Il Mediterraneo, non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi (anche di montagna!)

Il Mediterraneo è un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro e quindi di città, dalle più modeste alle medie, che si tengono per mano. È mille cose al tempo stesso. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma una successione di mari. Non una civiltà, ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un crocevia. Da millenni tutto è complicato in questo mare, scompigliando e annullando la sua storia.

Sono parole di Fernand Braudel, storico francese tra i più importanti del Novecento, tratte da Mediterraneo. Storie / Incontri / Culture, bellissimo volume edito nel 2023 dal Touring Club Italiano che raccoglie articoli e saggi di vari studiosi, scienziati, scrittori, fotografi, illustratori, viaggiatori i quali, nella loro varietà di narrazioni e di contenuti, offrono un bellissimo affresco del Mare Nostrum e del rapporto che i paesi che lo racchiudono – l’Italia innanzi tutto – vi hanno sviluppato nei millenni fino a oggi e verso il futuro.

Un volume da leggere, se vi è possibile – essendo riservato ai soci del TCI, ma forse è recuperabile anche al di fuori del sodalizio.

Perché ne parlo su questo blog che fondamentalmente si occupa di paesaggi montani?

Be’, ci sono vari motivi: innanzi tutto perché di Mediterraneo ne ho scritto su un prestigioso volume, Hic Sunt Dracones, libro d’artista curato da Francesco Bertelé.

Inoltre perché il bacino del Mediterraneo in fondo è una vastissima regione montuosa, solo sottomarina dunque invisibile, che contiene montagne vaste e parecchio elevate come ad esempio il Marsili, il più esteso vulcano d’Europa, alto circa 3000 metri sul fondale marino e ancora attivo. Lo si vede bene anche da Google Maps quanto la morfologia del Mediterraneo sia variamente montuosa, in particolar modo nella zona corrispondente al Mar Tirreno (la freccia gialla indica proprio il massiccio del Marsili):

Infine perché, come già scrissi qui, il Mediterraneo è sì un mare ma piccolo rispetto ad altri ben più vasti, al punto che lo si potrebbe definire, in fondo senza eccessiva fantasia, un grandissimo “lago di montagna”: ciò perché buona parte delle sue sponde è costituita da rilievi montuosi le cui vette, spesso molto vicine alle coste, superano spesso i 2/3000 metri di altitudine, come si evince dall’immagine qui sotto sulla quale i rilievi sono indicati dalla linea rossa, mentre quella gialla evidenzia la posizione dei rilievi al di sotto dei 1000 metri di quota:

L’influenza della presenza del Mar Mediterraneo, d’altro canto, giunge forte e chiara anche sulle Alpi, non solo dal punto di vista climatico, per non parlare degli Appennini che a tutti gli effetti rappresentano una grande catena montuosa interna al bacino. È un mare in mezzo alle montagne tanto quanto una regione montuosa con un mare nel mezzo, insomma. Una relazione geografica e ambientale, nonché antropica e per ciò culturale, che non si può non considerare e apprezzare.

Lorenzo Pavolini e la scomparsa del Calderone

[Lorenzo Pavolini al Ghiacciaio di Fellaria, in Valmalenco. Foto di ©Michele Comi.]

Mi son rimaste impresse le parole di Giovanni Prandi, del Servizio Glaciologico Lombardo, che si occupa di quelli che fino a ieri erano i fratelli maggiori del Calderone sul Gran Sasso d’Italia, il più meridionale e anche il più piccolo dei ghiacciai d’Europa. Diceva di salire al Fellaria, al Forni, all’Adamello come per andare a trovare un famigliare, cioè qualcuno con cui hai un rapporto ineliminabile, che assume la massima ampiezza tra formalità e sostanza degli affetti. Qualche settimana prima la notizia ormai definitiva che il Calderone non è più un ghiacciaio, ma un glacionevato, aveva mosso dentro di me l’esigenza di andare a trovarlo, come si va da un fratello per capire meglio come sta, che al telefono non basta.
A me glacionevato fa pensare a un nuovo prodotto da gelateria, di quelli che stanno nel frigo con il vetro trasparente appannato, tra zuccotti semifreddi e ghiaccioli artigianali. Da tenere aperto meno possibile! Altro che eroici ricordi di quadri della natura trascorsi, di quando mio padre mi convinceva a salirci con gli sci in spalla sul Calderone, in una estate freschissima di quarantacinque anni fa, anno baricentro della storia contemporanea italiana, il 1978 […]

Mi ha fatto molto piacere conoscere di persona – e passare con lui una bella giornata alpestre, tale anche proprio per la sua mirabile presenza – Lorenzo Pavolini, scrittore, regista e autore radiofonico, vicedirettore della rivista “Nuovi argomenti”, “socio” dell’amico Davide Sapienza nella creazione dei podcast Nelle tracce del lupo e Ghiaccio sottile per Rai Play Sound, gran viaggiatore, appassionato di montagne (ma pure di mare e di vela) nonché – last but not least – autore de La scomparsa del Calderone, il racconto pubblicato lo scorso agosto su “Il Post” del quale avete letto lì sopra l’incipit. Un testo che Lorenzo ha dedicato al ghiacciaio più meridionale d’Europa, quello del Calderone appunto, annidato tra le pareti sommitali del Gran Sasso – “la” montagna per i romani come lui e per chi vive sull’Appennino, non solo in quanto la più elevata della catena. Anzi: ex ghiacciaio, purtroppo, per come sia stato definitivamente declassato a glacionevato, termine che identifica una formazione nevosa perenne che non possiede il movimento verso valle e la vitalità tipica del ghiacciaio vero e proprio. Declassamento che, nel caso del Calderone, rappresenta una sorta di attestazione della prossima estinzione e sancisce che sull’intera catena appenninica non esistono più ghiacciai: non che il Calderone fosse chissà quale apparato glaciale, visto che già da lustri risultava in costante contrazione, eppure era un “pezzo” fondamentale di Gran Sasso e della memoria di chiunque sia salito lassù, identitario e referenziale per la montagna e l’intera zona circostante,  – lo spiega bene Lorenzo nel suo testo.

Il Gran Sasso resta lì, ci si può ancora salire in vetta e da lassù godersi il panorama, guardare verso Ovest che se si è fortunati si vede Roma – come scrive Pavolini chiudendo il proprio scritto. Eppure, nel bene e nel male, la montagna non sarà più come prima: chi nasce oggi e tra venti o trent’anni salirà in vetta nemmeno si renderà conto di passare sul luogo dove un tempo c’era un ghiacciaio – un ghiacciaio a poca distanza da Roma! – e forse non saprà neanche della sua esistenza ormai svanita. Avrà ancora senso quella strofa citata da Lorenzo di un canto popolare che dice «So’ sajitu aju Gran Sassu, so’ remastu ammutulitu… me parea che passu passu se sajesse a j’infinitu!»? Dobbiamo augurarcelo: tutto si trasforma nel tempo, in fondo anche le montagne più ciclopiche e apparentemente immutabili e parimenti anche noi che le saliamo, muta il paesaggio esteriore, muta quello interiore e viceversa. Ma dobbiamo augurarci pure che la nostra relazione armoniosa con le montagne e l’ambiente naturale non muti affatto. In fondo è il modo grazie al quale il Calderone potrà restare sempre presente, sulla sua montagna, anche quando tra cent’anni nemmeno un frammento di ghiaccio avrà resistito alle condizioni ambientali, lassù. E Lorenzo durante quella bella giornata in quota passata insieme me il valore imprescindibile di quella relazione con le montagne me l’ha dimostrata nel modo migliore e più illuminante possibile.

[Veduta aerea della parte sommitale del Gran Sasso, con la conca glaciale del Calderone. Foto di qualche anno fa, trovata sul web.]

Il primo cenno di primavera, forse

«Ól de’ dèla Candelòra da l’invèrn’ mé sa föra» dice il noto proverbio che qui ho trascritto, spero senza sbagliare troppo, nella forma dialettale a me più vicina ma che è presente in ogni tradizione popolare italiana (e non solo). Uno dei tanti retaggi delle antiche origini pagane comuni conservatisi oralmente, che rimanda ai Lupercali romani ma ancor più alla festività celtica di Imbolc, che cadeva proprio intorno all’attuale primo giorno di febbraio ovvero al sorgere della stella Capella, la più brillante nella costellazione dell’Auriga: una festa di ritorno alla luce dopo le tenebre invernali, il che ne spiega il nome e la concomitanza di tante occasioni nelle quali si accendono falò, nei villaggi delle vallate alpine in particolar modo.

Fatto sta che questa mattina, scendendo dai monti domestici a valle per iniziare la giornata lavorativa, intorno alle ore 6 e 45, m’è parso di cogliere una luminosità differente dai giorni scorsi, nei quali l’impressione era sempre quella della tenebra notturna invernale, imperante e ancora invincibile. Il cielo, verso il Levante, invece stamani era più chiaro, sicuramente in forza della condizione meteorologica della giornata odierna, serena e limpida, che ha reso maggiormente nitido e dunque percepibile quel “nuovo” chiarore antelucano il quale sfidava il buio ancora profondo della restante parte di cielo con una vivacità inaspettata e sorprendente. Ribadisco: ci fosse stato il cielo coperto di nubi, o anche solo velato, probabilmente un tale luminare celeste non l’avrei colto; ma l’averlo percepito, e l’attrazione dello sguardo che mi ha generato durante la guida lungo la strada sbucante in quel punto dal bosco, inevitabilmente ha riportato alla mente il proverbio sopra citato ovvero la simbolicità tradizionale pagana del giorno e del periodo in genere. Cioè, per farla breve, mi ha fatto pensare ad un primo seppur flebile cenno di primavera.

D’altro canto con Imbolc i Celti irlandesi fissavano proprio l’inizio della stagione primaverile, del ritorno verso la luce estiva e della fine dei più ostici rigori invernali. Non la fine del freddo, del gelo o della meteo avversa ancora tipica di queste settimane (al netto dei cambiamenti climatici in corso, ovviamente e sfortunatamente) ma comunque il riavvio del ciclo vitale che poi caratterizza e contraddistingue la primavera. In fondo il termine Imbolc significa “in grembo”, in riferimento alla gravidanza delle pecore: infatti in origine la festa celebrava la venuta alla luce degli agnellini e le pecore che in forza di ciò riprendevano a produrre latte in abbondanza, il che significava nuovo prezioso sostentamento anche per gli umani allo scopo di resistere alla restante parte d’inverno e, appunto, fino al ritorno effettivo delle più favorevoli condizioni primaverili.

Insomma: forse ho visto il primo segno della nuova primavera, questa mattina. Magari solo per una mera suggestione personale basata sulle riflessioni che vi ho appena raccontato, ma tant’è: è stata una visione comunque piacevole e, a suo modo, emozionante.

N.B.: la foto in testa al post non è ovviamente mia, guidando non avrei potuto cogliere l’attimo che vi ho descritto fissandolo in un’immagine fotografica, ma credo che renda comunque bene l’idea.

Celebrare Samhain, oggi

[Le Callanish Stones, monumento megalitico sull’Isola di Lewis, Ebridi Esterne, Scozia. Foto di Gordon Williams da Unsplash.]
Quand’ero più giovane e forse più spensierato di ora, la ricorrenza di Samhain o Samonios, popolarmente conosciuta come “Capodanno Celtico” e per tradizione ricadente oggi, 1 novembre, la festeggiavo sempre. Senza far chissà che e senza riferirmi alla celebrazione di Halloween (verso la quale non ho nulla in contrario, anzi!), semmai quasi sempre con un’escursione solitaria in Natura come espressione personale e manifestazione del senso principale che identifico nella ricorrenza, cioè quello di una riconnessione con il mondo naturale e con la sua dimensione vitale “sovrumana”, nel senso di posta oltre l’ordinaria esistenza umana. Probabilmente questo vi potrà sembrare un atteggiamento neopagano: be’, lo può ben essere, perché no? Il termine viene sovente usato con accezione dispregiativa in contrapposizione ai culti monoteisti; io invece trovo che sia una predisposizione preziosa, nel mondo di oggi, anche perché ben più naturale ovvero genuina di tante altre.

D’altro canto uno dei primissimi scritti letterari che composi, da ventenne o poco più, fu proprio un testo sul celeberrimo Calendario di Coligny e sul grande fascino del complesso, sorprendente sistema di computo del tempo in uso presso i Celti, strettamente legato ai cicli naturali e cosmici. Oggi, la costante ricerca della relazione con il paesaggio naturale e del suo senso culturale, declinato in ogni modo possibile, è parte fondante della mia quotidianità e della mia attività: sarò certamente meno spensierato di quanto avevo vent’anni, forse in certe cose sono diventato fin troppo razionale, ma Samhain resta sempre per me un momento simbolicamente importante e profondamente suggestivo che a mio modo celebro nella mente e nello spirito con immutata passione, proprio anche per rimarcare ulteriormente, attraverso la ricorrenza, quella personale relazione con la Natura che trovo imprescindibile per stare bene con me stesso, con il mondo che mi circonda e con ogni presenza che lo abita.

Dunque, fatemi rinnovare l’antica invocazione rituale tradizionale agli elementi naturali che si recitava nella notte di Samhain, ché ravvivare ogni tanto il proprio ancestrale spirito pagano è necessario, se non fondamentale:

Aria, Fuoco, Acqua, Terra,
Elementi di nascita astrale,
Vi chiamo ora, ascoltatemi!
Entro il Cerchio, esattamente formato,
Scevro da maledizione o rovina,
Vi chiamo ora, venite a me!
Dalla grotta e dal deserto, dal mare e dalla collina,
Con la bacchetta, la lama e il pentacolo,
Vi chiamo ora, siate al mio fianco!
Questa è la mia volontà, così sia!

(Marie Jamieson, “Samhain Bonfire”, composizione digitale, 2011.)

Montespluga, piccolo gioiello alpino

[Foto di Markus Spiske da Unsplash.]

Da tutte le parti rocce brulle e grigie, le cui cime erano coperte di neve, una valle dove per la neve non si vedeva uno stelo, per non parlare di arbusti o di alberi: in breve, un deserto pauroso, desolato, al di sopra del quale folate di venti italiani e tedeschi si scontrano e accumulano di continuo nuvole grigie, un deserto più orribile del Sahara e più prosaico della brughiera di Lünenburg.

Proprio no. A Friedrich Engels, il celebre filosofo tedesco sodale di Karl Marx, non piacque affatto la conca ove è situato Montespluga, poco sotto il passo omonimo tra Lombardia e Grigioni sul versante italiano (in comune di Madesimo, per la precisione), e in quel modo lo descrisse nel suo racconto Escursioni in Lombardia, pubblicato nel 1841 con lo pseudonimo di “Friedrich Oswald”. Probabilmente per un giudizio così inquietante giocò il fatto che Engels transitò da quelle parti in primavera, che lassù significa ancora inverno pieno (anche oggi, nonostante il cambiamento climatico), e probabilmente in una giornata dalla meteo non tanto favorevole.

Di contro è vero che la piana di Montespluga, a quel tempo occupata per buona parte da magri pascoli e torbiere (come si può vedere nel dipinto del 1823 sopra pubblicato) e oggi dal bacino artificiale dell’omonimo lago, così circondata da monti non elevatissimi ma assai aspri, ricchi di gande, totalmente priva di alberi e costantemente spazzata dai venti che dalla valle elvetica del Reno si incanalano e penetrano – non di rado con veemenza – in quella che sul versante italiano scende verso la Valchiavenna e il Lago di Como, conserva un aspetto rude, ostico, quasi nordeuropeo, apparentemente poco ospitale.

 

[Foto di Martina Mainetti da Unsplash.]

Ma al di là delle arcigne condizioni ambientali che caratterizzano la zona, o forse anche in forza di quelle e dell’innegabile fascino che donano al luogo e allo spirito dei viaggiatori più sensibili (checché ne dicesse Engels), Montespluga rappresenta un piccolo ma sublime gioiello, tra i villaggi montani di questa porzione delle Alpi. Per il paesaggio potentemente alpestre, appunto, per il suo ambiente naturale “primordiale”, per le montagne d’intorno le quali, a fronte della non esagerata altezza, possiedono peculiarità interessanti – ad esempio alcuni ghiacciai sui versanti meridionali, quasi una rarità ormai – per la storia millenaria dei transiti lungo questo corridoio alpino (qui fin dal I secolo a.C. passava la romana Via Speluca, che univa Milano con Lindau) nonché per l’altrettanto notevole fascino della strada che valica lo Spluga, uno dei capolavori ingegneristici di Carlo Donegani (del quale vi ho già detto qui). Per tutto questo, senza dubbio, ma forse anche più perché il suo aspetto da autentico “villaggio di frontiera” – in senso geografico, ambientale, antropologico oltre che amministrativo, visto che sullo Spluga la frontiera in effetti c’è – è rimasto sostanzialmente immutato da più di un secolo a questa parte, come si può ben vedere dalle immagini “comparative” che vi propongo qui sotto.

 

Ovviamente molti degli edifici sono stati ristrutturati, alcuni nuovi se ne sono aggiunti ma pressoché nulla, miracolosamente (visti altri “casi” alpini sul tema), ha turbato l’armonia antica del luogo così come di conseguenza, la relazione con esso di chiunque lo viva, residente o viandante, preservandone il profondo ed emozionante fascino. Si può anche pensare di intravedere, in uno degli alberghi più antichi di Montespluga, le fattezze della Cà de la Montagna, edificio nel quale almeno dal Seicento, se non prima, trovavano riparo viandanti e animali da soma che affrontavano la traversata dello Spluga, e che ha fornito il toponimo locale del luogo dove è situato il villaggio, Pian della Casa.

Montespluga è bello da visitare in ogni momento dell’anno – salvo quando sia sepolto da metri di neve ma in tal caso il problema è semmai raggiungerlo, posta la chiusura della strada dello Spluga – tuttavia, tra l’avvolgente e silente quiete invernale e la vivacità a volte esagerata dell’estate, quando da e per lo Spluga transita un traffico turistico notevole, vi consiglio di visitarlo nelle “mezze stagioni” (contando che ci siano ancora!): magari a giugno, quando i prati della conca brillano già di un verde intenso che s’intona magnificamente al blu scintillante delle acque del lago mentre i monti sono ancora ammantati di neve, oppure a settembre, quando diventa visibilissima e sorprendente la trasformazione del paesaggio il quale dopo i fulgori estivi si prepara all’inverno prossimo mentre il traffico veicolare ormai diminuito di molto sulla strada del passo agevola la quiete e una condizione di piacevole e intensa meditazione spiritual-paesaggistica.

 

[Immagine tratta da www.viaggiarenews.com.]

Insomma: proprio no, io con le impressioni di Friedrich Engels su Montespluga non mi trovo affatto d’accordo. Sarà che ho passato molte estati della mia infanzia e fanciullezza lì vicino, a Madesimo, e dunque la zona la conosco e l’apprezzo da sempre, relativamente alla mia esistenza, oppure sarà che effettivamente l’alta Valle Spluga possiede caratteristiche peculiari sotto molti punti di vista e un paesaggio che facilmente emoziona chiunque vi transiti. Tuttavia, sia quel che sia, Montespluga è veramente un piccolo gioiello antropico-alpino da godere, dal quale farsi affascinare e per il quale augurarsi che possa salvaguardarsi nella sua così particolare essenza ancora a lungo, sempre vivo, giammai museificato ma quale manifestazione assai virtuosa e potentemente emblematica della presenza umana nei più elevati e “difficili” territori delle Alpi.

 

P.S.: le immagini sono tratte da (dall’alto in basso e dove non già indicato in didascalia): commons.wikimedia.orgalbergopostaspluga.itbellitaliainbici.itcommons.wikimedia.orgtripadvisor.italbergopostaspluga.itit.wikipedia.org.