboreo-letterario di quello. Alberi millenari d’Italia (Gribaudo – Idee Editoriali Feltrinelli, 2021), il suo ultimo libro, certamente può essere inteso come un “breviario” ovvero un compendio delle creature silvestri le cui caratteristiche esplicita da subito il titolo, degli alberi più vetusti, sovente dotati anche del titolo di “monumentali”, che si possono trovare sul territorio italiano, visitati da Fratus che nei vari capitoli racconta del suo incontro con tali vegliardi arborei. In tal senso il silvario, breviario silvestre, può essere letto come una vera e propria guida alla visita a questi grandi vecchi – a volte malandati, altre volte ancora floridi, comunque emozionanti come può esserlo stare accanto a una creatura che vive da mille e più anni – e a una forma di turismo ai luoghi che li ospitano che più “eco” e “green” non potrebbe essere, almeno nello spirito.
Ma risolvere così Alberi millenari d’Italia, un po’ come gli altri libri di Fratus e forse, se posso dire, anche più di essi, significherebbe ridurre grandemente il suo e loro valore. Il libro infatti appare un compendio anche per il pensiero dendrosofico dell’autore, una sorta di ulteriore e più appassionata testimonianza del suo essere Homo Radix, legato alle creature arboree non solo da una passione botanico-letteraria ma anche da una forma personale di spiritualità che ripone nella presenza-essenza dell’albero un perno attorno al quale sviluppare riflessioni, osservazioni e meditazioni sul mondo e sulle cose della vita – che definire “zen” mi sembra pure in tal caso non tanto limitante quanto non del tutto consono, se si usa il termine come comunemente viene inteso (ancorché Fratus sia uno studioso del Buddhismo zen; ma forse sono io che colgo il termine come fin troppo abusato e frainteso, oggi).
Tuttavia, dalla lettura di Alberi millenari d’Italia ne ho ricavato un’ulteriore e più articolata interpretazione, paradigmaticamente sovversiva se così posso dire. Qualche giorno fa sul blog ho pubblicato un verso molto significativo di Kahlil Gibran: «Se un albero scrivesse l’autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo.» Un popolo, già. Ma cosa definiamo noi “popolo”, normalmente? Una comunità umana, non altro; semmai a volte lo utilizziamo per certe comunità animali ma con accezione e punto di vista del tutto antropocentrici, come forma imitativa del nostro vivere sociale o per mera definizione funzionale. E perché gli alberi non lo sono, invece? Solo perché non si muovono come noi, non hanno occhi, bocche, arti, non si cibano come noi e non emettono suoni o versi? Perché non ci assomigliano in nulla, insomma? In realtà gli alberi sono portatori di una forma di vita diversa, che assimilare alla nostra risulta fuori luogo ma con la quale relazionarsi come con ogni altra di tipo animale è fondamentale – tanto più che, come dimostra con sempre maggior compiutezza la scienza, trattasi di una vita intelligente, a suo modo. Dalla lettura di Alberi millenari d’Italia scaturisce a mio parere anche questa consapevolezza riguardo la presenza degli alberi nello spazio-tempo mondano e tra di noi, ovvero un’indicazione a considerarne la peculiare importanza: sovente i grandi patriarchi arborei non sono soltanto divenuti parte del paesaggio naturale dei luoghi che li ospitano ma pure delle geografie umane e sociali lì presenti e storicamente consolidate, presenze identitarie e culturali che con tutte le altre hanno costruito il luogo e la sua vitalità in ogni aspetto di essa. Bisogna assolutamente considerare non solo la nostra visione antropica verso di essi, c’è da capire a fondo anche la loro “visione” verso di noi umani, comprendere quanto la loro presenza nel tempo – e nel loro tempo, a sua volta diverso da quello degli uomini e più affine a quello della Terra – ha influito sullo sviluppo delle comunità umane, delle relazioni in esse e con la specifica realtà del luogo, sulla definizione del paesaggio locale e su come, in esso, la presenza arborea sia (nel passato e nel presente) assolutamente in equilibrio con quella degli uomini, degli animali e di qualsiasi altro elemento che quel paesaggio forma. Quando noi osserviamo un albero millenario nel momento in cui vi stiamo di fronte – un momento contestuale al nostro tempo, l’albero “osserva” noi e il nostro mondo con una prospettiva temporale molto più lunga e ampia che si fa memoria silvestre di se stesso e del suo popolo arboreo così come del mondo che ha intorno, umani compresi che nei secoli hanno osservato l’albero e vi hanno (con)vissuto intorno. Non è solo una questione di vetustà e di relativo suggestivo fascino naturalistico, insomma: la presenza di grandi alberi secolari e millenari determina un dialogo immateriale eppure peculiare tra la nostra antropologia e la loro dendrologia in relazione al luogo e parimenti sviluppato nell’incontro tra i rispettivi piani temporali e cronologici, che trovano un equilibrio proprio nell’albero, se così posso dire. È un dialogo che una adeguata sensibilità può cogliere in tutta questa sua profondità speculativa fino a evolvere in dendrosofia ma che, anche senza troppi sforzi intellettuali, sarebbe bene che ogni persona cercasse di attivare, così da perseguire quella sufficiente consapevolezza che renderebbe la nostra relazione con gli alberi qualcosa di (se posso permettermi) meno “pittoresco” e folcloristico e più intimo, spirituale, olistico, biologico, culturale nel senso più completo del termine.
In ciò, e per ciò, leggere Alberi millenari d’Italia e in generale i libri di Tiziano Fratus, che peraltro si caratterizzano pure per il piacevolissimo equilibrio tra profondità dei contenuti e affabile comprensibilità dei testi, è sicuramente un’esperienza didattica (e letteraria, certo) caldamente consigliabile. Almeno quanto frequenti passeggiate nei boschi e nuove più meditate relazioni con l’imprescindibile popolo che li forma, ecco.