Tre libri

Di recente sono usciti tre libri di altrettanti autori che ho la fortuna di conoscere personalmente e anche per questo, ma non solo per questo, ammiro molto: perché sono belle persone e perché questa loro preziosa dote la sanno ben dimostrare anche quando scrivono cose la cui lettura è, a mio modo di vedere, sempre affascinante e illuminante. Sono tutti libri che qui vi presento rapidamente (in ordine del tutto casuale) e leggerò al più presto, ça va sans dire!

Uno, Lost in translation. Se Maradona avesse “giocato” con le lingue invece che con un pallone da calcio, si sarebbe chiamato Luca Calvi. Poliglotta come pochi altri e apprezzatissimo traduttore in primis di personaggi del mondo dell’alpinismo (ma non solo), Luca racconta in Lost in translation, pubblicato dalle Edizioni del Gran Sasso, i suoi incontri ravvicinati con i grandi del mondo della Montagna. Aneddoti, racconti, storielle che regalano al lettore una prospettiva inusuale sui maggiori protagonisti dell’arrampicata, quella di chi li va a conoscere, condividendone a modo suo la passione, e aiuta altri ad entrare nel loro mondo, traducendoli. Un viaggio in compagnia di Simon Yates, Jim Bridwell, Mick Fowler, Dean Potter, Alex Honnold, Tommy Caldwell, Hansjörg Auer, Igor Koller, Reinhold Messner, Alex Txikon, Nirmal Purja e molti altri. Libro che si preannuncia tanto divertente quanto curioso e, in certe parti, credo anche commovente.

Due, L’inventario delle nuvole. Franco Faggiani è sempre più un autore di riferimento della letteratura di montagna italiana, ovvero di quella scrittura letteraria che appare più autenticamente consona a una definizione del genere (mentre molta altra che si presenta così non lo è granché – mia opinione personale). Nel suo nuovo romanzo, edito nuovamente da Fazi Editore, Franco ricostruisce con straordinaria cura dei dettagli un paesaggio particolare e un mestiere insolito che molti ancora ricordano: la raccolta dei pels, i capelli, che, accuratamente lavorati durante l’inverno dalle donne del luogo, saranno rivenduti in primavera agli atelier delle grandi città di confine per farne parrucche. Nel romanzo vengono ripercorsi gli itinerari segreti dei raccoglitori di capelli delle valli cuneesi, che, seguendo le vie di questo singolare commercio, scavalcavano le Alpi e arrivavano fino in Francia. Una storia avvincente ma anche commovente che conferma il grande talento di Franco nel descrivere gli ambienti montani attraverso storie sempre coinvolgenti e emozionanti anche per come – lo so bene – siano per molti aspetti parte della stessa vita montana dell’autore.

Tre, L’ attrazione dei passi. Intesi i valichi montani, che uniscono (non dividono!) geografie, versanti, genti, culture, storie… ma io interpreto il termine “passi” anche come quelli compiuti nel camminarci attraverso per superare i crinali e vedere cosa c’è al di là. In questo suo nuovo libro, che esce di nuovo per Ediciclo Editore, Tino Mantarro, un viaggiatore seriale dallo sguardo sul mondo sensibile come pochi altri, tesse un’apologia dei passi e del guardare oltre, per comprendere quelli che sulla carta sono degli spartiacque tra culture e invece sono finestre su altri mondi. Il desiderio di salire in cima per poter conquistare un pezzo di orizzonte e un’altra avventura. E una volta  giunti in cima è umano, oltreché naturale, fermarsi un istante a tirare il fiato e osservare il mondo da un’altra prospettiva. Nietzsche, uno che le montagne amava frequentarle, parlava del pathos della distanza: guardate da lontano le cose appaiono migliori. Perché da lassù, se il tempo è clemente, si riesce davvero a guardare lontano. Libro assolutamente intrigante, proprio come lo è il giungere sul ciglio di un valico e finalmente scoprire cosa c’è dall’altra parte.

Per saperne di più, sui tre libri, potete anche cliccare sulle immagini delle copertine.

Ecco. Serve ora aggiungere che vi invito caldamente a leggerli?

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Engadina, montagna extra-lusso

[Foto di Zacharie Grossen, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte: commons.wikimedia.org.]

L’Engadina è come quelle compagne di classe di cui sei sempre stato innamorato ma non hai mai avuto il coraggio di dirglielo per paura di chissà che cosa: ogni volta che la vedi, anche a distanza di anni, lei rimane sempre la più bella. L’Engadina possiede quella perfezione estetica propria delle visioni celestiali, quasi fosse una Beatrice dei paesaggi montani, la quintessenza dell’idea stessa delle Alpi. Fitti boschi di conifere, tanti larici prossimi a ingiallire; venature di roccia grigia – granito – e verde – serpentino – sotto cime aguzze e innevate; le acque grigie e rapide dei torrenti; i ghiacciai lassù che vedi e non vedi, e poi laghi qui e là, il tutto con un incastro di colori che sembrano scelti con la sapienza di un pittore impressionista. E quei prati, così perfettamente verdi, così perfettamente rasati, così perfettamente pettinati da far venire il sospetto che il sospetto che dietro ci sia qualche organizzazione di giardinieri anonimi che nottetempo si preoccupano di raderli e sistemarli come si fa con certe spiagge di sabbia bianca nei resort di extra lusso. Bellissimo, indubbiamente, peccato che l’Engadina, o quanto meno l’Alta Engadina – quella che va dal passo del Maloja fino a Celerina e Zernez – ormai sia diventata proprio come quei resort: montagna extra-lusso. E dunque quando ci vado a passeggiare in cerca di fresco – perché lassù è comunque più fresco che giù da noi che siamo non in montagna, ma “tra” le montagne – finisco per fare un viaggio strano, a suo modo disturbante, come se entrassi in un film di Wes Anderson, o nelle pagine di Thomas Mann aggiornate al 2022, e mi sentissi fuori posto. […]

[Tratto da Engadina, una Svizzera da cartolina di Tino Mantarro, pubblicato su “Kaiserpanorama” il 3 agosto 2022. Mantarro è l’autore di Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, la cui recensione trovate qui.]

Una geografia dell’animo

Durante i primi momenti che vivo in una città, nella quale non sono mai stato prima, mi ritrovo sempre impegnato, anche in modo inconscio, a cogliere quanti più dettagli possibile del nuovo luogo con cui devo interagire, a determinare riferimenti potenzialmente familiari, a individuare e definire quelle coordinate, a cui pensavo poco fa, che mi possano far sentire via via meno perso e più in sintonia con il luogo. Dettagli inizialmente comuni con quelli del mio ambiente quotidiano o noti per cognizione diretta; poi altri meno soliti ma riconducibili ai primi o da essi derivabili e subito dopo altri ancora che possa rapidamente riconoscere come consueti e identificanti il luogo in cui mi trovo. Infine ulteriori magari del tutto avulsi alla mia sfera vitale e intellettuale ordinaria, ma coi quali possa credere di rapportarmi, anche in modo univoco e spesso sulla base di mere congetture o fantasie ma comunque in grado di costruirmi, oltre a una geografia dell’animo ‒ quella dell’anima si può formare solo dopo permanenze ben più prolungate e stanziali ‒ una sorta di personale semantica dell’ambiente d’intorno e di ogni cosa che lo compone: un significato che mi dia una definizione, un dato certo, un punto fisso ovvero un riferimento da utilizzare come segnavia. Magari poi tra solo due giorni mi sentirò come a casa qui, oppure mi sentirò un pesce fuor d’acqua finito su una brace rovente. Tuttavia è un processo mentale che mi si installa regolarmente, e finora credo mi abbia aiutato: a non sentirmi smarrito, in primis, ma appena dopo – e in modo poi preminente – a intercettare e cogliere l’essenza del luogo in cui mi trovo, la sua anima, la parte più intima e urbana ovvero antropologica.

Sì, esatto, anche questo è un brano tratto dal mio libro

Tellin’ Tallinn. Storia di un colpo di fulmine urbano
Historica Edizioni, 2020
Collana “Cahier di Viaggio”
Pagine 170 (con un’appendice fotografica dell’autore)
ISBN 978-88-33371-51-1
€ 13,00
In vendita in tutte le librerie e nei bookstores on line.

Potete scaricare la scheda di presentazione del libro qui, in pdf, e qui, in jpg, oppure cliccare sull’immagine del libro per saperne di più.

Ufficio stampa, promozione, coordinamento:

[Le foto in testa al post sono, dall’alto e da sinistra a destra, di: Neil GardoseHert NiksKevin LehtlaMiikka LuotioJudith Prins e ancora Neil Gardose da Unsplash.]

La morte di un lago

[Foto di Staecker, opera propria, pubblico dominio, fonte: commons.wikimedia.org.]

Come muore un lago? Non è certo una domanda che uno si fa abitualmente. Eppure qui, a Moynaq, hai l’impressione che questa sia una domanda che tanti si sono posti ben più di una volta nella vita. Se potessi andare a chiedere in giro a chi ha più di trentacinque anni, tutti avrebbero una mezza idea e qualche spiegazione. Ma non si possono far domande. Appena ho tirato fuori la macchina fotografica in mezzo al paese, accanto alla stazione dei bus, si è accostata un’auto con due figuri in borghese che ci hanno messo poco a farmi capire che no, meglio non fotografare. Meglio non chiedere come muore un lago. Del resto chi è giovane invece l’acqua non l’ha mai vista, ha sentito solo i racconti.
Dall’inizio degli anni Ottanta Moynaq non è più una citta rivierasca. Dalla scarpata di quello che una volta era il lungolago non si vede nulla di azzurro. Solo sabbia e polvere. Il lago d’Aral, il quarto specchio d’acqua dolce (non troppo dolce) più grande del mondo, oggi è un deserto di polvere salata. E allora per spiegare il perché del disastro dell’Aral torna utile il verso di un poeta uzbeko senza nome, che viene citato da Colin Thubron in uno dei suoi libri sull’Asia centrale: «Quando Dio ci amava ci donò l’Amur Darya. Quando smise di amarci di mandò gli ingegneri russi».

(Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2019, pagg.55-56.)

Nel suo Nostalgistan, Tino Mantarro racconta anche dell’assassinio del Lago d’Aral, uno dei più grandi e sconcertanti disastri ecologici e ambientali mai causati dall’uomo sul pianeta, un evento di quelli che mettono seriamente in dubbio la fondatezza del titolo di “civiltà” che il genere umano s’è attribuito. Ora l’Aral è lì, sotto gli occhi del mondo, con tutto il suo carico di morte, di desolazione e di forza ammonitrice: ma alla fine sanno (sapranno) imparare, gli uomini, da un errore pur così gigantesco?

Potete leggere di più sulla storia e la morte del Lago d’Aral qui, mentre qui potete vedere una significativa presentazione slide su quanto è accaduto. C’è da rimarcare il fatto che dai primi anni Duemila è in corso un tentativo di salvataggio almeno parziale del bacino e del suo ecosistema naturale, in verità sostenuto più da varie organizzazioni internazionali che dai governi locali: se ne parla qui.

Perdersi è una questione di metodo

[Una strada nel deserto del Kazakistan. Immagine tratta da cyclingelsewhere.com, cliccateci sopra per la fonte originale.]

Perdersi è una questione di metodo, richiede costanza, applicazione e una buona dose di scetticismo: i navigatori satellitari alle volte vanno contro l’evidenza. Per cui se la strada diventa poco più di una traccia nel nulla e lui continua a indicare ostinatamente quella direzione, qualche dubbio te lo devi far venire. Ma forse noi uomini del XXI secolo non siamo più abituati a guardare una mappa e a capire dove è l’Est e dove è l’Ovest, da tempo abbiamo abdicato al nostro senso dell’orientamento per la comodità oggettiva di un navigatore che ci porti da A a B senza badare a quel che sta in mezzo.

(Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2019, pag.45.)