Una geografia dell’animo

Durante i primi momenti che vivo in una città, nella quale non sono mai stato prima, mi ritrovo sempre impegnato, anche in modo inconscio, a cogliere quanti più dettagli possibile del nuovo luogo con cui devo interagire, a determinare riferimenti potenzialmente familiari, a individuare e definire quelle coordinate, a cui pensavo poco fa, che mi possano far sentire via via meno perso e più in sintonia con il luogo. Dettagli inizialmente comuni con quelli del mio ambiente quotidiano o noti per cognizione diretta; poi altri meno soliti ma riconducibili ai primi o da essi derivabili e subito dopo altri ancora che possa rapidamente riconoscere come consueti e identificanti il luogo in cui mi trovo. Infine ulteriori magari del tutto avulsi alla mia sfera vitale e intellettuale ordinaria, ma coi quali possa credere di rapportarmi, anche in modo univoco e spesso sulla base di mere congetture o fantasie ma comunque in grado di costruirmi, oltre a una geografia dell’animo ‒ quella dell’anima si può formare solo dopo permanenze ben più prolungate e stanziali ‒ una sorta di personale semantica dell’ambiente d’intorno e di ogni cosa che lo compone: un significato che mi dia una definizione, un dato certo, un punto fisso ovvero un riferimento da utilizzare come segnavia. Magari poi tra solo due giorni mi sentirò come a casa qui, oppure mi sentirò un pesce fuor d’acqua finito su una brace rovente. Tuttavia è un processo mentale che mi si installa regolarmente, e finora credo mi abbia aiutato: a non sentirmi smarrito, in primis, ma appena dopo – e in modo poi preminente – a intercettare e cogliere l’essenza del luogo in cui mi trovo, la sua anima, la parte più intima e urbana ovvero antropologica.

Sì, esatto, anche questo è un brano tratto dal mio libro

Tellin’ Tallinn. Storia di un colpo di fulmine urbano
Historica Edizioni, 2020
Collana “Cahier di Viaggio”
Pagine 170 (con un’appendice fotografica dell’autore)
ISBN 978-88-33371-51-1
€ 13,00
In vendita in tutte le librerie e nei bookstores on line.

Potete scaricare la scheda di presentazione del libro qui, in pdf, e qui, in jpg, oppure cliccare sull’immagine del libro per saperne di più.

Ufficio stampa, promozione, coordinamento:

[Le foto in testa al post sono, dall’alto e da sinistra a destra, di: Neil GardoseHert NiksKevin LehtlaMiikka LuotioJudith Prins e ancora Neil Gardose da Unsplash.]

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La morte di un lago

[Foto di Staecker, opera propria, pubblico dominio, fonte: commons.wikimedia.org.]

Come muore un lago? Non è certo una domanda che uno si fa abitualmente. Eppure qui, a Moynaq, hai l’impressione che questa sia una domanda che tanti si sono posti ben più di una volta nella vita. Se potessi andare a chiedere in giro a chi ha più di trentacinque anni, tutti avrebbero una mezza idea e qualche spiegazione. Ma non si possono far domande. Appena ho tirato fuori la macchina fotografica in mezzo al paese, accanto alla stazione dei bus, si è accostata un’auto con due figuri in borghese che ci hanno messo poco a farmi capire che no, meglio non fotografare. Meglio non chiedere come muore un lago. Del resto chi è giovane invece l’acqua non l’ha mai vista, ha sentito solo i racconti.
Dall’inizio degli anni Ottanta Moynaq non è più una citta rivierasca. Dalla scarpata di quello che una volta era il lungolago non si vede nulla di azzurro. Solo sabbia e polvere. Il lago d’Aral, il quarto specchio d’acqua dolce (non troppo dolce) più grande del mondo, oggi è un deserto di polvere salata. E allora per spiegare il perché del disastro dell’Aral torna utile il verso di un poeta uzbeko senza nome, che viene citato da Colin Thubron in uno dei suoi libri sull’Asia centrale: «Quando Dio ci amava ci donò l’Amur Darya. Quando smise di amarci di mandò gli ingegneri russi».

(Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2019, pagg.55-56.)

Nel suo Nostalgistan, Tino Mantarro racconta anche dell’assassinio del Lago d’Aral, uno dei più grandi e sconcertanti disastri ecologici e ambientali mai causati dall’uomo sul pianeta, un evento di quelli che mettono seriamente in dubbio la fondatezza del titolo di “civiltà” che il genere umano s’è attribuito. Ora l’Aral è lì, sotto gli occhi del mondo, con tutto il suo carico di morte, di desolazione e di forza ammonitrice: ma alla fine sanno (sapranno) imparare, gli uomini, da un errore pur così gigantesco?

Potete leggere di più sulla storia e la morte del Lago d’Aral qui, mentre qui potete vedere una significativa presentazione slide su quanto è accaduto. C’è da rimarcare il fatto che dai primi anni Duemila è in corso un tentativo di salvataggio almeno parziale del bacino e del suo ecosistema naturale, in verità sostenuto più da varie organizzazioni internazionali che dai governi locali: se ne parla qui.

Perdersi è una questione di metodo

[Una strada nel deserto del Kazakistan. Immagine tratta da cyclingelsewhere.com, cliccateci sopra per la fonte originale.]

Perdersi è una questione di metodo, richiede costanza, applicazione e una buona dose di scetticismo: i navigatori satellitari alle volte vanno contro l’evidenza. Per cui se la strada diventa poco più di una traccia nel nulla e lui continua a indicare ostinatamente quella direzione, qualche dubbio te lo devi far venire. Ma forse noi uomini del XXI secolo non siamo più abituati a guardare una mappa e a capire dove è l’Est e dove è l’Ovest, da tempo abbiamo abdicato al nostro senso dell’orientamento per la comodità oggettiva di un navigatore che ci porti da A a B senza badare a quel che sta in mezzo.

(Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2019, pag.45.)

Field Recordings

Field Recordings, il nuovo EP di Francesco Garolfi – mirabile e insostituibile compagno di music reading pubblici con i miei testi e la sua musica -, uscirà il prossimo 6 dicembre, su tutte le piattaforme digitali. Contiene tre brani di blues rurale e gospel registrati dal vivo, one take, con un solo microfono d’ambiente, come i dischi classici, in una serra ottocentesca, in piena Pianura Padana.

Di Francesco Garolfi vi ho già detto in questo articolo e chi non lo ha ancora letto può trovare in esso cosa di lui ne penso: ma, se posso fare (auto)spoiler, posso dire che credo sia uno dei più validi e raffinati musicisti italiani. Dunque, se io fossi in voi, farei senza dubbio ciò che farò io e il 6 dicembre mi accaparrerei al volo Field Recordings proprio come me lo accaparrerò io, non fosse altro per soddisfare la gran curiosità che mi suscita anche a prescindere dalla certificata altissima qualità artistica che Garolfi regala sempre.

D’altro canto: e se fare (nonché registrare) musica come “si faceva una volta” con i dischi classici rappresentasse – paradossalmente, o forse no – il futuro della vera arte musicale?

N.B.: chi volesse non solo leggere – come qui, ora – ma pure ascoltare Francesco Garolfi, vada ancora qui oppure qui.

Tino Mantarro, “Nostalgistan” (una “diecensione”)

(“DIECENSIONI”: recensioni letterarie in 10 punti, per presentarvi un libro che ho letto e le sue peculiarità nel modo più chiaro, più utile e meno tedioso possibile. Dieci cose, insomma, per cui valga la pena di leggere – o meno – il libro del quale vi sto per dire.)

Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale

  1. Tino Mantarro, collaboratore del Touring Club Italiano, giornalista di “Touring”, il magazine del TCI, uno che viaggia per lavorare o forse lavora per viaggiare. Certamente uno che quando viaggia lo fa da viaggiatore autentico, in ogni modo e per qualsiasi motivo lo faccia.
  2. Fate un “autotest”: prendete un mappamondo o un planisfero fisico e provate a individuare rapidamente e senza aiuti altrui la zona del pianeta dove sono situati gli “stan”. Poi, passate al livello superiore: individuate ciascuno di essi, senza leggere i nomi dei vari stati eventualmente indicati. Siete riusciti a fare ciò alla stessa velocità con la quale individuereste l’Europa o l’Australia? No? Ecco perché Nostalgistan è un libro necessario da leggere.
  3. Posto il punto 2, quella zona del mondo è d’altronde tanto poco conosciuta da noi occidentali (salvo che per rari dettagli: forse conosciamo Baku per il Gran Premio di F1, Astana se si è appassionati di ciclismo o funzionari dell’ENI e Samarcanda se si è fan di Roberto Vecchioni) quanto è stata fondamentale, nei secoli, per la storia europea post-Impero Romano. Altro buon motivo per poterla conoscere meglio, leggendo il libro.
  4. Il viaggio di Mantarro negli “stan” dell’Asia centrale mi pare una delle più intense manifestazioni della celebre domanda chatwiniana «Che ci faccio, qui?» il che rende Nostalgistan un diario di viaggio molto particolare, assai intenso e parecchio divertente.
  5. Di contro, posto il punto 4: «Mi attira quest’estetica di terre in rovina, questi luoghi dissonanti, mai lindi, mai ordinari, a volte oggettivamente brutti. Paesaggi immensi, spesso estremi, spazi aperti di sovrumana grandezza. Luoghi dove nulla è a posto, dove a ogni angolo c’è qualcosa di inaspettato, malmesso e improvvisato. Dove vivono persone incastrate dalle giravolte del potere, sconfitte dalle ideologie, travolte dalla fine dei sogni. Posti dove l’eccentricità non è una posa, ma la regola» (pagina 11).
  6. Di solito è ordinario aspettarsi, da un diario di viaggio per giunta in un luogo così particolare, narrazioni convintamente entusiaste dei luoghi visti e visitati. In Nostalgistan no: Mantarro vive frequenti momenti di “delusione” per molti dei posti in cui giunge, un po’ perché obiettivamente sono quanto riportato nel punto 5, un po’ per le sue aspettative eccessive. Vi chiederete: ma come? Vi risponde a pagina 81, Mantarro, citando lo scrittore inglese Geoff Dyer: «Quando non sarò più capace di rimanere deluso, l’avventura sarà finita».
  7. Da dove pensate che vengano le mele? No, non da lì e nemmeno da quell’altro posto là. Leggete a pagina 120.
  8. E magari qualche volta vi siete lamentati, annoiati, stancati di qualche hotel nel quale avete passato le vacanze? Be’, andate a pagina 152 e leggete il capitolo che lì inizia, dal titolo emblematico “Come è triste Venezia? Non avete mai visto un motel kirghiso”.
  9. Pagina 154: «Mi viene da pensare che ci si incastra in posti come questi per essere costantemente perseguitati dal desiderio di essere altrove. Ma sono anche qui perché se fossi altrove morirei dalla voglia di farmi un’idea di che cosa si nasconde dietro a questi nomi che mentre li pronuncio già penso di partire.» Un’altra illuminante definizione di “viaggio”: di quello autentico, quello dove niente è all inclusive se non la certezza di generare in se stessi continua curiosità, sorpresa, sconcerto, magari delusione (vedi il punto 6) ma sicuramente pure una “possibile” e appagante felicità (pagina 161).
  10. E se un indomani quei luoghi che oggi fatichiamo a identificare sulle mappe e così poco conosciamo (e nonostante il punto 8) diventassero nuove rinomate e ambite mete turistiche? Ovvero se, da periferia sia del mondo occidentale che di quello orientale quale è oggi, quella zona diventasse un nuovo e influente “centro” di importanza geopolitica e economica fondamentale? Chi può dire come andrà a finire, lì? Be’, Tino Mantarro, ad esempio.

Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, collana “Altri Viaggi”, 2019, pagine 206, € 15,00.