Il sito di informazione svizzero “Swissinfo.ch” sta pubblicando un’interessante inchiesta in più parti legata all’epopea del contrabbando, che ha contraddistinto in particolare e peculiare modo le zone di confine tra Svizzera e Nord Italia da fine Ottocento e per buona parte del Novecento – qui sopra pubblico un bel contributo che fa parte dell’inchiesta. Un fenomeno per molti aspetti indotto dalla presenza di un confine che divideva drasticamente una geografia fisica e umana invece unitaria e pressoché omogenea ovvero una comunità di persone unite dalla stessa cultura, da identiche tradizioni, usanze, saperi, visioni e che, se osservato con una speciale sensibilità contemporanea ben consapevole della realtà presente, dimostra la notevole irrazionalità di quel confine, la cui valenza geopolitica appare lontanissima dalla storia e dalle peculiarità (anche identitarie) di quei luoghi.
È un aspetto sul quale a mio modo ho meditato e disquisito nel saggio incluso in Hic Sunt Dracones, il libro d’artista realizzato da Francesco Bertelé e pubblicato da PostmediaBooks come opera integrante dell’omonimo progetto espositivo a cura di Chiara Pirozzi e in collezione al Museo Madre di Napoli – e d’altro canto quello del “confine” è un tema del quale mi occupo spesso anche qui sul blog. Vi ho meditato partendo proprio dalla storia delle Alpi e da quando le vette alpine sono state trasformate muri naturali per confini politici tanto orograficamente netti quanto antropologicamente insensati, dato che fino a quel momento, dal Settecento in poi, le Alpi erano sempre state un territorio di fitti transiti, di scambi e di unioni tra opposti versanti costanti e proficue. L’imposizione di quei confini, è ormai realtà assodata, ha cagionato notevoli danni alle comunità alpine, dalle divisioni socioculturali ai fenomeni all’apparenza suggestivi ma invero drammatici come il contrabbando, appunto, fino a tragici conflitti bellici – la Prima Guerra Mondiale è stata una guerra combattuta sulle Alpi per contendersi confini alpini, per citare l’esempio più evidente.
Oggi i confini sono più labili, in certi territori come le montagne tra Italia e Svizzera, mentre altrove restano tremendamente rigidi, drastici, inumani, seppur anche in queste zone l’illogicità sostanziale di tali demarcazioni geopolitiche emerge nettamente, fin dalla constatazione di come la politica renda tanto rigido un elemento, il confine appunto, invece del tutto labile e spesso culturalmente inconsistente. Senza contare che, come ho scritto nel saggio pubblicato su Hic Sunt Dracones,
anche l’etimologia del termine “confine” è interessante. Viene dal latino confinis “confinante”, composto di con– e del tema di finire, “delimitare”. Non è quindi, in origine, una parola che indica una separazione, o una divisione, piuttosto indica proprio la congiunzione di due elementi. La utilizziamo, oggi, con un’accezione sostanzialmente ribaltata rispetto a quella primigenia: parliamo di confine e pensiamo a qualcosa che divide, ci è stato insegnato a scuola che è così perché così venne stabilito dalle dottrine geopolitiche settecentesche di matrice cartesiana, mentre in verità è il punto in cui due elementi non necessariamente contrapposti – siano essi materiali o immateriali – si toccano, entrano in ovvero stabiliscono un contatto.
D’altro canto, come assai significativamente ricorda l’articolo di “Swissinfo.ch”, quel confine lungo il quale nel tempo sono stati posti cippi, reti, garitte e dogane è oggi «circondato da una fitta vegetazione che non conosce passaporti». Già: al di là di qualsiasi più o meno valida considerazione sul senso contemporaneo del “confine”, la Natura in fondo ci dimostra nel modo più spontaneo e palese la verità “primigenia” che sta sul fondo della questione. Considerarla è quanto meno una manifestazione di buon senso civico, politico, culturale e, non ultimo, umano.