L’inevitabile fine dello sci, anche per chi non ci vuol credere

P.S. – Pre Scriptum: dissertare di sci e neve anche in piena estate? Certamente! Perché la crisi climatica e le dinamiche socio economiche che condizionano il turismo sciistico non fanno le ferie estive, e perché quanto accade sulle montagne ha bisogno di costante attenzione e visione lunga nel tempo: qualcosa che sovente manca, nella gestione del turismo invernale – e le conseguenze negative di ciò si vedono, purtroppo.

[Le piste di Nara, stazione sciistica in Valle di Blenio, Canton Ticino, senza neve nel febbraio 2023.]

Il cambiamento climatico sta trasformando la Svizzera e questo è particolarmente evidente nelle regioni turistiche. “L’aumento delle temperature è fatale per le attività turistiche sugli sci”, afferma Monika Bandi, direttrice del Centro di ricerca sul turismo dell’Università di Berna. “A ciò si aggiungono precipitazioni intense più frequenti in estate, inverni con meno pioggia e lo scioglimento del permafrost, che può rendere instabili i pendii”.
Il problema maggiore legato all’aumento delle temperature riguarda però le località di sport invernali. “Garantire 100 giorni all’anno con un manto nevoso di 30-50 cm sta diventando sempre più irrealistico”, afferma Bandi. Secondo una scheda informativa di Funivie Svizzere, l’isoterma di zero gradi salirà di altri 300 metri entro il 2050. In futuro, le precipitazioni cadranno più sotto forma di pioggia che di neve, soprattutto all’inizio e alla fine dell’inverno. La stagione sciistica sarà quindi più corta. I cannoni da neve non potranno compensare questa mancanza, poiché funzionano solo nei giorni con temperature inferiori a 0 °C.
Quanto saranno profonde le trasformazioni per le stazioni sciistiche svizzere è difficile da prevedere. “Oggi non sono più molti i bambini che imparano a sciare”, osserva Monika Bandi. Tra 10 o 20 anni, s’interroga la ricercatrice, ci sarà ancora il desiderio di spendere 80 o 100 franchi per una giornata sugli sci?
Anche l’associazione Funivie Svizzere prevede un calo della domanda nella sua strategia di adattamento. Già oggi, oltre 60 impianti di risalita sono all’abbandono e con l’aumento delle temperature il loro numero è destinato a crescere.

[Brani tratti dall’articolo Come il cambiamento climatico mette sotto pressione il turismo in Svizzera, pubblicato su “Swissinfo.ch” il 15 luglio 2025.]

C’è poco da commentare e molto da riflettere, a fronte di tali evidenze. In Svizzera da tempo lo stanno facendo, in Italia molto meno. Certo li posso capire, i gestori dei comprensori sciistici, messi ormai con le spalle al muro dalla crisi climatica, dalla situazione economica, dal cambio dei costumi e delle abitudini di chi frequenta le montagne in inverno.

[Immagine tratta da www.radiocittafujiko.it.]
Ma a fronte della comprensione delle loro difficoltà, quei gestori (e i loro sodali, soprattutto in politica) devono a loro volta comprendere che in molte località l’attività sciistica è ormai al capolinea (se non già oltre) e che la loro perseveranza nel continuare a mantenerla e a rifiutare la transizione a forme di frequentazione turistica invernale più consone ai tempi non è affatto una forma di resilienza ma un’imposizione di sofferenza alle montagne e alle loro comunità, tenute in ostaggio di quel loro business ormai esaurito e per ciò incapaci – ovvero privati degli strumenti al riguardo – di sviluppare ogni altra forma di economia ecosistemica locale. Realtà ancora più grave nel caso in cui i finanziamenti pubblici, invece di sostenere lo sviluppo socioeconomico locale, vengano impiegati per realizzare nuovi impianti e piste di discesa a quote dove ormai lo sci è ormai qualcosa di utopico.

È difficile cambiare, certamente, ma è altrettanto ineludibile: altrimenti non saranno solo gli impianti e le società che li gestiscono a fallire e chiudere ma l’intero territorio che li ospita. Un’eventualità che non è possibile accettare, in nessun modo.

Nelle Orobie cadono frane, gli ospedali chiudono, non c’è segnale telefonico, ma ci saranno tante nuove seggiovie!

[Le montagne dell’Alta Valle Brembana nella zona dei Laghi Gemelli, in comune di Branzi. Immagine tratta da https://primabergamo.it.]
Anche le valli montane bergamasche stanno sempre più diventando un caso emblematico in tema di gestione (o non gestione) politica dei territori montani.

Notizie recenti sulla stampa locale: le valli montane della Provincia di Bergamo, secondo l’Ispra, sono al 16° posto nella classifica nazionale per rischio frane (in una Lombardia che risulta la regione con il numero più alto di frane censite), ciò evidenziando la necessità di maggiori fondi pubblici per prevenire il dissesto idrogeologico e intervenire in caso di emergenze.

L’ASST locale chiede a gran voce aiuti alla politica per agevolare l’arrivo e la presenza di nuovi infermieri per gli ospedali di montagna, già in crisi di risorse da tempo come ben sappiamo, i quali altrimenti sono sempre più a rischio di chiusura.

In molte zone montane della provincia il segnale telefonico, per non parlare della connessione web, sono assenti, generando grossi problemi tanto ai residenti quanto a chi lassù vuole e vorrebbe lavorare in condizioni degne, per giunta in attività economiche che aiuterebbero i territori a mantenersi vivi. La scorsa settimana la questione «è stata sottoposta a Regione e deputati. Ma per ora, tutto resta fermo.»

Ecco, appunto: regione, deputati, enti pubblici… la politica.
Come risponde la politica a questi bisogni fondamentali per chi vive sulle montagne bergamasche?

Spendendo le risorse che dovrebbero essere impiegate per soddisfare i bisogni dei residenti per finanziare insensati progetti turistici come (un esempio tra i tanti) quello di Piazzatorre, in Valle Brembana: ben 15 milioni e rotti di Euro per un comprensorio sciistico posto sotto i 1800 metri di quota destinato per mille ragioni – climatiche, ambientali, economiche, socioculturali… – ad un inevitabile fallimento. Per non dire di Colere-Lizzola, dove le risorse pubbliche previste ammonterebbero (al momento) addirittura a 50 milioni di Euro.

Poste tali cifre, e viste le criticità sopra elencate (ma ve ne sarebbero altre di citare): va bene così?

È in questo modo che pensiamo di salvare le montagne dallo spopolamento, come ci viene continuamente ripetuto, e di rivitalizzarne le comunità e le economie locali? Costruendo impianti e piste dove non si scia più e lasciando franare strade, chiudere ospedali, e togliendo di fatto un servizio elementare come il telefono?

E quante altre situazioni simili possiamo constatare sulle montagne italiane, con la politica sensibilissima a certe iniziative molto d’immagine e invece poco o nulla nei riguardi dei bisogni concreti e delle necessità fondamentali delle comunità che in montagna vivono e vorrebbero continuare a farlo degnamente e non da cittadini di serie B o C?

Piazzatorre: 15,4 milioni di Euro buttati al vento, insieme al futuro della sua comunità

[Veduta del territorio di Piazzatorre. Immagine tratta da www.in-lombardia.it.]
Riguardo l’evoluzione del clima in corso sulle montagne, in particolar modo su Alpi e Prealpi, la scienza fornisce dati incontrovertibili: le temperature sono in costante aumento, le regioni alpine nel complesso sono un hot spot climatico, ovvero un ambito nel quale gli effetti del riscaldamento globale sono più marcati rispetto alla media globale; le nevicate sono in diminuzione da anni mentre lo zero termico medio invernale sale sempre più in alto: già oggi sulle Prealpi italiane è posto tra i 1700 e i 1800 metri, il che sposta la possibilità di permanenza continuativa della neve al suolo in inverno oltre i 2000 metri. Ciò si ripercuote direttamente sulla pratica dello sci, per la quale c’è sempre meno neve, resta al suolo per meno tempo e le temperature in aumento impediscono di produrre quella artificiale, rendendo i comprensori sciistici post sotto i 2000 metri insostenibili non solo climaticamente e ambientalmente ma anche economicamente. Infatti, non a caso, di gente che sale sui monti per sciare ce n’è sempre meno e quando ci va si dedica ad altre attività meno dipendenti dagli effetti della crisi climatica.

Posta tale realtà di fatto inoppugnabile, come detto, e d’altro canto sotto gli occhi di tutti, a Piazzatorre, in alta Valle Brembana (Provincia di Bergamo), si spenderanno 15,4 milioni di Euro pubblici per riqualificare un comprensorio sciistico posto interamente sotto i 1800 metri di quota, cioè dove non nevica più e non ci sono le temperature adatte per produrre neve artificiale e mantenerla al suolo per un tempo funzionale alla pratica sciistica.

Sono soldi buttati al vento. Punto.

Non c’è altro da dire al riguardo (e la questione l’avevo già denunciata tempo fa, qui).

Non vi sarà nessun «accrescimento dell’attrattività e del potenziale economico favorendo, quindi, il contrasto al fenomeno dello spopolamento» come affermano dalla Regione Lombardia che metterà la gran parte dei soldi – peraltro le solite frasi fatte enunciate in tali occasioni, alle quali ormai credono solo gli allocchi – e nemmeno la pretesa “destagionalizzazione” (altra parola del tutto abusata) porterà alcun vantaggio al territorio in questione, perché nessun vantaggio concreto può venire da una frequentazione turistica basata esclusivamente sulla fruizione in stile luna park del territorio montano che produce flussi incostanti e relativi fenomeni di overcrowding, cioè di sovraffollamento temporaneo, con tanta gente nei fine settimana e il deserto nei giorni feriali.

[La località Gremelli sul Monte Torcola Vaga, sopra Piazzatorre, in un recente inverno senza neve. Foto di Andrea Comi tratta da www.komoot.com.]
Vantaggi reali e concreti per i territori come quello di Piazzatorre si producono invece con un piano di sviluppo territoriale strutturato, articolato nel lungo periodo, che sostenga e metta in rete tutte le economie locali, senza che quella turistica risulti predominante e assoggettante, e che abbia come obiettivo principale da un lato il potenziamento dei servizi ecosistemici a supporto della comunità locale e dall’altro la cura ambientale e culturale del territorio, anche a favore della rigenerazione del senso di comunità. In cose del genere avrebbe assolutamente senso spendere tutti quei soldi pubblici, non certo in progetti insensati, fuori dal tempo, già in partenza destinati al fallimento e che provocheranno un ulteriore inaccettabile degrado del territorio nonché della relazione culturale con esso dei suoi abitanti.Sono 15,4 milioni – quindici-virgola-quattro milioni – di Euro buttati al vento, ribadisco. E con questo denaro pubblico viene buttato al vento il futuro di un intero territorio e della sua comunità.

[Il centro di Piazzatorre. Immagine tratta da www.altobrembo.it.]
Nel frattempo, nella stessa Valle Brembana a poca distanza da Piazzatorre, un’altra scuola di montagna chiuderà: quella di Laxolo, e ciò in forza dei mancati investimenti pubblici atti a favorirne la permanenza degli alunni su volontà dei genitori, che si sono visti costretti a mandare i propri figli in altri plessi al momento più attrezzati (ma chissà fino a quando).

In mezzo secolo nei venti comuni dell’alta Valle Brembana le scuole elementari sono scese da 25 a 4 – ma si contino anche quanti presidi sanitari hanno chiuso, quanti uffici postali e sportelli bancari, quante linee di trasporto pubblico sono state soppresse, quanti interventi concreti a favore delle comunità residenti e della loro quotidianità sono stati messi in atto… E poi si spendono più di 15 milioni di Euro di soldi pubblici in impianti sciistici dove non nevica più? Oltre agli altri progetti in corso, ovviamente, con ancora più denaro pubblico in ballo: buttato in tali assurdità e così tolto a interventi veramente necessari alla popolazione locale.

Ma di cosa stiamo parlando?
O, per meglio dire: ma di quale devianza mentale e morale stiamo parlando?
Veramente crediamo che la montagna si salverà così?

P.S.: non bisogna dimenticare che Piazzatorre detiene un altro primato (o quasi) piuttosto sconcertante: duemilacinquecento seconde case – 2.500! – a fronte di sole duecento prime case. E riaprire il suo comprensorio sciistico peraltro insostenibile sarebbe sul serio la cosa principale da fare, lassù?

Una proposta “provocatoria” per il futuro dei comprensori sciistici

[Veduta di Sestriere, in Piemonte, località totalmente vocata allo sci. Fonte dell’immagine www.facebook.com/sestriereofficial.]
Un’altra delle motivazioni che i gestori dei comprensori sciistici adducono di continuo a sostegno della loro attività e a giustificazione di tutto quanto ne consegue, a partire dalle frequenti enormi elargizioni di soldi pubblici, è che i loro comprensori assicurano l’economia dei territori che li ospitano, vi generano indotto, danno lavoro ai locali e così mantengono in vita le comunità.

Ciò per diversi aspetti è vero, anche perché le possibilità alternative al modello economico dell’industria dello sci nel corso del tempo sono state soffocate quasi totalmente – infatti è per questo che riguardo lo sci si parla di “monocultura turistica”.

Di contro, posta la realtà così ricca di problematiche e di variabili che le nostre montagne devono affrontare in maniera sempre più pressante – a partire da quella climatica che però, appunto, non è affatto l’unica – mi chiedo: oggi è lecito e accettabile che il destino socioeconomico, ma pure culturale, di interi territori montani sia messo nelle mani di soggetti privati il cui scopo fondamentale, ovviamente e logicamente, non è garantire il futuro dei territori in cui operano ma conseguire il maggior lucro possibile dalla propria attività?

Soggetti privati di natura imprenditoriale, peraltro, la cui attività è legata al rischio d’impresa e all’andamento del mercato di riferimento come per qualsiasi altra attività economica privata. Dunque, è ammissibile che un territorio montano e la sua comunità possano pur indirettamente contemplare un rischio d’impresa ed essere sottoposti ad un mercato economico che con essi non c’entra nulla, se non per le eventuali ricadute generate dal suo andamento?

[Nel comprensorio del Dolomiti SuperSki. Immagine tratta da www.val-gardena.com.]
Al netto che la realtà “ordinaria” è quella appena descritta, a me viene molto da pensare intorno a tali interrogativi. D’altro canto è già successo che società di gestione di comprensori sciistici fallissero lasciando in braghe di tela, come si usa dire in questi casi, i territori dove operavano: a volte le conseguenze sono state ridotte grazie alla capacità del territorio di riprendersi, in altri casi sono state letali, trasformando le località ex sciistiche in luoghi fantasma. E ciò è successo non tanto per il fallimento del modello sciistico locale ma per l’assenza di alternative economiche, come prima denotato, circostanza che da un lato ha reso il territorio ostaggio dello sci e dall’altro ne ha svigorito le specifiche potenzialità imprenditoriali.

Posta questa situazione, e per superarne la notevole ambiguità oltre che la rischiosità per i territori montani (e altre cose poco o nulla citate, al riguardo, come la questione degli aiuti di stato) formulo una proposta provocatoria ma non troppo: la totale presa in carico pubblica dei comprensori sciistici. Cioè l’acquisto di impianti e piste da sci da parte degli enti pubblici locali, con il conseguente affidamento della gestione a soggetti scelti tramite gara anche in base al valore dei progetti imprenditoriali presentati al riguardo, e con il riconoscimento dei maggiori benefici economici derivanti dall’attività dei comprensori agli enti pubblici stessi, dunque direttamente alle comunità locali, da reinvestire nei servizi di base e nelle necessità comuni dei territori interessati.

Sarebbe la cosa più sensata da fare, a ben vedere.

[Veduta della ski area di Prali i cui impianti sono di proprietà pubblica, del Comune e dell’Unione Montana Valli Chisone e Germanasca. Fonte dell’immagine www.piemonteitalia.eu.]
Ve l’ho detto (scritto) che è una proposta provocatoria. Ma forse lo è molto meno di quanto appaia, già.

Veramente i comprensori sciistici evitano lo spopolamento dei territori montani?

[Veduta di Madesimo e del suo comprensorio sciistico, 27 marzo 2025. Immagine tratta da madesimo.panomax.com.]

Gli impianti a fune rappresentano un elemento cruciale per contrastare lo spopolamento delle aree montane […] Ogni posto di lavoro creato nelle nostre montagne ha un valore enorme, soprattutto se consideriamo l’importanza di contrastare lo spopolamento delle aree montane. Ogni opportunità lavorativa in questi territori non è solo una risorsa economica, ma una garanzia di vitalità per le comunità locali.

Sono dichiarazioni di Massimo Fossati, vicepresidente di ANEF, l’associazione che riunisce la gran parte dei gestori dei comprensori sciistici italiani (la fonte è qui), espresse in occasione dell’uscita, nell’ottobre 2024, dello “studio” promosso dalla stessa Anef che ha fatto il punto sugli impatti socio-economici a livello locale degli impianti di risalita.

Ma è proprio vero che dove sono in attività impianti e piste da sci si contrasta lo spopolamento del territorio che ospita i relativi comprensori?

Per quanto riguarda la mia regione, la Lombardia, provo a dare una risposta significativa analizzando i dati demografici degli ultimi vent’anni – un periodo dunque già indicativo – nei comuni direttamente legati ai maggiori comprensori sciistici lombardi, le cui “classifiche”, molto simili le une alle altre, si trovano facilmente sul web. I dati li traggo da www.tuttitalia.it.

Ad esempio, il sito siviaggia.it, uno dei più letti tra quelli a tema turistico, indica la seguente “classifica” delle migliori località sciistiche lombarde:

  • Madesimo
  • Aprica
  • Bormio
  • Santa Caterina di Valfurva (comune di Valfurva)
  • Valdidentro
  • Livigno
  • Piani di Bobbio (comune di Barzio)
  • Piazzatorre
  • Foppolo
  • Colere
  • Ponte di Legno
  • Montecampione (comune di Artogne)

Bene, vediamo nei grafici sottostanti per ciascuna di queste località, nell’ordine sopra riportato, l’andamento demografico degli ultimi vent’anni, ovvero se i relativi comuni hanno guadagnato o perso abitanti – un dato “basico” ma, come detto, già del tutto significativo:

Bisogna denotare che Artogne, nel cui territorio (e in piccola parte in quello di Pian Camuno) si trova il comprensorio di Montecampione, è il comune meno legato alla presenza degli impianti sciistici, essendo posto a 266 metri di quota nel piano della bassa Valle Camonica e dunque risultando più correlato al tessuto economico prettamente industriale della bassa valle camuna.

Parimenti va precisato che anche Livigno, per ragioni peculiari proprie, rappresenta un caso particolare e per diversi aspetti poco paragonabile alle altre stazioni sciistiche della Lombardia.

L’unico comprensorio sciistico lombardo “importante” non citato nella classifica suddetta è quello di Chiesa Valmalenco. Ecco qui il relativo andamento demografico:

In definitiva, su tredici comuni “sciistici” citati, al netto delle precisazioni sopra espresse, solo tre hanno guadagnato abitanti negli ultimi vent’anni; tutti gli altri ne hanno persi in maniera più o meno ingente.

Credo non serva rimarcare che ogni luogo abitato, piccolo o grande e ancor più se posto in un territorio particolare come quello di montagna, è vivo e vitale solo se di abitanti ne ha e col tempo ne guadagna. L’economia dei piccoli centri e la sussistenza dei servizi di base locali si poggia sulle residenze stanziali, non certo sulle presenze turistiche saltuarie quando non meramente occasionali. I turisti non hanno bisogno, se non incidentalmente, degli ambulatori medici in loco, i loro figli non frequentano le scuole in montagna, non usano, se non raramente, il trasporto pubblico locale. Sembra un’ovvietà rimarcarlo e lo è, ma forse non troppo. Sono gli abitanti a far vivere i piccoli comuni montani, non i turisti: da tale evidenza non ci si scappa.

Dunque, posto tutto ciò, veramente i comprensori sciistici evitano lo spopolamento dei territori montani?

Temo che una risposta significativa, ripeto, scaturisca in modo piuttosto spontaneo dai grafici qui pubblicati, ecco.