Una grande montagna italiana che molti non considerano una “montagna”

(Questo post fa parte della serie “Cartoline dalle montagne“; le altre le trovate qui.)

[Foto di Piermanuele Sberni su Unsplash.]
Parlando di grandi montagne italiane, ce n’è una che può e deve assolutamente essere annoverata tale in tutti i sensi ma della quale ci si dimentica spesso, forse perché non viene ritenuta una “montagna” nel senso classico del termine. È l’Etna, che in effetti è un vulcano (uno stratovulcano complesso, per l’esattezza), e i vulcani sono montagne, solo che non hanno (ancora) un “tappo” sulla loro sommità: lo spiega bene Montagne, l’atlante geomontano pubblicato di recente che ho curato per l’editore Topipittori.

D’altro canto l’Etna svetta a 3357 metri di quota, di gran lunga la sommità italiana più elevata a sud delle Alpi. È persino cresciuta in altitudine, negli ultimi decenni: rispetto all’inizio del Novecento la sua quota è variata più volte e addirittura dai primi rilievi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia relativi alle eruzioni dello scorso giugno la sua altitudine sarebbe aumentata di 107 metri in meno di un mese, anche grazie a una nuova vetta massima creatasi dai recenti accumuli di lava. Inoltre l’Etna ha una prominenza ben maggiore di moltissime grandi (e alte) vette alpine: elevandosi il corpo della montagna direttamente dal livello del mare, è pari alla sua altezza, dunque 3357 metri – che per il momento resta la quota “ufficiale”. Fate conto che il Cervino, la vetta apparentemente più slanciata delle Alpi (e non solo), ha una prominenza di “soli” 1040 metri.

[L’Etna troneggia alle spalle di Catania. Foto di Samir Kharrat su Unsplash.]
Che l’Etna sia una montagna vera lo sanno per primi i siciliani stessi, che infatti la chiamano semplicemente ‘a muntagna, “la montagna” per antonomasia della loro terra. Lo sapevano pure i loro antenati, che coniarono l’altro nome in uso Mongibello (Mons Gibel), oronimo che deriverebbe dall’unione del latino Mons e dell’arabo Jebel, termini che significano entrambi “monte” (gli arabi lo chiamavano Jabal al-burkān o Jabal Aṭma Ṣiqilliyya, che significa “montagna somma della Sicilia”): come a voler rimarcare che l’Etna non è solo una “vera” montagna ma è due volte monte, alla “doppia potenza”, per segnalarne l’imponenza e la maestosità ben maggiori di una vetta “normale”. Peraltro questa interpretazione curiosamente trova una conferma anche nella geologia dell’Etna, che effettivamente è una “doppia montagna”, composta da un vulcano a scudo sul quale si è sovrapposto uno stratovulcano. Di contro c’è da denotare che secondo altri studiosi il nome Mongibello deriva da Mulciber (qui ignem mulcet), uno degli epiteti con cui i latini chiamavano il dio Vulcano.

[Scorci etnei che sembrano alpini – se non fosse per la lava!]
Invece “Etna”, il suo nome principale, che origine ha? Be’, anche per il grande vulcano siciliano l’origine del toponimo aleggia nell’incertezza. L’ipotesi più citata è che il nome Etna risalga alla pronuncia del toponimo greco antico Aitna (Aἴτνα-ας), nome che fu anche attribuito alle città di Katane (antico nome di Catania) e Inessa, scomparsa e tutt’oggi di localizzazione sconosciuta; in effetti “aitna”, deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o dalla quella fenicia attano (fornace), comunque qualcosa che ha a che fare con il fuoco. In età romana il nome greco Aitna divenne Aetna, formalizzandosi sostanzialmente nel toponimo attuale.

Che l’Etna sia una montagna vera e importante, peraltro, non lo si deduce solo dalla geografia o dalla toponomastica locale, ma anche dalla sua influenza su quelle di altri luoghi sparsi nel mondo. Ad esempio negli Stati Uniti esistono ben 32 località denominate “Etna” o “Aetna” in 28 stati diversi: una diffusione di certo dovuta anche alla cospicua immigrazione siciliana negli USA. Di contro una città chiamata Etna c’è anche in Australia, nel Queensland, inoltre non mancano altre montagne alle quali è stato dato lo stesso toponimo: nello stesso Queensland così come in California e in Nevada. C’è pure un’isola di Etna al largo della Penisola Antartica, così denominata perché agli scopritori ricordò la forma del monte, e il nome è presente persino nello spazio grazie all’asteroide 11249 Etna, posto nella fascia principale tra le orbite di Marte e Giove.

[Scialpinismo sull’Etna lungo la Valle del Bove. Foto di Ruggero Arena, tratta da www.outdoortest.com.]
Insomma, l’Etna è un vulcano che è montagna come e per certi versi più di molte altre. Anche se in verità, bisogna precisarlo, non esistono montagne di serie “A” e montagne di serie “B”, e anche una piccola sommità può rappresentare la vetta più importante per chi vi si senta particolarmente legato. Come disse Walter Bonatti, «Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi» e ciò vale che siano alte poche centinaia di metri oppure migliaia, come parimenti il valore di chi le sale non è tanto e non solo quello alpinistico ma, innanzitutto, quello umano. Non solo l’altezza, la prominenza, l’imponenza dà sostanza alla definizione di “montagna” ma anche la relazione culturale che noi possiamo intessere con essa. Dunque, da questo punto di vista e per quanto avete letto fino a qui, l’Etna è assolutamente montagna, una grande montagna da considerare, conoscere, amare.

P.S.: alcune delle informazioni sull’Etna che avete letto le ho tratte dal sito web https://ilvulcanico.it.

Tino Mantarro, “L’attrazione dei passi. Piccolo invito a scoprire cosa c’è oltre le cime”

Se pensiamo alle montagne, qualsiasi catena montuosa si prenda a riferimento, probabilmente le identifichiamo e vi diamo una forma mentale visualizzando le loro più importanti e celebri vette: il Cervino o il Monte Bianco per le Alpi, il Gran Sasso per l’Appennino, l’Everest e il K2 per l’Himalaya, eccetera. Una referenza inevitabile, posta la spettacolarità di quei grandi rilievi e l’immaginario che generano. Tuttavia, se dovessimo pensare alle montagne in quanto territorio frequentato, abitato e valicato dall’uomo da millenni, avremmo necessariamente da convenire che quasi ognuno di noi le grandi catene le ha conosciute e “conquistate” attraversando i loro passi, l’elemento geomorfologico fondamentale, ben più di qualsiasi pur celeberrima vetta, che alla fine dà sostanza alla nostra idea concreta di “montagna”: perché ci consente di viverla da dentro, in pratica. Anche se poi, ribadisco, è la silhouette del Cervino o di un’altra famosa sommità che ce la simboleggia. In altre parole: se per assurdo una catena montuosa non avesse passi transitabili, la sua importanza dal punto di vista antropico sarebbe minima, proprio perché la frequentazione umana risulterebbe limitata ai pochi alpinisti in grado di salire le sue vette mentre a tutti gli altri toccherebbe girarle intorno, in tal modo escludendola formalmente dalla concezione geografica e culturale del mondo abitabile e abitato.

Per fortuna non è così: ogni catena montuosa qualche valico più o meno transitabile lo possiede. Se prendiamo ad esempio le nostre Alpi e studiamo la loro storia, posto ciò che ho scritto poc’anzi, ci renderemo rapidamente conto che la loro centralità nella cultura e nell’evoluzione sociale del continente europeo è data sicuramente dall’abbondanza di valichi transitabili, dunque di vie attraverso le quali congiungere i versanti opposti mettendo in relazione le rispettive genti, culture, tradizioni, saperi, comunità sociali. Senza contare che il solo fatto di sapere che ci possa essere un “oltre” da esplorare e conoscere, al di là delle grandi montagne, è motivo sufficiente all’uomo che da sempre (per fortuna e al netto delle devianze) insegue «virtute e canoscenza» per salire fin sugli spartiacque e guardare cosa c’è oltre, per poi discendervi e così “vincere” l’ostacolo naturale montano tanto quanto la propria curiosità. D’altro canto, a ben vedere, l’andare oltre i monti è pratica comune a tutti gli esseri viventi che li abitano o vi si trovano al cospetto, dalle varie specie selvatiche agli uccelli migratori finanche agli organismi vegetali. Pensare alle montagne come a degli ostacoli se non peggio a dei baluardi naturali da rendere confini e magari militarizzare è “trovata” umana recente e invariabilmente malsana, oltre che antitetica alla storia secolare delle genti di montagna, come detto.

Per questo – e per moltissimo altro – l’ultimo libro di Tino MantarroL’attrazione dei passi. Piccolo invito a scoprire cosa c’è oltre le cime (Ediciclo Editore, 2023), è un testo che appare affascinante e intrigante fin dal titolo e dal sottotitolo []

(Potete leggere la recensione completa de L’attrazione dei passi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

L’“helibike”. Proprio così.

L’helibike.

Già.

Salire sulla vetta di una montagna per poi scendervi in sella a una mountain bike.

Che poi è il modo con cui chi sostiene tali attività intende la “destagionalizzazione del turismo”: non basta rompere i [censura] d’inverno con l’heliski, è necessario romperli anche d’estate con l’helibike, no?

Tuttavia, posto tale stato di fatto, proporrei alcuni inevitabili adattamenti:

  1. Togliere i pedali alle mountain bike, che tanto non servono più e poi a spingerla pedalando in salita, magari al di fuori dei percorsi “ordinari”, si fa una gran fatica. Roba da trogloditi (come lo sci alpinismo d’inverno): oggi ci sono gli elicotteri, per fortuna!
  2. Si abbia la decenza di non usare il termine «montagna» nel presentare tali attività. Perché non c’è la montagna in queste cose.
  3. Ma a questo punto perché non evolvere direttamente al livello TOP per questo tipo di attività? Cioè l’heliheli! Si sale sulla vetta di una montagna a bordo di un elicottero, e lassù si troverà un altro elicottero che riporterà i gitanti a valle. Lineare, logico, coerente. Perfetto, no?

Ecco.

Per il resto, cosa penso dell’heliski l’ho già scritto qui. Per chi non avesse voglia di leggere, riassumo la mia posizione così: l’heliski fa schifo. Se qualcuno volesse una precisazione al riguardo, aggiungo che l’heliski è uno dei modi migliori con il quale chi lo pratica manifesta il proprio profondo disprezzo verso le montagne. Punto.

P.S.: le immagini che vedete le ho tratte da un sito web che promuove l’helibike ma che non linko per evitargli qualsiasi “pubblicità” indiretta.

Superare un valico di montagna

[Il Passo del San Gottardo/Gotthard Pass. Foto di Walter Röllin da Pixabay.]

Cosa conferisce un particolare fascino al superamento di un valico di montagna? La premonizione del paesaggio che si troverà dall’altra parte, che rischiara la fantasia del viandante – gli elevati sentimenti che si provano nel momento del passaggio, nel punto che segna la linea di demarcazione di acque e popoli -, l’accresciuta percezione del presente e dei luoghi, e tutta una serie di altri motivi che agiscono inavvertitamente su chiunque in misura tanto più forte quanto più cultura e conoscenza ci si porta appresso. Ogni viaggio su un valico di montagna è un viaggio di scoperta.

(Carl SpittelerIl GottardoArmando Dadò Editore, Locarno, 2017, traduzione e cura di Mattia Mantovani, pagg.31-32; orig. Der Gotthard, 1897.)

Ogni volta che leggo questi brani di Spitteler, che hanno più di 120 anni, mi sorprendo di quanto la visione del territorio e del paesaggio che sottendono sia incredibilmente contemporanea, sia in senso scientifico che culturale. In queste così poche righe, ad esempio, vi si ritrova l’attuale concetto di “paesaggio” (il quale, per come viene usato oggi nelle discipline geografiche e umanistiche, ha non più di quarant’anni e non è affatto così risaputo, ancora), l’intuizione chiara della relazione culturale tra uomini, territori abitati e luoghi nonché del relativo valore identitario di essa, degli accenni a quella che oggi chiamiamo psicogeografia, la visione ecostorica (altra disciplina di recente teorizzazione) e quella geopoetica, così ben sviluppata dall’amico Davide Sapienza, ad esempio.

Insomma, in tal senso è quasi impareggiabile, Carl Spitteler. Tenetene conto, visto quanto sconosciuto o quasi sia, al di qua del Gottardo e a sud di Lugano.

Era (è e sarà) un bellissimo posto

Ultima domenica prima del Natale, impellenza diffusa di fare gli acquisti del caso, strade trafficate verso il centro delle città o i luoghi dello shopping, festoni e luminarie ovunque, eccetera.

Io e Loki, il segretario personale a forma di cane, ce ne andiamo in montagna alla ricerca di quiete e silenzio, certi di poterli trovare piuttosto facilmente oggi. Anche in un luogo altrimenti ben vivo, quando la stagione e il clima sono propizi e non sopravvengono distrazioni d’altro genere: a Era, magnifica piccola conca prativa in Val Meria, il profondo e spesso rude solco percorso dall’omonimo torrente che dalle rive deliziose di Mandello del Lario, sul ramo lecchese del Lago di Como, sale verso le Grigne e in particolar modo raggiunge i versanti di Releccio e di Val Mala, biforcato dai possenti pilastri del Sasso dei Carbonari e soprattutto del Sasso Cavallo, la big wall per antonomasia di queste montagne.

L’Alpe d’Era è uno di quei luoghi così idilliaci che chiunque se la ritrovi davanti, salendo dal suggestivo sentiero che da Somana, sobborgo alto di Mandello, taglia gli articolati versanti degli “Zuc” che caratterizzano il lato destro della Val Meria (transitando da un altro luogo sublime, Santa Maria), ne resta sicuramente affascinato. La conca alpestre che appare quasi d’improvviso, sospesa sulle forre del fondovalle, le piccole baite, quasi tutte ben ristrutturate, sparse sui prati a dare forma a un minuscolo, fiabesco villaggio, i fitti boschi d’intorno, le rupi sovrastanti che anticipano l’imponente dominanza del Grignone, il torrente qui assai placido prima di agitarsi gettandosi a capofitto tra innumerevoli cascate nel dirupo, i ponticelli in legno che lo scavalcano… Se salire quassù in stagioni più favorevoli è sempre qualcosa di piacevolissimo per la mente, il cuore e l’animo, arrivarci in una giornata come domenica scorsa, con la neve che ammanta tutto, le case inanimate, la quiete assoluta che permea il piccolo villaggio, l’assenza di altri viandanti, dona l’impressione vivida di entrare in una dimensione sospesa nello spazio e nel tempo. Ci sembrava di essere in un luogo lontanissimo da ogni altra presenza umana e urbana, nascosto e protetto da montagne incognite che pare lo proteggano come tra due palmi di mani silvestri e dove non possano udirsi altri rumori che quelli naturali e dai nostri, e invece eravamo a tre chilometri in linea d’aria dalla “civiltà” in preda, non tutta ma certa parte sì, alle compulsioni natalizie (nonché da una delle strade più trafficate e rumorose di questa parte delle Alpi, la strada statale 36 che porta in Valtellina).

Sedersi sui gradini di una casa di Era ad ascoltare il silenzio è stato bellissimo, rigenerante, ancor più dopo essere ridiscesi dalla stretta e ombrosa Valle di Prada, che io e Loki abbiamo esplorato e nella quale il fitto bosco di questi tempi rende la luce e il tepore solari una sostanziale chimera (e dove abbiamo intuito le uniche altre presenze della giornata: caprioli, probabilmente, le cui orme freschissime hanno incrociato le nostre e il cui vago rumore abbiamo anche sentito, senza però vederli). A Era invece il Sole, fino a quel momento appannato da un’insistente velatura nuvolosa, ci ha concesso la sua compagnia e reso ancor più piacevole e affascinante la sosta, in un momento così speciale, in una dimensione così privilegiata dacché rara, così preziosa per poter apprezzare un luogo del genere anche quando la vita ritornerà e lo rianimerà allegramente.

D’altro canto i posti come l’Alpe d’Era sono talmente belli che è sempre un gran piacere viverli: nella bella stagione o nelle ombre invernali, animati o meno, rumorosi o silenti, nelle giornate più radiose o col cielo ingombro di nubi. Basta intessere con essi la giusta relazione, diventando parte del loro meraviglioso paesaggio e in armonia con ogni altra cosa che contiene. Ovvero, basta poco o quasi nulla, a ben vedere, per essere e “avere” una tale bellezza.