Oggi non è la giornata mondiale del cane

Oggi non è la giornata mondiale del cane e non sono certo io il primo a sostenere i pregi e la bellezza dell’esperienza di vita avendo un cane accanto, nonché la sua capacità di manifestare fedeltà, attaccamento, lealtà, empatia e molte altre virtù del tutto encomiabili – «il cane è il migliore amico dell’uomo» si usa dire al riguardo. Di contro, siamo abituati a considerare i cani creature “intelligenti” ma conferendo a questa definizione un valore assai superficiale e misero, ovviamente parametrato a quanto noi riteniamo di essere intelligenti – ci siamo autodefiniti Sapiens, no? È frequente sentire affermazioni del genere «oh, i cani… sono intelligenti come bambini di due o tre anni!» oppure giudicarli in tal senso perché sanno obbedire ai nostri comandi, capire come estrarre un biscotto da una scatola o trovare un oggetto che abbiamo loro nascosto… ma questa non è intelligenza, e tale atteggiamento dimostra semmai la visione del tutto ristretta e parecchio banale (ovvero banalizzante) che abbiamo della questione.

Ora: a parte che fino a quando non sapremo veramente comprendere e comunicare con i cani (e gli altri animali), non possiamo nemmeno definirli “intelligenti” a qualsiasi grado ovvero ritenere che lo possano essere ma in misura inferiore rispetto a noi, non ne abbiamo diritto e nemmeno facoltà: che ne sappiamo in effetti al riguardo, e su cosa sia realmente la loro intelligenza, come si manifesti, quali facoltà psichiche e mentali genera che magari a noi sfuggono e nemmeno sappiamo comprendere, di quali percezioni è capace che per noi sono impossibili?

A parte questo, appunto, le ammirevoli facoltà prima citate che i cani (e sicuramente altri animali, ma i quali probabilmente non hanno un rapporto così stretto con gli umani come i primi) ci manifestano, le consideriamo ammirevoli proprio perché ci rendiamo perfettamente conto che dovrebbero essere parte integrante innanzi tutto del modus vivendi sociale di noi Sapiens, le creature più intelligenti in assoluto del pianeta che quelle doti ordinariamente le ritengono manifestazioni di umanità – autointestandosele, in pratica. Invece non lo sono così tanto: quanto spesso riscontriamo tra di noi, nei rapporti sociali che intratteniamo reciprocamente, falsità, aggressività ingiustificata, disonestà, slealtà, insensibilità, prepotenze di vario genere, crudeltà e altre cose parimenti deprecabili? – ho avuto esperienze recenti al riguardo, da testimone diretto. Tutte cose che non sono esattamente pregevoli in creature che si ritengono così intelligenti e civilizzate come gli umani. E ciò vale nei massimi sistemi come nei minimi, cioè dall’incapacità cronica di non massacrarsi in guerre e conflitti continui (banale rimarcarlo, ma siamo sempre lì a spararci addosso in fin dei conti) fino ai tanti casi di cronaca quotidiana nelle nostre città – ma pure negli atteggiamenti che si rilevano sui social media, le nuove piazze pubbliche della post-modernità nelle quali sono frequenti le gare a chi dimostra a parole la più incivile ignoranza.

Dunque non tanto “chi” ma cosa è più intelligente, rispetto alle dinamiche del mondo nel quale tutti viviamo, tra la fedeltà leale del cane “intelligente-ma-tanto-per-dire” e gli abusi di noi Sapiens supremamente intelligenti al punto da prepararci ad andare su Marte ma così adusi a comportamenti variamente inqualificabili?

No, oggi non è la Giornata mondiale del cane, è il 26 agosto. Ma pure in quella data di celebrazione ufficiale così come in ogni altro giorno dell’anno e del tempo che noi umani condividiamo con i cani, non è poi così vero – fatemelo dire – che «il cane è il migliore amico dell’uomo». Voglio dire, sarebbe bene precisare meglio il concetto: il cane è e di gran lunga il miglior amico del suo umano, ma formalmente non lo è al riguardo degli altri uomini, dei quali quotidianamente rivela e palesa, attraverso la sua condotta così virtuosa, le tante bassezze delle quali si rendono protagonisti verso il prossimo. Ad essi – a noi tutti – i cani danno lezioni di vita e di virtù giorno per giorno, ma spesso gli uomini non le sanno più comprendere e imparare. Non sanno farlo da altri uomini, dalla storia, dalla memoria, figuriamoci da animali che ritengono intelligenti solo perché sanno riportare la palla lanciata lontano o poco di più.

Anche da ciò si evince quanto ci siamo drammaticamente “espulsi” da ciò che a tutti gli effetti è il mondo, cioè natura. È una delle colpe fondamentali, dei guai più tremendi che comminiamo al mondo e ci autoinfliggiamo, dal quale derivano le conseguenze che riscontriamo nel nostro rapporto con il pianeta e tanti dei disastri derivati e cagionati all’ambiente, alle altre creature viventi, agli ecosistemi, alle dinamiche biologiche delle quali siamo parte come ogni altra cosa, sebbene ce lo siamo dimenticato.

Non siamo essere fedeli, leali, empatici con la Terra, con la natura, con gli altri animali verso i quali ci consideriamo così superiori, figuriamoci tra di noi umani. Ecco, sarebbe bene che tutti i giorni dell’anno fossero in tal senso dedicati ai cani e all’esempio che con gli altri animali ci sanno dare nel migliorare la qualità delle nostre vite: seguire quell’esempio e applicarlo nelle nostre società ci dimostrerebbe molto più intelligenti di quanto pensiamo di essere.

(Quello nelle foto è ovviamente il mio «migliore amico», maestro di modus vivendi virtuosi nonché segretario personale a forma di cane Loki.)

Pensarci “altro”, non sempre e solo Sapiens

[Foto di winluk da Pixabay.]
Siamo esseri umani, siamo Sapiens. La razza dominatrice assoluta del pianeta.

Tutto ciò che facciamo, nel nostro abitare la Terra, è in funzione dei nostri bisogni, obiettivi, scopi, ideali – a volte inevitabilmente, altre volte no. Si chiama antropocentrismo: la nostra sovranità planetaria ci dà il diritto di  praticarlo, sì, ma di contro non ci riserva il dovere di imporlo a qualsiasi altra cosa, vivente o no. Più che antropocentrismo si dovrebbe parlare di antropoarchia e non semplicemente “assoluta” ma assolutista.

Sia chiaro: ogni creatura terrestre, a modo suo, concepisce il proprio mondo in maniera “egocentrica” vivendolo in base alle proprie finalità. Ma quella umana è l’unica razza che, facendo ciò, non solo si è posta al di fuori degli equilibri ecosistemici che governano il pianeta ma di frequente ha deciso di stravolgerli. L’antropocentrismo ha generato l’Antropocene, l’Olocene dell’uomo; nessun’altra razza pur forte e individualista ha osato tanto. Che sia avvenuto per mancanza d’intelligenza o ricchezza d’istinto non cambia lo stato delle cose.

[Illustrazione di Kaskar 537 da Pixabay.]
Se l’evoluzione culturale della razza umana l’ha portata a mettersi al centro del mondo, l’aver reso tale centralità dogmatica ovvero la formale incapacità di concepirsi virtualmente sullo stesso piano del “resto del mondo” quando sia logico farlo rappresenta una sostanziale involuzione culturale.

Non sappiamo far altro che pensarci il “centro” del mondo. Perché non proviamo a pensare/pensarci come qualcos’altro? Non ne siamo capaci, oppure non vogliamo farlo?

«Thinking like a mountain», pensare come una montagna, così decenni fa ha proposto Aldo Leopold, precisando: «Noi abusiamo della terra perché la consideriamo come una merce che ci appartiene. E’ solo quando vediamo la terra come una comunità a cui appartenere che iniziamo a trattarla con amore e rispetto. Non c’è altro modo in cui la terra possa sopravvivere all’impatto dell’uomo meccanizzato.» (A Sand County Almanac and Sketches Here and There, 1949, it. Pensare come una montagna. A Sand County Almanac, Piano B Edizioni, 2019-2023.)

Pensare come una montagna, dunque.
E pensare come un bosco che vive e resiste sui fianchi di un monte.
Pensarci come un albero che popola quel bosco.
Pensare come un’aquila che osserva il mondo dal cielo, dalla parte opposta rispetto a noi.
Pensarci un lupo che vuole cibarsi d’una pecora.
Pensare come una pecora che vuole salvarsi dal lupo.
Pensarci come un orso nel mentre che s’imbatte in un umano e lo osserva.
Pensare come un leone, che a sua volta forse si credeva “re” del proprio mondo e invece no.
Pensarci come un pesce, che sullo stesso nostro pianeta vive un mondo parecchio differente.
Pensarci un prato che vuole crescere la propria erba e non essere ricoperto da cemento.
Pensare come un melo che s’impegna a produrre più frutti possibile.
Pensarci come una vetta montana, ciclopica ma fragile.
Pensare come un ghiacciaio, così possente eppure tanto sofferente.
Pensarci come un’ape che vola verso un prato fiorito.
Pensarci come un minuscolo moscerino, in balìa di quasi tutto al mondo…
…eccetera.

Oppure, forse, ancor prima dovremmo fare soprattutto una cosa, quanto mai basilare per ogni altra: pensare.

Siamo Sapiens, dovrebbe riuscirsi facile farlo e nel modo più giusto. Per il nostro bene e per il bene di qualsiasi altra cosa, vivente o no, insieme alla quale abitiamo questo nostro pianeta che pensiamo, crediamo, pretendiamo, ci illudiamo di dominare.

«Open To» il piatto tipico del Lago di Como!

Intanto, dalle mie parti ovvero a BellagioLake Como, Lombardy», esatto), già qualche turista straniero in visita chiede di poter gustare il più tipico piatto lariano in assoluto: la pizza!

D’altro canto l’ha vista su “Open To Meraviglia”, la campagna del Ministero del Turismo e dell’Enit, mica di gente a caso, eh! Vai ora a dirgli che no, non è proprio così… e che poi non vada a Napoli a chiedere di poter mangiare il Toc!

Per la serie: Open to qualche buon libro sull’Italia e sulla sua cultura che mi pare indispensabile un approfondito ripasso al riguardo, eh, fin dalle nozioni basilari. Ecco.

Open to me…diocrità!

Mi sembra di capire che la campagna di promozione turistica dell’Italia “Open To Meraviglia” venga unanimemente considerata un mezzo disastro (ma “mezzo” lo aggiungo io per personale magnanimità). Ciò per innumerevoli motivi messi bene in evidenza da tanti commentatori titolati sulla stampa e sul web – tra di essi scelgo l’analisi di Pier Luigi Sacco, sempre ottimo e illuminante su tali tematiche, pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, la potete leggere cliccando sull’immagine dell’articolo lì sotto e ingrandendola.

Se da un lato sconcerta il constatare nella campagna certe manchevolezze quasi ridicole per tanto siano grossolane, dall’altro a me tale vicenda rinfresca la memoria sul similare caso di “Italia.it”, la pretesa “vetrina” del paese sul web per la quale nel 2004 si spesero venti milioni di Euro – di soldi pubblici, ovviamente – per ottenerne una beneamata (web)cippa. Poi, alla fine, come anche osserva Pier Luigi Sacco nel suo articolo, c’è sempre chi obietta che intanto la “venerea” (nel senso della Venere botticelliana, mica altro eh) campagna sta facendo parlare di sé, in base al solito principio del «bene o male l’importante è che se ne parli». Ok, ma fossero sei contro quattro a darvi contro ci starebbe pure, qui invece nove su dieci (conteggio in difetto) ne parlano sì e invariabilmente male, dunque è inevitabile ritenere che elaborata nel migliore dei modi la campagna non lo sia affatto.

D’altronde, per tornare a tempi più recenti, mi vengono pure in mente molti progetti ipotizzati e tante iniziative e opere turistiche realizzate la cui sostanza è talmente sconcertante, insensata, decontestuale, impattante e sconclusionata rispetto ai luoghi per i quali vengono pensate che, temo, le loro idee di fondo si ispirano agli stessi princìpi delle campagne citate: cose pensate male, realizzate peggio, sprecanti denaro pubblico e destinate ad un pressoché certo fallimento ovvero, quando va bene, a provocare tanto fumo e ben poco arrosto.

Proprio non ce la fanno – verrebbe da pensare – quelli che a svariato titolo nel corso degli anni si ritrovano a gestire l’immagine turistica dell’Italia. Ma perché? Per incompetenza, suprema superficialità, cialtronaggine, menefreghismo in puro stile tiriamo-la-fine-del-mese-che-tanto-lo-stipendio-ce-lo-pagano-comunque? Un bell’enigma, senza dubbio.

E se invece quest’ennesima campagna disgraziata, visti i pregressi (“Italia.it”, cui si riferisce l’immagine qui sopra,Open è solo uno dei tanti), non fosse “sbagliata” ma, a suo modo, fosse ciò che non potrebbe che essere? Ovvero, se pure “Open to meraviglia” rappresentasse per certi ambiti, nelle forme e nelle sostanze con le quali si palesa, la realtà di fatto istituzionale italiana e ne fosse del tutto coerente per come faccia concretamente pensare al termine “cialtroneria”? Il quale è quello che trovo più significativo al riguardo, appunto, e mi scuso verso chi ritenga di trovarlo irrispettoso ma veramente non riesco a evitarlo.

La mediocrità come normalità e come medietà italica, in buona sostanza, al punto da diventare ispirazione inesorabile quando si debba presentare, in modi vari ma al fondo similari, l’Italia al di fuori dei suoi confini. Un paese che, è ormai assodato, vive ancora troppo di e su conformismi, stereotipi, tradizionalismi oltre i quali non sa andare e forse non vuole andare, dei quali spesso si lamenta ma nei quali in fondo si crogiola. Nel frattempo però il mondo, il tempo e la vita vanno oltre, e chissà se si riuscirà ancora a riprenderli.

Il selvaggio ci tiene d’occhio

Il giardino dell’uomo è popolato di presenze. Non sono ostili ma ci tengono d’occhio. Niente di quello che facciamo sfugge alla loro attenzione. Gli animali sono i guardiani del giardino pubblico, dove l’uomo gioca col cerchio credendosi il re. Era una scoperta, e nemmeno tanto sgradevole. Ormai sapevo di non essere solo.
Séraphine de Senlis era una pittrice dell’inizio del XX secolo, un’artista per metà pazzoide e per metà geniale, un po’ kitsch e non molto quotata. Nei suoi quadri, gli alberi erano cosparsi di occhi spalancati.
Hieronymus Bosch, il fiammingo dei retromondi, aveva intitolato una sua incisione Il bosco ha orecchi, il campo ha occhi. Aveva disegnato dei globi oculari sul terreno e due orecchie umane sul limitare di una foresta. Gli artisti lo sanno: il selvaggio vi tiene d’occhio senza che ve ne accorgiate. Quando il vostro sguardo lo scopre, lui sparisce.

[Sylvain TessonLa pantera delle nevi, Sellerio, 2020, traduzione di Roberta Ferrara, pagg.50-51; orig. La panthère des neiges, 2019.]

N.B.: nell’immagine in testa al post, scattata dal fotografo naturalista francese Vincent Munier e tratta dal docufilm La pantera delle nevi, del quale ho scritto (e non solo) qui, c’è un animale selvaggio che vi sta guardando dritto negli occhi. Lo vedete?