Panchine normali o panchine giganti?

[La panchina gigante di Piamprato in Valle Soana, Piemonte.]
Secondo voi, se in un luogo che offre un bel panorama e per ciò vi viene piazzata una “big bench”, una panchina gigante insomma, si fosse installata una panchina normale, avrebbe attirato lo stesso molte persone?

La risposta è no, ovviamente.

E perché mai? Cosa cambia tra le due, se il senso dell’opera è dare modo alle persone di ammirare la bellezza del luogo e del suo panorama?

Se al posto delle panchinone, quasi sempre caratterizzate da colori sgargianti che non c’entrano nulla con i luoghi in cui stanno, si fossero installate delle belle panchine normali, magari realizzate da un valente falegname o da un bravo artigiano del ferro battuto, non avrebbero veramente abbellito il luogo ben più delle prime dando ugualmente la possibilità alle persone di sedersi su di un oggetto pregevole e di godere del panorama? Non sarebbe stata comunque una situazione instagrammabile?

[Una semplicissima panca in legno sulle Alpi austriache. Foto di Arthur Dent su Unsplash.]
La risposta, altrettanto ovvia, è . E lo è perché alle panchine giganti non interessa nulla del luogo e della sua “valorizzazione”: sono oggetti autoreferenziali, oltre che volgari, che accentrano unicamente sulla loro presenza l’attenzione del pubblico più svagato banalizzando e degradando ciò che hanno intorno. Chi le installa vuole “valorizzare” il luogo, appunto, invece finisce inesorabilmente per imbruttirlo.

[Ecco l’unico vero scopo fondamentale delle panchine giganti.]
A questo punto non posso che chiedere: veramente molte persone accettano di stare al gioco, ad un gioco così bieco e cafone, e di partecipare – pur con tutta l’inconsapevolezza e la buona fede del caso – al degrado di un luogo di pregio? Invece di godere veramente delle bellezze naturali e paesaggistiche che può offrire camminandoci attraverso e magari sedendosi ad ammirarne le vedute su una semplice panchina – ma basta un sasso oppure un prato – sentendosi realmente dentro il paesaggio senza trasformarsi in un elemento di disturbo esattamente come lo è la panchina gigante sulla quale ci si trastulla?

Veramente molte persone possono accettare tutto questo a cuor leggero? Quale risposta più o meno ovvia possiamo dare a una domanda del genere?

Qualche riflessione intorno alla sentenza per la tragedia della funivia del Mottarone

Immagino che molti saranno rimasti o rimarranno sconcertati e amareggiati alla lettura delle notizie sulla sentenza di qualche giorno fa riguardante la tragedia della funivia del Mottarone, avvenuta nel maggio 2021. In forza delle pene patteggiate, e a fronte di quattordici persone che hanno perso la vita per palesi negligenze del personale dell’impianto, nessuno degli imputati andrà in carcere.

Dal mio punto di vista, tuttavia, non è in tale circostanza il problema principale al fondo della vicenda: in questo caso come in altri non è certo l’ammontare della pena a garantire una autentica giustizia nel senso più compiuto del termine, ma temo che parimenti, in questo modo, nemmeno si possa «iniziare a ricucire una ferita», come ha dichiarato il procuratore capo di Verbania al quale compete il processo. Si può veramente pensare che una pena sostanzialmente irrisoria possa lenire la tragicità della vicenda e ciò che di estremamente doloroso ha causato nei parenti delle vittime? D’altro canto: avessero dato pure l’ergastolo, agli imputati, sarebbe stata fatta realmente giustizia? Parimenti: si può pensare che risolvere in questo modo “accelerato” – ovvero tramite patteggiamenti e revoche di parti civili – il processo per una vicenda così tragica sia veramente il modo migliore per chiuderla e ritenerla giuridicamente “risolta”?

[La notizia della sentenza sul sito di “Open.online”; cliccateci sopra per leggerla.]
Non sono domande retoriche, queste: so perfettamente che il tema è complesso – non è solo giuridico ma diventa pure sociologico, filosofico, etico… – e non può assolutamente essere trattato in maniera semplicistica. Sono domande che non chiedono tanto risposte quanto riflessioni, il più possibile edotte sul tema e profonde, giammai istintive o emotive.

Piuttosto, l’andamento del processo di Verbania e la definizione per esso elaborata mi sembra che tocchino un altro aspetto importante ma molto poco considerato: il valore riparativo o rieducativo della giustizia, in tal caso non tanto nei riguardi degli imputati (i quali si presuppone non commetteranno nuovamente lo stesso reato, in futuro) ma delle circostanze che hanno caratterizzato la vicenda. In parole povere: una sentenza come quella di Verbania può avere un valore deterrente affinché certe negligenze non accadano più? O esiste il rischio che passi una percezione di sostanziale impunità pur a fronte della gravità – quattordici morti, ribadisco – del caso?

Lo affermo – in maniera certamente iper-pessimistica, lo so bene, ma in qualche modo prudenziale – non solo pensando a chi gestisce impianti funiviari e per il trasporto pubblico in generale ma anche a tutti quei soggetti preposti al controllo di essi, persone alle quali altre persone affidano totalmente la loro vita per qualche momento. La gravità della tragedia del Mottarone non sta solo nella negligenza di aver disattivato i freni di emergenza sulle cabine dell’impianto, ancor più sta nel aver ignorato, consapevolmente, che da questo comportamento negligente e dalle sue potenziali conseguenze dipendeva la vita di molte persone. La vita, non qualche graffio o livido.

È questo aspetto, più di altri, che a me sconcerta e amareggia della tragedia del Mottarone, così come in altre vicende similari. Le sentenze le si può ritenere discutibili ma sono certamente corrette dal punto di vista giuridico, così come lo sono le indagini svolte per giungere alla verità dei fatti e alla ricostruzione delle responsabilità dei colpevoli.

Ma la responsabilità etica, civica, culturale, umana? Se viene spontaneo affermare che nulla potrà mai risarcire completamente, sia dal punto di vista materiale e sia immateriale, chi è rimasto coinvolto nella vicenda, questa ovvietà non può e non deve diventare né una consolazione e nemmeno una qualsiasi manifestazione di remissione. Come ho già denotato, emessa la sentenza la questione da principalmente giuridica diventa morale, filosofica e persino per certi aspetti antropologica: come dovrebbe sempre accadere ogni qualvolta un evento tragico cancella in maniera ineluttabile, ma per motivi per nulla dovuti al fato o all’imprevedibilità, numerose vite umane la cui unica “colpa” è stata quella di affidarsi ad altre persone. In questo ambito, io credo, si deve conseguire una qualche forma di “giustizia” il più possibile logica e condivisibile, anche se mai completa e definitiva, non nelle aule dei tribunali. Nelle quali la giustizia fa il suo corso, come si dice, ma in qualche caso a discapito dell’umanità.

P.S.: a dare ancora più (tragicamente) senso alle considerazioni che avete letto, un altro incidente similare a quello del Mottarone ha coinvolto lo scorso 17 aprile 2025 la funivia del Monte Faito a Castellammare di Stabia. A fronte di cause ancora da stabilire – le indagini ovviamente sono ancora in corso -, anche in questo caso ci sarebbero di mezzo la rottura della fune traente e il mancato funzionamento dei freni d’emergenza su una delle cabine dell’impianto, con conseguenze alquanto simili nella dinamica alla tragedia di Stresa.

Una domanda semplice semplice sulle panchine giganti

[Una panchina normale in Val Fex, nel Canton Grigioni. Foto di ©Alessia Scaglia.]
Una domanda semplice semplice: perché in Svizzera, paese al centro delle Alpi e dunque ricco di innumerevoli paesaggi e angoli naturali spettacolari e «instagrammabili», come si dice ora, non c’è nemmeno una “panchina gigante” ma solo panchine come quella dell’immagine lì sopra (vedi mappa sottostante), mentre in Italia di “panchine giganti” ce ne sono 388 più altre 73 in costruzione, stando ai dati del sito relativo?

Qual è di preciso la patologia pandemica – perché di questo si tratta, ne sono certo – che, diffusasi in Italia e solo in Italia, permette la diffusione di questi oggetti turistici tanto insulsi e degradanti, nonché oggettivamente brutti, mentre nel resto del mondo – in tutto il resto del mondo, preciso bene – di “panchine giganti” ce ne sono solo 14?

Forse che c’entri il livello di cognizione e consapevolezza culturale diffusi riguardo il paesaggio?

Chiedo, sempre in tutta semplicità – e franchezza. Ecco.

Soprattutto le Alpi hanno bisogno di rispetto

[Foto di Mihály Köles su Unsplash.]

Contrariamente a quanto si pensi e sembra per la loro altezza, estensione e imponenza, le Alpi sono un territorio fragile, continuamente assediato dalle pianure circostanti per carpirne le ricchezze. Le Alpi hanno da secoli subito la rapina di legname, minerali, acqua, energia, sono state solcate da strade, ferrovie, funivie, gallerie, gasdotti, elettrodotti, sono state invase da stazioni turistiche che riproducono il peggio delle città, e da un turismo fracassone e inquinante.
Ora hanno bisogno di un nuovo turismo, di una nuova agricoltura più umana e aiutata dall’intervento pubblico, di servizi e trasporti pubblici, scuole, uffici postali, biblioteche, centri di ricerca sulla loro cultura, sovvenzioni per costruire nel rispetto della tradizione e anche per abbattere quanto è stato costruito male.
Soprattutto le Alpi hanno bisogno di rispetto.

[Alberto Paleari, L’attraversamento invernale delle Alpi. Dal lago Maggiore al lago dei Quattro Cantoni, MonteRosa Edizioni, 2017, pagg.80-81.]

Ciò che sulle Alpi scrive qui Paleari – che la catena alpina la conosce e l’ha vissuta (e vive) con intensità e sensibilità rare anche tra i più assidui frequentatori – è d’altro canto quello che pure il visitatore meno abituale ormai coglie della realtà delle nostre montagne, alpine ma pure appenniniche: basta che egli mantenga attivo il più semplice, ordinario, umano buon senso. Dal quale guarda caso scaturisce anche una delle forme più alte di rispetto, per chiunque e qualsiasi cosa.

Ci stavo pensando giusto di recente: io studio i paesaggi montani, il frutto dell’interazione tra elementi naturali e presenze antropiche mediato dai bagagli culturali specifici, e in tale categoria fondamentali i paesaggi possono essere definiti diversamente, in base alle peculiarità più identificative che li caratterizzano. Ma c’è una categoria altrettanto fondamentale, solo apparentemente immateriale, con la quale mi viene di definirli nel caso in cui l’interazione suddetta risulti considerabilmente equilibrata: paesaggi di buon senso. La quale categoria definisce in automatico anche l’opposta, i paesaggi senza senso, quelli dove l’uomo rompe ogni equilibrio generando danni d’ogni sorta materiali e immateriali, sovente irreparabili, dimostrando così non solo scarsa o nulla sensatezza ma pure assenza sostanziale di relazione con i territori montani, nei quali a volte abita pure.

Una condizione che è inevitabile generi qualche disastro, prima o poi, il quale ricadrà presto contro chi l’ha cagionato. È ciò che succede quando non si usa il buon senso, d’altronde.

Un tentativo maldestro di giustificare «l’invasione delle panchine giganti»

Mi duole parecchio tornare a toccare l’argomento “panchine giganti”, un fenomeno che ha già imboccato una rapida decadenza e del quale presto non parlerà più nessuno, in primis quelli (sempre meno persone, in verità) che ora se ne dimostrano entusiasti. Fatto sta che qualche giorno fa “Il Post” ha pubblicato un articolo significativamente intitolato L’invasione delle panchine giganti (lo trovate anche lì sotto) che fa il punto della situazione del fenomeno e rimarca le tante critiche che ha manifestato al riguardo chi si occupa di studio, tutela e valorizzazione del paesaggio (“categoria” nella quale immodestamente mi ci metto anch’io, che infatti sul tema ho scritto parecchio).

L’articolo dà conto anche delle risposte alle suddette critiche da parte di Chris Bangle, l’ideatore e fautore delle “big bench”, che vi riporto qui sotto per come sono state rese dall’articolo:

«Nella vita esistono sempre le critiche, e noi facciamo del nostro meglio per rispondere in modo costruttivo», ha detto Bangle. D’altra parte «i promotori ci riportano che l’installazione di una panchina gigante su un territorio comporta una significativa ricaduta positiva sul territorio», ha aggiunto, sia in termini di occupazioni di camere che nelle attività dei ristoranti e degli esercizi commerciali. Uno degli obiettivi della fondazione è quello di contenere il fenomeno ed evitare che «si diffonda in massa, snaturandosi», ha detto: ha infine paragonato il progetto a Venezia, che è notoriamente alle prese con il problema del turismo di massa, osservando che anche in quel caso «c’è chi la visita in modo superficiale e chi in modo approfondito e rispettoso».

Personalmente, con tutto il rispetto del caso, mi pare una delle non risposte più notevoli che abbia mai letto, che non affronta affatto le critiche mosse alle big bench – anche perché molte di esse sono ineccepibili – e invece cerca di giustificarne la presenza adducendo motivazioni di una inconsistenza e debolezza sorprendenti.

Rileggiamo la risposta di Bangle in dettaglio. Dunque: che nella vita esistano sempre le critiche è cosa sacrosanta, che si cerchi di rispondervi costruttivamente non è scontato e per ciò è apprezzabile; tuttavia in questa circostanza, vista la mole e la qualità di esse, è cosa formalmente doverosa.

«I promotori ci riportano che l’installazione di una panchina gigante su un territorio comporta una significativa ricaduta positiva sul territorio»: oddio, vorrei ben vedere che i promotori sostengano il contrario, dacché sarebbe un plateale mea culpa, un’ammissione di fallimento che, è facile supporre, essi non paleserebbero soprattutto all’ideatore delle panchine giganti. Inoltre, sostenere quanto sopra senza portare a sostegno dati concreti risulta ben poco attendibile: è un pour parler he lascia il tempo che trova.

L’affermazione che «Uno degli obiettivi della fondazione è quello di contenere il fenomeno ed evitare che si diffonda in massa, snaturandosi» genera da subito un certo sarcasmo. Secondo il sito delle big bench, siamo a 393 panchine esistenti e 64 in costruzione, totale 457 panchinone. «Evitare che si diffonda in massa»? Lo dice seriamente?

Infine, ciliegina finale su una torta già piuttosto indigesta, il paragone con Venezia: che c’azzecca? Sono due cose del tutto imparagonabili, anche nelle rispettive specificità del “turismo di massa”; sostenere poi che «c’è chi la visita in modo superficiale e chi in modo approfondito e rispettoso», oltre che una banalissima ovvietà, rappresenta un tentativo di sviare l’attenzione da una delle “peculiarità” più negative delle panchine giganti, quella di attrarre visitatori molto più attenti ai selfies che alla conoscenza dei luoghi che le ospitano alimentando un turismo prettamente ludico e puerile. O forse Bangle vorrebbe sostenere che i monumenti artistici e architettonici di Venezia – da lui in sostanza paragonati alle panchinone – possono giustificare una loro fruizione turistica maleducata e degradante? Non penso proprio che voglia farlo, il che dimostra quanto la sua affermazione sia totalmente fuori contesto e funzionale solo al tentativo (fallito) di difendere l’indifendibile.

[Ciò che è successo qualche tempo fa a Triangia, in Valtellina. Cliccate sull’immagine per leggere l’articolo.]
Ecco, questo è quanto. Ribadisco: a breve delle panchine giganti non si ricorderà più nessuno (magari verrà inventato qualcosa di ancora peggio ma è un’altra questione, nel caso). Purtroppo, di contro, il timore è che se ne restino lì dove sono state piazzate a centinaia come rottami arrugginiti e cadenti se nessuno si prenderà la briga – che un certo costo avrà, ovviamente – di smantellarli e ripulire l’area. Speriamo vivamente che ciò non accada, e che lì dove ci sono le panchine torni in auge un turismo ben più consapevole, attento e sensibile ai luoghi, alla loro bellezza e alle peculiarità che li caratterizzano e li rendono unici. Un turismo ben più vantaggioso per chiunque, senza alcun dubbio.