P.S. – Pre Scriptum: questo articolo l’ho scritto la scorsa settimana, prima che accadessero i più recenti fenomeni meteorologici che hanno colpito varie zone del nord Italia e che hanno drammaticamente dimostrato come a rischio non siano solo i territori naturalmente più delicati come quelli montani ma anche i più grandi e strutturati agglomerati urbani. In qualche modo, dunque, le mie considerazioni si possono ancora più ampiamente contestualizzare alla realtà climatica in corso.
I fenomeni meteorologici, in forza del cambiamento climatico in corso, si stanno facendo di anno in anno sempre più estremi. Nubifragi violentissimi, tempeste di fulmini mai registrate prima, grandinate con chicchi grossi come palle da tennis, trombe d’aria, fenomeni di downburst che in pochi istanti radono al suolo interi boschi sono sempre più frequenti e si manifestano anche in zone, come quelle alpine, che in passato rarissimamente li avevano registrati e con portate molto inferiori. A tali fenomeni si devono sommare quelli non cagionati direttamente dai fenomeni meteorici ma da altri fattori climatici in variazione, come ad esempio le frane dovute allo scioglimento del permafrost oppure i crolli di seracchi glaciali che in certi casi possono coinvolgere aree utilizzate dall’uomo.
Ora, al netto delle colossali stupidaggini di coloro i quali vogliono negare l’evidenza dei fatti (per inciso: sono ben contento che quelli proferiscano pubblicamente certe affermazioni, così possono dimostrare il livello di incompetenza e di insensatezza raggiunto senza lasciarci alcun dubbio al riguardo), tali fenomenologie così estreme e tanto frequenti devono necessariamente farci riflettere su come si possa generare un’adeguata e consona resilienza ad essi, che possa tutelare il più possibile il paesaggio e parimenti chiunque lo vive, da residente stanziale o da turista occasionale. La montagna, insieme al resto del nostro territorio, sta cambiando non solo dal punto di vista ambientale e paesaggistico – basti pensare alla fusione dei ghiacciai, che può mutare radicalmente l’aspetto e la riconoscibilità, dunque anche la coscienza del luogo, di una montagna – ma anche climatico e quindi ineluttabilmente pure antropico e culturale.
Se osserviamo e consideriamo la tristemente celebre Tempesta Vaia dal 2018 – anno del suo accadimento – verso il passato, la potremmo valutare come un evento eccezionale; se la osserviamo e consideriamo dal 2018 a oggi, ci sembra già un evento estremo d’una fenomenologia sempre più frequente e vieppiù ordinaria. Questo nel concreto non significa solo milioni di alberi abbattuti e danni paesaggistici ingentissimi nei territori montani colpiti, significa pure 2,8 miliardi di Euro di danni nelle sole regioni alpine italiane che hanno subìto la forza devastatrice della tempesta. Posta l’estremizzazione costante dei fattori climatici, soprattutto di quelli termici che sovraccaricano l’atmosfera di energia la quale prima o poi si scaricherà al suolo attraverso la proporzionale violenza dei fenomeni meteorologici, bisogna considerare l’ipotesi che, come detto, le casistiche al riguardo nel prossimo futuro saranno sempre più ricche e più ingenti le conseguenze non solo ambientali, anche economiche e sociali.
Tutto ciò, inutile affermarlo, non per fare del catastrofismo climatico gratuito ma per riflettere seriamente su questa realtà e sulla sua portata in relazione ai territori naturali e antropizzati al fine, come ribadisco, di poter sviluppare e strutturare un’adeguata capacità di prevenzione, se possibile, e di mitigazione dei danni. Credo che chiunque sano di mente – persino qualche negazionista dei meno oltranzisti – risulti sensibile alla bellezza e al valore culturale dei paesaggi montani (non solo di questi, ripeto, ma vi ci riferisco per visione e studio personali) e capisca l’importanza e la necessità di salvaguardarne l’ambiente e il paesaggio a partire dal suo aspetto, il primo fattore attraverso cui si origina e elabora la relazione culturale che formuliamo verso di essi. Dunque – l’ho già affermato altrove, lo ribadisco ora – è assolutamente importante sviluppare l’analisi delle cause all’origine di questi fenomeni e della loro estremizzazione per poter meglio comprendere e, appunto, magari prevederne gli effetti, ma dovremmo aumentare anche l’attenzione e il lavoro riguardo la resilienza diffusa e strutturata nel tempo, non mirata ai singoli episodi (per non restare nel solito deleterio ambito della “emergenza”) ma alla programmazione a lungo termine in forza delle evidenze scientifiche registrate.
Viceversa, rischieremmo di restare sempre lì a trottolare – con conseguenti polarizzazione delle opinioni e litigiosità crescenti – intorno alle cause, subendo inermi le conseguenze dei fenomeni più estremi e al contempo senza imparare a come poter mitigare, magari annullare ma nel caso anche convivere con i loro effetti. E se qualche spirito misero continuerà a negare pervicacemente ogni cosa, sarà probabilmente il primo a subire quegli effetti e nel modo più pesante, già.
[Nelle immagini dei giorni scorsi a corredo del post: downburst in Tirolo, Austria, e grandine in Nord Italia.]