Vivere nella verticalità dello spazio

[Prato Leventina, nell’omonima valle ticinese. Foto di Alazar Ferrazzini da Unsplash.]

«Sempre più mi attrae, poi, l’immagine di un’esistenza e di un’attività che si prolungano nella verticalità dello spazio (propria, beninteso, di parecchi vichi maggiori delle valli ticinesi), un’economia che si sposta secondo la stagione dal villaggio al maggengo e da qui all’alpe, fino ai pascoli estremi, oltre i duemila, ormai quasi ubbidendo a millenarie leggi inviolabili.
«Non fa meraviglia che le fondamenta d’una tale struttura lentamente sistemata non abbiano subito gravi scosse per secoli. Era naturale – per limitarmi a un dato centrale – che in questa conca quasi di collina capre e pecore cedessero nettamente alle vacche, fortificando via più, diciamo così, il mito della razza bruna svittese. Ma sono lieto di scrivere che ancora poco fa ho visto passare nella Bedrina più nascosta un drappello di capre, toccate per riconoscimento di giallo alla base delle corna: un transito ordinatissimo, con fermatine per rapide pasture in cima allo strapiombo.
«Né muta per tanti anni il paesaggio: prati e campi, con qualche stalla, che separano l’uno dall’altro i villaggi, raccolti in gruppo non distratto da case stupide o spaesate.
«Non altrimenti che in altre parti del Cantone, il cambiamento può quasi dirsi recente: inevitabile, certo, ma non di rado senza regola, senza sufficiente rispetto del duro lavoro fatto in passato, insomma prodotto da un’impazienza pari alla noncuranza.»

[Giorgio Orelli, Rosagarda, Edizioni Casagrande, 2021, pagg.98-99.]

Le vedute letterarie del paesaggio ticinese di Giorgio Orelli sono sempre meravigliose, vividissime, profonde, saggi antropologici “minimi” narrati con una sensibilità poetica rara che raccontano molto più di quanto riportano le parole impiegate. Quelle che avete letto, riprese in Rosagarda, originariamente vengono dal testo che Orelli scrisse come prefazione della monografia Prato Leventina nelle carte medievali e nella tradizione, edito dal comune del Cantone Ticino nel 1985. La Bedrina citata da Orelli è oggi una riserva naturale che preserva le importanti torbiere presenti in zona: la potete conoscere meglio qui.

Prima che il paese imputtanisca

[Uno scorcio di Foroglio in Val Bavona, Canton Ticino. Immagine tratta da www4.ti.ch.]

Tre operai sono seduti attorno al fuoco, mangiano pane e cacio e mi guardano tranquillamente. Dicono, e ridono, che sono arrivati prima loro di noi, che pure siamo di qui. Uno, siciliano, dice che poi faranno enormi ripari contro le valanghe e larghe strade, cambieremo faccia a questa valle.
«Come facevate a viverci, sì dico prima?»
Non è mica facile rispondere, potrei dirgli solo: che non potrei più viverci ora. E i contadini? I contadini è più facile, basta fargli vedere una cappellata di soldi, dopo fanno festa anche ai cagnoni e agli onorevoli che vengon su a mangiarci terra e acqua. Giura: non scrivere mai patetiche elegie sul tuo paese che sarà deturpato. Giura: o un feroce silenzio (male) o la razionale opposizione politica: scegli, ma non l’elegia della memoria, che finisce col fare i comodi di chi comanda male, cioè mangia addosso al paese e fa in modo che il paese imputtanisca.

(Giovanni OrelliL’anno della valangaEdizioni Casagrande, 1991-2017, pag.123-124; 1a ed. Mondadori 1965.)

Belvedere con spaccio di ovomaltina

Vengono rumori secchi come quando qualcuno taglia un albero, non è detto che sia un picchio, più d’una volta mi sono sbagliato, sicuro di trovare un boscaiolo sono arrivato vicino al picchio, faceva uno strepito incredibile. Vengono da un dosso boscoso che un tempo doveva tremolare di betulle molto più di adesso se l’hanno chiamato Bedrina, un’altura così piacevole e invitante e varia che lo Stato, sempre vigile, dopo aver rapidamente permesso di adagiarvi una squallida polveriera, l’ha promossa Riserva Protetta con tanto di cartelli appesi agli alberi, ritoccati da villeggianti villanzoni in Serva Protetta e altro; con una torbiera sparsa di sfagni dai bei colori dove s’appaga la rana rossa in attesa di far vita notturna sulla terraferma, e la drosera non solo per passatempo cattura gli insetti che le s’impigliano tra i peli delle foglie, e li divora. Un posto così bello che a più d’un mammifero superiore è saltato in mente di sfruttarlo con attrezzature turistiche, cominciando ad allargare sentieri che da sempre ci sono e non ci sono, a tracciarne di nuovi non senza strazio del bosco, e trasformare certi ciglioni in veri e propri belvedere con spaccio di ovomaltina.

[Giorgio OrelliPrimavera a Rosagarda in Rosagarda, Edizioni Casagrande, 2021, pag.18.]

Ecco: come racconta da par suo Orelli in questo brano, lo sfruttamento del paesaggio alpino in senso turistico e patrimonializzante (per cavarci guadagni, insomma) non è certamente cosa nata ieri e non è riservata a solo alcune zone delle Alpi. Ovviamente, non è detto che ciò significhi in automatico banalizzazione del luogo, ma di sicuro il limite oltre il quale comincia a significarlo s’è fatto col tempo assai più vicino al punto zero e, probabilmente, molto meno visibile, viste le volte nelle quali viene palesemente superato, già.

Stalle a drappelli, o distratte

[Stalle di Ferubar a Bosco Gurin, Canton Ticino, Svizzera. Foto di Cassinam, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte: commons.wikimedia.org.]

Stalle di sola pietra, o di legno con zoccolo, o tutto legno, scurito, quasi nero talvolta; a drappelli con respiro come avvii di villaggi, o isolate, quasi distratte, che l’occhio errando è contento di ritrovare. Le più famigliari hanno accanto una fontana senz’acqua, guardandola sembra di vedere il getto limpido uscire come una volta, scosso d’improvviso dal vento.

[Giorgio Orelli, Primavera a Rosagarda in Rosagarda, Edizioni Casagrande, 2021, pag.12.]

Fanno latte, le vacche

Accarezzo tra le corna le vacche di mio padre, irrequiete come me. Rasente alle vacche, in uno stretto passaggio, passano le belle automobili, qualcuno ci fa delle fotografie. Sul treno c’è gente che guarda da dietro i vetri, chiusi; altri si sporgono, battono le mani. Gli automobilisti procedono lentamente, guardano che le vacche non urtino le loro macchine. Una donna, molto bella, coi guanti, sporge la testa bionda da un finestrino e chiede «Fanno niente queste mucche?». Fanno latte, penso, ma la donna è molto bella e sorride gentile, allora l’assicuro che proprio non deve aver paura.

(Giovanni Orelli, L’anno della valanga, Edizioni Casagrande, 1991-2017, pag.106; 1a ed. Mondadori 1965.)