Chi sono i protagonisti dei progetti di sviluppo delle montagne?

Nei progetti di sviluppo a base culturale i protagonisti sono le comunità, NON i progettisti.
Al centro della scena DEVE esserci la comunità, NON i progettisti.
Il progetto è un patrimonio della comunità. Il progettista è al servizio della comunità.

Così scrive sulla propria pagina Facebook il professor Pier Luigi Sacco uno dei massimi esperti italiani nel campo della produzione culturale.

Sono considerazioni che trovo del tutto centrate anche per i progetti pensati per o realizzati nei territori montani, i quali sono ambiti assolutamente culturali – è cultura il paesaggio montano, è cultura l’ambiente, lo è il turismo (anche quello apparentemente più massificato e consumistico), lo è la vita delle comunità di montagna – per molti versi più di quelle metropolitane – e ovviamente lo è la politica.

Bene, proviamo a sostituire nelle parole del professor Sacco “politici” a «progettisti»:

«Nei progetti di sviluppo a base culturale i protagonisti sono le comunità, NON i politici.
Al centro della scena DEVE esserci la comunità, NON i politici.
Il progetto è un patrimonio della comunità. Il politico è al servizio della comunità.»

Ecco espressa in maniera perfetta la situazione politica dei territori montani italiani, nei quali con troppa frequenza i progetti che vengono proposti e finanziati con somme ingenti di denaro pubblico appaiono non come opere al servizio della comunità ma funzionali al prestigio e alla propaganda del politico/dei politici di turno.

Fine.

N.B.: nell’immagine, tratta da questo post sulla pagina facebook “Voci di Cortina”, una eloquente visione del cantiere della pista di bob di Cortina d’Ampezzo, esempio assoluto di progetto inutile per la comunità che lo sta subendo.

Sviluppare le montagne con l’arte e la cultura (nonostante certa politica). Intervista a Cristina Busin, presidente dell’Officina Culturale “Alpes”

(Articolo pubblicato in origine martedì 3 settembre su “L’AltraMontagna”, qui.)

Dal 2012 Alpes, “Officina culturale di luoghi e paesaggi” che dalla propria sede di Milano opera in tutto l’arco alpino, elabora e propone iniziative di matrice artistica e culturale appositamente studiate per i territori montani (ma non solo per questi) e personalizzate a ciascun contesto di riferimento. Collaborando con enti pubblici e privati e grazie a un team di autori e artisti di vario genere, Alpes propone una nuova e per molti versi innovativa modalità di frequentazione della montagna basata sulla produzione culturale che mira alla ri-conoscenza delle geografie dei luoghi, a beneficio tanto dei visitatori quanto dei residenti.

Cristina Busin, perché una “Officina Culturale” per la montagna? Come nasce Alpes e con quale missione?

Alpes nasce innanzitutto da un’esigenza (mia e di Luciano Bolzoni, con me socio cofondatore e direttore culturale): quello di vivere la montagna, e in genere il paesaggio che attraversiamo, in modo nuovo, più coinvolgente e che vada a sollecitare il maggior numero di curiosità e temi, lasciando ai frequentatori ampio spazio alle loro riflessioni, abbandonando quel “salire in cattedra” che spesso si riscontra in molte iniziative e che ritengo allontani più che sensibilizzare le persone. Il termine “Officina”, poi, ben rappresenta l’ambito definito dalla presenza di diverse personalità culturali ed artistiche affini che operano congiuntamente allo scopo di far risaltare ed emergere le peculiarità di ogni territorio. Una particolare cura nella progettazione fa in modo che ogni azione sia ritagliata “su misura” per ogni luogo in cui ci troviamo ad operare. Come detto, il termine officina «s. f. [dal lat. officina, da un prec. opificina, der. di opĭfex -fĭcis «operaio, artigiano», comp. dei temi di opus -ĕris «opera» e facĕre «fare»]», così si legge su un vocabolario, trovo sintetizzi molto bene l’idea della missione che vogliamo perseguire con le nostre proposte.

Cosa significa produrre cultura per la montagna, oggi?

Scinderei l’attività di produzione in due azioni: una prima azione è fatta di studi, ricerca, approfondimenti, relazioni, incontri, liberi scambi di idee e, perché no, curiosità personale; fondamentale in questo step è saper costruire reti di conoscenze professionali e non il più possibile affini. È il nostro punto di forza, quello che ci permette di attingere a contenuti e collaborazioni efficaci e uniche, e che permette di mantenere il “microcosmo” Alpes in equilibrio, in termini di collaborazioni attive.
La seconda azione, meno stimolante ma necessaria, è quella “politica”. È l’azione più ostica, che prevede incontri con gli amministratori di territorio, non solo per la presentazione dei progetti ma, soprattutto, per la ricerca dei budget necessari alla loro realizzazione; più l’azione proposta è condivisa maggiore è la forza con la quale gli enti proposti si adoperano affinché vengano reperiti i fondi necessari. Questo non avviene sempre con facilità perché non dipende quasi mai dalla qualità dei progetti realizzati, diversamente li avremmo realizzati tutti, ma spesso dal “ritorno” di immagine o di convenienza politica che gli stessi potenzialmente possono apportare a quell’amministrazione (e non tanto al territorio).

Alpes collabora spesso con gli enti pubblici dei territori di montagna, che non di rado vengono accusati di non supportare al meglio gli interessi delle zone che amministrano cedendo a modelli turistico-commerciali spesso decontestuali. Dal suo punto di vista privilegiato come vede la situazione al riguardo, e come si è evoluta negli anni di attività di Alpes?

Come dicevo poco fa l’azione politica è la parte più ostica. Come ha ben evidenziato lei nella domanda, troppo spesso ci troviamo di fronte ad amministrazioni di territori di montagna a cui piace “vincere facile”, prediligendo modelli turistici prevedibili e ripetuti nel tempo e nello spazio, pertanto inevitabilmente e aridamente decontestualizzati. Rincuorano però i molti esempi virtuosi, che sovente troviamo nei territori meno blasonati, non per questo meno meritevoli in quanto a bellezza e ricchezza di storia. Territori che hanno l’intelligenza e la voglia di investire nella loro unicità: in questo caso si perfeziona quella comunione di intenti che ci permette di realizzare cose interessanti.
Per contro, ed è il caso più deludente, è possibile dover gestire anche “involuzioni” rispetto a collaborazioni già consolidate nel tempo (o che si pensava fossero tali) dovute, banalmente, all’avvicendarsi dei referenti in seno alle amministrazioni, non sempre con la preparazione necessaria in grado di cogliere l’importanza della continuità e del valore di determinati progetti culturali.
Discorso a parte meriterebbe poi il faticoso aspetto burocratico, ma non basterebbe l’intero spazio disponibile per questa intervista []

(Potete leggere l’intervista completa su “L’AltraMontagna”, qui.)

Perché non rendere i piccoli paesi dei luoghi di produzione culturale?

[Cervara, sui Monti Simbruini, provincia di Roma. Foto di Krichilla da Pixabay.]

Il futuro di un paese non si gioca sulla velocità dei risultati per progettare gli spazi pubblici ma sul tempo da dedicare allo studio. È un percorso che ha bisogno di professionisti: archeologi, cartografi, Storici, archivisti, antropologi, speleologi, naturalisti, paleontologi, etnomusicologi, architetti, urbanisti, archeo-sismologi, botanici che lavorano in équipe per anni in centri ricerca, magari proprio nei palazzi in disuso.
Vorrei che esistessero i Borghi dell’Art. 9 [della Costituzione, n.d.L.] per mettere in pratica i valori costituzionali di equità, giustizia, accessibilità. La filantropia delle migliaia di volontari, i paesani, che presidiano, documentano e lottano per la tutela dei beni pubblici è la garanzia indiretta di un sistema virtuoso di conservazione e di recupero. Sviluppare un approccio consapevole verso questi contesti unici ci permetterebbe di usare un linguaggio inedito, perché i paesi possono essere dei luoghi di altissima cultura.

[Anna RizzoI paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, il Saggiatore, Milano, 2022, pag.153.]

[Cliccate su questa immagine per leggere la mia “recensione” de I paesi invisibili.]
In questo passaggio del suo bellissimo libro I paesi invisibili, Anna Rizzo mette in luce un’altra carenza del “sistema-paese” italiano nei confronti delle aree interne e rurali: l’incomprensione, più o meno voluta, del fatto che i piccoli paesi sono e possono diventare grandi produttori di cultura – e intendo dire cultura propria, non indotta. Non è solo la chiesetta antica, il nucleo medievale o il museo a fare cultura per essi: sia chiaro, sono elementi imprescindibili e ci sta che rappresentino la cultura in modo referenziale per il luogo –l’importante è che siano adeguatamente valorizzati senza essere dati in pasto al porno-turismo massificato, come è accaduto per moltissimi borghi – ma perché non si può considerare ciò che c’è intorno ad essi e dentro quell’intorno, ovvero la comunità residente nei suoi vari membri come un ulteriore e, appunto, più significativo strumento di produzione culturale? Perché non pensare ai piccoli paesi anche come luoghi di studio e spazi attrattivi per quelle figure citate da Anna, impegnate in un lavoro d’equipe a favore di loro stessi tanto quanto (e non di meno) del luogo, in correlazione alla comunità locale e alle sue iniziative volontarie di attenzione verso il proprio territorio che peraltro da ciò trarrebbero nuovo attivismo e maggior vitalità?

Anche questa potrebbe essere (il condizionale è solo formale, perché per me lo è sicuramente) un’altra buona via da percorrere per rigenerare le aree interne contrastandone i cronici fenomeni di impoverimento demografico, sociale, economico nonché, ovviamente, culturale; e una via molto più relazionata al contesto territoriale e alla comunità residente cioè ben più place based di certe altre a partire dai vari modelli turistici i quali, anche quando apparentemente virtuosi, a volte tendono (forse inevitabilmente, forse no) a ricalcare schemi legati alla customer experience, cioè all’assoggettamento del luogo alle proprie finalità più che ai bisogni e alle visioni degli abitanti.

Dice bene Anna: serve «un linguaggio inedito» al riguardo, dunque serve un pensiero differente da quello diffuso che lo possa elaborare e proferire. Una cosa apparentemente semplice, si potrebbe ritenere. E dunque perché non sappiamo praticarla?

Con la cultura c’è chi (forse) mangia e chi (ancora) no

[Cliccateci sopra, per ingrandire l’immagine e leggerla meglio.]
Il quotidiano veneto “Il Gazzettino” ha pubblicato lo scorso 10 novembre sulla pagina sopra riportata un articolo particolarmente critico circa la spesa pro capite della Regione Veneto – ovvio riferimento locale – per la cultura, d’altro canto corredando l’articolo con una tabella dalla quale si può evincere la spesa pro capite per la cultura di tutte le regioni italiane. Senza dubbio, insieme al Veneto, spicca il dato della ricca, operosa, industriosa e avanzata (almeno a parole) Lombardia, di pochissimo superiore a quello veneto – ma, stando a quanto scritto nell’articolo, nel 2017 sarebbe stata abbondantemente ultima.

Ora, il dato non certifica in automatico che nelle regioni di riferimento non si produca cultura o se ne produca molta di più/molta di meno rispetto alle altre, considerando in primis che molta della produzione culturale italiana si affida a investimenti privati o a altre forme di sostegno economico non amministrativo-politico. Tuttavia certifica senza alcun dubbio l’attenzione e la considerazione (o la mancanza) di certe amministrazioni regionali – e di certa politica che le regge – nei confronti della cultura, un ambito che in Italia risulta tanto necessario quanto troppo spesso negletto e quasi ostracizzato. Ciò peraltro in un’ottica del tutto super partes, visto come nella tabella le regioni virtuose e le regioni riprovevoli garantiscano una consona e forse nemmeno così sorprendente par condicio.

Evidentemente, per qualche alto funzionario della politica italiana (regionale e non solo), il famigerato «con la cultura non si mangia» resta non solo un motto suggestivo ma pure un principio ineludibile e fondante i propri atti pubblici – ma questa è una considerazione personale, e lascio a voi ogni riflessione sulla tabella e su quanto riportato nell’articolo.

P.S.: la pagina de “Il Gazzettino” è stata pubblicata sulla pagina Facebook dell’amico Luca Radaelli e da lì io l’ho presa.

Il paradosso del “mainstream”

[Foto di Austin Chan su Unsplash.]

La cultura mainstream – nazionale e internazionale – è una bolla. Come i più minuscoli gruppetti, accetta cose dette solo in una certa maniera e non capisce nient’altro. Capisce il suo slang. Il suo slang è emozionale-morale. Quale morale non importa, visto che per ogni proverbio esiste un proverbio che dice l’opposto e presi insieme fanno la saggezza popolare. Chi vuole stare nel mainstream – lo so per certo di prima seconda e terza mano – si adegua sottilmente e spontaneamente come ci adeguiamo per entrare in un gruppetto affiatato. Ci viene di scrivere romanzi come fossero serie tv, ci viene di stare sul pezzo come fossimo giornalisti, ci viene di dare consigli per gli acquisti come fossimo pubblicitari. Vogliamo starci, ma non vogliamo stare in un mondo grande. Vogliamo che la cultura nazionale o internazionale ci faccia credere che ritrovarsi in quella grande piazza equivalga a dialogo, complessità e maturità, e quella cultura ce lo assicura volentieri scegliendo portavoce dall’aria molto seria. La società dello spettacolo usa i metodi della bolla perché deve saper prevedere la reazione di molti consumatori a un prodotto. Non è un mondo adulto. Quando spingiamo prodotti culturali possiamo parlare solo di urgenza e necessità. Il prodotto culturale non ha caratteristiche specifiche, non parla alla storia del proprio linguaggio ma solo al momento presente della comunicazione, anche se è altro sogna di essere solo content. Questo costringe i poveri uffici stampa a spingerci libri come fossero fatti puri e semplici della cultura e non libri. Costringe noi a non esprimerci troppo in dettaglio per evitare di inceppare il meccanismo con cui campiamo. L’era dei critici non è finita perché i critici si erano troppo staccati dal mondo: è finita perché per consumare cultura non c’è bisogno di sapere troppo, basta sapere cosa gira e cosa tira, per assumerlo.
Ma ancora oggi se devi comprare una chitarra nuova – cioè per qualunque acquisto di cultura che realmente richieda un’alta definizione dei tuoi desideri – devi passare per i critici, per chi ti dice bene cosa hai davanti e ti aiuta a evolvere.
Penso sempre che gli italiani sono così culturali e critici solo sulle case, sul caffè e sulla cucina. […]

Da Francesco Pacifico, Come la cultura mainstream è diventata una bolla insignificante, pubblicato su che-fare.com il 12 febbraio 2021. Un’ottima e approfondita riflessione su come la dittatura del mainstream, che governa certa parte della cultura contemporanea (ahinoi!) e in generale l’immaginario comune sul mondo che viviamo, sia non solo artificiosa, deviata e deviante ma sostanzialmente ingiustificata, il che la rende ancor più paradossale di quanto già non appaia a quei pochi che ne sanno cogliere la realtà di fatto.

Potete leggere l’articolo nella sua interezza cliccando sull’immagine in testa al post oppure qui.