Come ho rimarcato tante volte, la “battaglia” in corso per la difesa del Monte San Primo (nel Triangolo Lariano, Provincia di Como) dall’assurdo progetto per il quale si vorrebbero installare impianti sciistici a 1100 metri di quota dove da anni non nevica più – progetto che molti di voi conoscono ormai bene, per come le proteste al riguardo siano vaste, costanti e internazionali – non è solo un’iniziativa a difesa di una montagna, ma un’azione civica e politica (nel senso più alto del termine) emblematica per tutte le nostre montagne sottoposte a progetti illogici e impattanti, siano essi turistici o no. Un’azione che vive e si alimenta soprattutto della grande passione che innumerevoli persone manifestano per il San Primo e della sensibilità per le montagne e per il loro futuro. Che è qualcosa che riguarda tutti, così come un danno perpetrato ad esse nuoce a tutti, anche a chi la montagna nemmeno sappia cosa sia.
Quindi, riflettere e discutere sul futuro del San Primo, come si farà questa sera alle sue pendici, al leggendario Passo del Ghisallo vicino Magreglio, equivale a ragionare sul nostro futuro, sul mondo nel quale vogliamo vivere e della cui bellezza vogliamo godere ovvero su ciò che la mente e il cuore ci dicono essere azioni chiaramente sbagliate, irrazionali, scriteriate, dunque da dover contrastare e per quanto possibile inibire nel futuro – anche per non esserne complici con il mero disinteresse silente. Per il bene dei nostri territori, per il bene di tutti noi.
Trovate tutti i dettagli sull’incontro di questa sera nella locandina lì sopra. Per saperne di più sulla questione del Monte San Primo e restare aggiornati al riguardo potete visitare il sito web del Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo”, qui. Invece qui trovate buona parte degli articoli di approfondimento che nel tempo ho dedicato alla vicenda.
In psicologia si parla di paranoia quando un soggetto elabora in modo lucido un sistema di credenze e convinzioni, principalmente a tema persecutorio, non corrispondenti alla realtà: ad esempio la convinzione di essere perseguitati o di sentirsi concretamente minacciati da qualcosa.
Anche da una montagna, a quanto pare.
Già, perché a leggere sui media che il progetto di nuovi impianti e piste da sci sul Monte San Primo, appena sopra i 1000 metri di quota dove ormai non nevica più e fa troppo caldo per produrre neve artificiale, va avanti nonostante l’opposizione di tutti, e ripeto tutti – ambientalisti, alpinisti, residenti, turisti, tecnici, scienziati ed esperti di vari settori, appassionati di montagna, cittadini comuni… t-u-t-t-i, ribadisco di nuovo, in Italia e all’estero – vista la totale insensatezza del progetto, fa pensare inevitabilmente a una sorta di disturbo psicotico, unaparanoia appunto. Non c’è altra spiegazione, ormai.
Non a caso il termine «paranoia» deriva dal greco antico παράνοια che significa follia, insensatezza.
Evidentemente gli amministratori locali che stanno portando avanti a qualunque costo il progetto, innanzi tutto a danno del Monte San Primo, si sentono minacciati o perseguitati dalla montagna. In altre parole, ovvero altrettanto evidentemente, non la amano affatto nonostante siano i suoi amministratori, se ne sentono alienati al punto da volerle infliggere una rivalsa, uno sfregio attraverso il quale manifestare il loro disprezzo verso il San Primo, il suo ambiente naturale, il suo paesaggio peculiare. Costruendoci a spese dei contribuenti delle infrastrutture sciistiche che mai si potranno compiutamente utilizzare, che nascono già fallite, pronte da subito per essere rottamate.
Ed è evidente che disprezzano pure chi paga le tasse, visto come intendono sprecare in tal modo i soldi pubblici che ne derivano.
A fronte di tale psicosi paranoica, del tutto irrazionale, c’è innanzi tutto un rimedio da mettere in campo: la razionalità, variamente manifestata dal buon senso, dalla sensibilità verso la montagna e il paesaggio, dalla coscienza civica, dalla consapevolezza risoluta che non si può commettere un atto tanto distruttivo e folle su una montagna così bella, così amata da tanti, così speciale e referenziale per tutta la circostante regione prealpina lombarda.
Non si può e non si deve.
Perché a tutto c’è un limite e ogni cosa deve avere un senso, ancor più quando realizzata nell’ambiente naturale. Costruire impianti e piste da sci sul Monte San Primo, con tutti gli annessi e connessi previsti dal progetto – cannoni sparaneve, bacini artificiali, nuove strade, nuovi parcheggi… – non ha alcun senso e va oltre ogni limite di decenza. Punto.
N.B.: per essere costantemente informati su quanto accade sul Monte San Primo, sulla sua salvaguardia e sulle iniziative attuate al riguardo, potete visitare il sito del Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo”, qui.
P.S.: i collage di immagini fotografiche sono tratte dalla pagina Facebook del Circolo Ambiente “Ilaria Alpi”.
È piuttosto strano che, giunti ormai alla metà pomeriggio del 1° di aprile, giorno che tutti associamo alle tradizionali burle ittiche, non sia ancora avvenuto ciò che tutti si aspettano oggi accada e in particolar modo sui monti del Triangolo Lariano, ovvero che gli enti promotori del progetto sciistico sul Monte San Primo, con il quale si è annunciato di voler installare nuovi impianti e piste da sci a poco più di 1.000 metri di quota, esclamino pubblicamente…
Pesce d’aprile!!! Ahahahahah! Ma veramente avete creduto che si potesse sciare sul San Primo, dove non nevica veramente più da anni e anni, e che ci facessimo degli impianti spendendo soldi pubblici? Pensavate che eravamo così pazzi a portare avanti un progetto così assurdo?!?
…e via di questo passo.
D’altro canto, i primi articoli sul progetto uscirono proprio a ridosso del primo di aprile di tre anni fa e da subito fecero pensare a molti a un bizzarro scherzo, anche parecchio divertente, in effetti, vista la sua evidente assurdità. Ma, come si dice in questi casi, lo scherzo è bello quando dura poco e, ad oggi, va avanti da tre anni, appunto. Quindi, c’è da aspettarsi che entro la serata di oggi la burla dello sci sul Monte San Primo venga finalmente rivelata, tra il gran sollievo e le conseguenti risate liberatorie di tutti. Non resta che attendere fiduciosi!
N.B.: per saperne di più su questo folle scherzo del San Primo, potete visitare questa pagina.
[Immagine tratta da jennyvallese.com.]Solitamente la nostra frequentazione della natura, in particolar modo dei luoghi più o meno turistici e turistificati, è legata a scopi ludico-ricreativi: ci sta, è il modello di fruizione di tali luoghi che si è sviluppato nel tempo ed ha elaborato l’immaginario comune con il quale li intendiamo: posti dove trovare dell’intrattenimento che il modus vivendi quotidiano in città per ovvi motivi non ci può concedere, almeno non come possono fare quelle località, con l’aggiunta dell’attrattiva estetica del territorio naturale, che a sua volta ci dona geografie impossibili da ritrovare nei centri urbani.
Ribadisco: è una cosa legittima e comprensibile oltre che per molti versi necessaria, vista la vita caotica e stressante che così spesso ci tocca vivere nella quotidianità.
Resta tutta il fatto che una tale frequentazione degli ambienti naturali non ce li fa vivere veramente, non ci porta a essere parte di essi, a elaborare con essi una relazione veramente compiuta, anche solo per le poche ore che ci stiamo, in un fine settimana o in un’uscita domenicale. I modelli di fruizione turistica (anche quando apparentemente non sono tali, in realtà pescano comunque da quell’immaginario: basti pensare all’elaborazione estetica veicolata dal marketing turistico, e non solo da questo, con cui di norma percepiamo e interpretiamo i paesaggi di montagna) attraverso i quali visitiamo quei luoghi sono esclusivamente costruiti in funzione dei suddetti scopi ludico-ricreativi. Infatti, se tali scopi non riusciamo a conseguirli, facilmente dell’escursione compiuta porteremo a casa un ricordo meno gradevole e appagante di altre volte, vuoi anche perché sempre in forza di quei modelli e degli immaginari di cui ho detto poc’anzi forse ci saremo costruiti delle aspettative basate su di essi e non sulla realtà effettiva dei luoghi che abbiamo visitato. Molto spesso il turismo contemporaneo punta proprio su questo: offrire le stesse esperienze, rese modello ripetuto una volta che ne si è constatato il potenziale successo e l’attrattiva collettiva, in luoghi diversi, sovente radicalmente differenti ma nei quali, appunto, vengono replicate quelle dinamiche turistiche ovvero, fondamentalmente commerciali. Esempio “piccolo” ma ormai grandemente classico di questa standardizzazione massificata dell’esperienza turistica sono le “panchine giganti” che ormai a centinaia occupano luoghi interessanti standardizzandone la fruizione e dunque le stesse valenze paesaggistiche dei luoghi, che ne escono appiattite e conformate; ma anche la stessa industria dello sci e in certa parte anche l’escursionismo, nonostante si svolgano su montagne sempre diverse e dunque dotate di differenti peculiarità, tendono a costruire e offrire al turistica identiche fruizioni, esperienze, modalità di visita e di frequentazione dei territori, con ciò deprimendo quando non banalizzando le valenze intrinseche e referenziali di ciascun luogo.
[Immagine tratta da www.iltquotidiano.it.]È una formula apparentemente di successo, che funziona un po’ ovunque ma ciò perché basata su una dinamica puramente consumistica, che prende solo dai luoghi fruiti e sfruttati senza lasciare ad essi nulla, se non qualche iniziale tornaconto all’esercizio commerciale di turno. Tuttavia con il tempo, come detto, inesorabilmente consuma il territorio e tutto ciò che contiene, inclusa la componente umana, fino a che più nulla in loco sosterrà la richiesta di intrattenimento del turista definitivamente trasformato in cliente, così che il luogo perderà ogni valore in tal senso e il cliente cercherà intrattenimento altrove, in una riproduzione delle stesse dinamiche costante e continuamente demolitrice. Sia chiaro: sarà una perdita solo formale, in verità il valore del luogo, le sue peculiarità, le sue potenzialità resteranno intatte anche in presenza di un consumo notevole – del territorio naturale in primis – solo che si sarà consumata anche la capacità di cogliere quelle sue caratteristiche specifiche. Il che genererà inevitabili conseguenze ambientali ma anche, e soprattutto, sociali, economiche, culturali, di chissà quale lunga durata nel tempo e sperando che non risultino irreversibili – come ad esempio quando tali dinamiche innescano fenomeni di spopolamento ancora più accentuati che nel passato nonostante le promesse iniziali di segno opposto (di casi al riguardo sulle montagne italiane se ne contano a centinaia), dovuti non solo a ragioni socioeconomiche ma pure alla perdita di identità culturale del luogo, talmente legatosi nel tempo ai succitati modelli turistico-consumistici di massa da far che, una volta svaniti questi, tanto il luogo che la sua comunità non sappiano più ritrovare uno scopo per sé stessi, per la relazione reciproca e dunque per la loro permanenza attiva nel territorio. Per essere chiari: ci sono località che buona parte delle persone ormai riconoscono solo perché ci si scia, non per altro: be’, personalmente credo e temo che località del genere abbiano già la sorte segnata, se non sanno e sapranno rielaborare un identità più consona al loro territorio e alle peculiarità variamente culturali che offrono, dunque più referenziale, più in grado di riconoscerli come “luoghi”, innanzi tutto, e in ciò diversi ovvero peculiari rispetto ad ogni altro.
Quando sento parlare di “destagionalizzazione”, per certe località particolarmente investite da fenomeni di iperturismo stagionale, come le stazioni sciistiche (il cui periodo di apertura di impianti e piste in forza della crisi climatica in corso è e sarà sempre più breve e incerta), da un lato capisco le accezioni con le quali si interpreta il termine e le trovo anche legittime, dall’altro tuttavia mi sorge un’inquietudine piuttosto profonda. Perché non di rado mi sembra che l’unico scopo che si vorrebbe conseguire con la destagionalizzazione turistica in certe località sia soltanto quello di riprodurre lungo l’intero anno, e non solo nei periodi di maggior frequentazione, quegli stessi modelli di fruizione turistica di massa così poco o nulla attenti ai territori e dunque così consumanti i paesaggi. Quando ciò accade il disastro a danno dei luoghi si moltiplica inevitabilmente.
[Immagine tratta da www.scimarche.it.]Più che di destagionalizzazione io vorrei sentir parlare di defruizione o, se si preferisce, di polifrequentazione (ma potrei indicare altri “neologismi” al riguardo, anche se immagino avrete capito il senso generale): cioè, molto semplicemente, puntare sì ad attrarre turismo lungo l’intero anno ma attraverso modalità di frequentazione differenti e volta per volta consone alla stagione, al clima, ai cicli naturali, alle valenze ambientali e paesaggistiche che il luogo può offrire mese dopo mese, alle possibilità ricettive oltre che alla capacità altrettanto consona di narrare il luogo in base a tutte queste sue variabili locali, che in fondo sono anche i tanti elementi che compongono e rendono speciale l’identità culturale del luogo stesso. Troppo spesso, come dicevo, la fruizione turistica invernale, basata per gran parte sullo sci (anche se solo nel modello imperante in quanto imposto: in verità la pratica sciistica sta diventando sempre meno importante nell’economia montana invernale, sia per la crisi climatica e sia per i costi sempre più alti che impone) e quella estiva, che oggi punta molto su escursionismi “alla moda” e sull’e-mtb (ormai la versione su due ruote dentate dello sci) sono sostanzialmente basate sugli stessi modelli e immaginari, oltre che su una narrazione del marketing tranquillamente sovrapponibile. Il tutto, ovvio, solo per tentare di preservare lo stesso business, dunque lo stesso modello di fruizione, senza alcuna sostanziale variazione e, cosa per me ancora peggiore, manifestando un identico disinteresse profondo verso i luoghi e le loro comunità, entrambe asservite a quel business consumistico. Che appunto consuma, ribadisco, e come dice il termine stesso ciò che viene consumato prima o poi finisce, si esaurisce, viene eliminato chissà per quanto tempo, forse per sempre.
Per questo io sostengo da tempo, oltre ai miei profondi dubbi sulla “destagionalizzazione”, la necessità che i luoghi turistici – quelli di montagna innanzi tutto ma perché sono il mio campo di studio e interesse principale ma anche perché presentano forse più potenzialità che altri – debbano assolutamente diversificare anche le proprie economie locali, non legandosi in maniera troppo stretta a quella turistica e per ciò non svendendo il proprio territorio e le risorse che offre principalmente ad essa. Perché non si può (più) fare industria in montagna, ovviamente di un certo tipo e taglia, perfettamente armonizzata all’ambiente e totalmente sostenibile, nelle varie forme che le terre alte consentirebbero? Perché si parla tanto di “economie circolari” per le arre interne e rurali ma poi, alla stregua dei fatti, molto spesso la definizione si concretizza in pochi esempi quasi più di immagine che di reale sostanza imprenditoriale e economica, e di nuovo pressoché legata all’economia del turismo? Perché, tornando più direttamente al comparto turistico, non si riesce a pensare a un portato socioeconomico diverso da quello imposto dall’industria turistica classica, proprio attivando modalità differenti di frequentazione dei territori che sappiano coinvolgere in maniera molto più ampia l’intera comunità residente, dunque con ricadute molto più diffuse di quelle ordinariamente generate dal turismo massificato, soprattutto quello “mordi-e-fuggi” che oggi rappresenta lo standard per moltissime nostre località turistiche?
Certo, serve quel cambio di mentalità generale che già tanti invocano da tempo: innanzi tutto nella politica locale, ma qui che avvenga la vedo così dura che personalmente auspicherei che siamo per prime le comunità residenti nei luoghi turistici a cambiare idea su di essi e su loro stessi, rendendosi conto che chiunque venga a visitare i propri territori, in qualsiasi modo lo faccia, dovrà farlo cercando di andare oltre la mera e banale ricerca di intrattenimento ludico-ricreativo e comprendendo cosa hanno intorno e perché il luogo in cui si trovano è diverso dagli altri e a suo modo speciale se non unico. In fondo non è compito della politica fare ciò – potrebbe esserlo ma essa sembra non avere una tale facoltà o non si dimostra interessata a manifestarla – dunque non resta che agli abitanti dei luoghi compiere questo atto, in fondo semplice eppure per molti versi rivoluzionario, quasi sovversivo se paragonato a quei modelli di turistificazione consumistica di cui ho detto. In fondo questo è anche il modo fondamentale, più immediato e efficace per rimettere al centro di tutto la comunità, chi anima e dà veramente vita al luogo, la place experience postulata dalla sociologia del turismo contemporanea contrapposta alla customer experience per la quale il cliente-turista ha sempre ragione e domina su tutto e tutti: ovvero, la più deleteria pratica consumistica che per errori e colpe che ora non è il caso di elencare è stata per troppo tempo imposta ai luoghi turistici e alle montagne soprattutto.
È finalmente ora di voltare pagina, di cambiare idee, paradigmi, modelli, visioni, atteggiamenti, umanità verso questi luoghi peraltro così fondamentali per il nostro benessere.
P.S.: anche di destagionalizzazione del turismo in montagna mi occupo – gioco forza! – da tempo, vedi qui.
A proposito dell’assurdo e sconcertante progetto di nuovi impianti sciistici sul Monte San Primo, del quale un paio di giorni fa scrivevo qui con inevitabile sarcasmo, ne ho parlato in una bella e eloquente chiacchierata pubblicata su “L’AltraMontagna” mercoledì 19 febbraio con Roberto Fumagalli, portavoce del Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo” il quale rappresenta non solo decine di associazioni unite nella contrarietà al progetto ma pure una vastissima massa critica che a livello nazionale e internazionale ha manifestato la propria opposizione allo scriteriato assalto ad un monte tanto bello e fragile come il San Primo quanto ricco di grandi potenzialità per il turismo dolce.
Eccovi qui sotto un passaggio dell’intervista:
La recente delibera (datata 9 gennaio 2025) della Comunità Montana del Triangolo Lariano, uno degli enti pubblici ai quali fa capo il progetto di rilancio dell’ex comprensorio sciistico del San Primo, ne modifica parzialmente le versioni precedenti; nonostante ciò il vostro coordinamento conferma la forte contrarietà all’impostazione e ai contenuti del progetto. Come è stato modificato il progetto e perché permane la vostra opposizione?
La ‘revisione’ del progetto consiste, in pratica, solo nell’aver introdotto piccole modifiche e una rimodulazione delle spese: di fatto solo un’operazione di maquillage.
Il focus del progetto continua, purtroppo, a essere incentrato sullo sci e sull’innevamento artificiale. Circa la metà degli oltre 5 milioni di euro stanziati, verrebbero utilizzati per la sistemazione di 3 piste, per 3 tapis roulant, per i cannoni sparaneve, per il laghetto artificiale indispensabile per la neve programmata. Un progetto, quello per la parte sciistica e di innevamento artificiale (inclusi tapis roulant e altre opere connesse) che non tiene conto del cambiamento climatico, che già da decenni sta determinando – a livello globale e locale – un aumento delle temperature anche invernali e una sempre minore nevosità.
Oltre a questo, sono previsti altri interventi impattanti, come i nuovi parcheggi (300 mila euro per creare 160 nuovi posti auto): solo per la realizzazione di un nuovo mega parcheggio da 100 posti, verrà deturpata una vasta area boschiva, con conseguente taglio di alberi e un consistente riporto di terra artificiale per livellare le forti pendenze. Il nuovo parcheggio coprirà un’area di oltre 2 mila metri quadri. Sono poi previsti altri parcheggi per ulteriori 60 posti, che altrettanto comporteranno sbancamenti e taglio di alberi di pregio.
In tal senso la posizione inspiegabilmente ostinata del Comune di Bellagio nel voler realizzare gli impianti, spalleggiata dalla Comunità Montana del Triangolo Lariano e da Regione Lombardia, risulta ancora più assurda. Bellagio, nel cui territorio comunale si trova il Monte San Primo, è già una delle località italiane più note al mondo, ormai sottoposta a flussi turistici fin troppo ingenti (tant’è che pure qui si comincia a parlare di overtourism); posto ciò cosa fa il Comune? Intende realizzare un luna-park sciistico (a 1100 metri di quota, dove la neve ormai non si vede più) dal costo di oltre due milioni di Euro di soldi pubblici per portare lo stesso modello turistico massificato e impattante anche sul San Primo, invece di progettarvi una frequentazione di matrice naturalistica ben più sostenibile e consapevole che proprio nel confronto con quella massificata del lago troverebbe buona parte del proprio senso e delle più vantaggiose potenzialità.
Una sorta di “delirio di onnipotenza turistica” che rischia di rovinare irrimediabilmente non solo il territorio e il paesaggio del Monte San Primo (per giunta sprecando una grossa somma di denaro pubblico) ma pure l’immagine internazionale di Bellagio, «il posto che pur di attrarre turisti distrugge le sue montagne».
Come fanno a non capire una cosa così evidente? Come si può essere così indifferenti rispetto alla realtà del luogo, alle sue autentiche specificità, alla sua peculiare bellezza? E come si possono sprecare così malamente così tanti soldi pubblici che potrebbero servire a finanziare mille altre cose ben più consone e utili?
Potete leggere l’intervista completa su “L’AltraMontagna” cliccando sull’immagine in testa al post.