Nel novero dei grandi scrittori svizzeri di letteratura di montagna – e quello elvetico, lo ribadisco, è l’unico ambito letterario che possa veramente e compiutamente definirsi in questo modo, “di montagna”: altrove vi sono bravi scrittori di montagna, in certi casi notevoli tanto quanto isolati – Giorgio Orelli ci entra non solo con pieno merito ma pure con particolare distinzione (e in compagnia del cugino Giovanni, l’autore del sublime L’anno della valanga). Si distingue in primis perché Giorgio Orelli è narratore di cronache montane dal versante Sud del Gottardo mentre quasi tutti gli altri grandi scrittori di montagna elvetici stanno al di là del crinale principale delle Alpi (Leo Tour, Oscar Peer, Cla Biert, Arno Camenisch…); come i primi è molto legato, anche letterariamente, alle sue terre natie, nel suo caso la Valle Leventina da Bellinzona fino alle creste del Gottardo, ma sono terre, queste, che come detto guardano a meridione, all’Italia, al Sole del Mediterraneo la cui aria, che già pare manifestarsi sulle rive ricche di palme e oleandri dei laghi prealpini tra Lombardia e Ticino, risale poi quelle vallate montane fino alle loro testate, portandovi uno spirito che sull’altro versante delle Alpi non è riscontrabile. Non che ciò determini alcuna sorta di graduatoria tra i vari stili letterari, anzi, ne accresce il rispettivo fascino: così, se leggendo il sursilvano Camenisch si percepiscono certe particolari sensazioni e leggendo l’engadinese Peer certe altre, molto simili ma non del tutto (trovate mie “recensioni” di loro opere nella relativa pagina del blog), nella lettura delle opere di Giorgio Orelli, pur profondissimamente alpine e specificatamente leventinesi – geograficamente, culturalmente, spiritualmente – è come se già si sentisse un che di mediterraneo, se così posso dire… di più sensuale, più emozionale, più poetico. Ma quest’ultima caratteristica è d’altronde inevitabile, essendo stato Orelli anche un notevolissimo e assai apprezzato poeta – anzi, è stato soprattutto poeta, considerato uno dei più importanti in lingua italiana del dopoguerra, e per molti aspetti è come se la sua prosa non sia altro che un poetare senza versi (evidenti, quanto meno) nella quale tuttavia la ricerca lessicale, dell’armonia delle frasi, di immagini di profonda e immediata suggestione, di termini magari inconsueti ma capaci più di altri di rapprendere nelle loro sillabe una certa particolare accezione e al contempo l’atmosfera dalla quale scaturisse è continua e necessaria, dunque alquanto significativa. Di contro, resta fortissimo il legame con la geografia umana dei monti riguardo i quali scrive e con le narrazioni orali delle vicende delle comunità che li abitano e dei personaggi che ne animano la quotidianità: tuttavia Orelli, forse proprio per quel notevole e raffinato scrigno poetico dal quale trae anche la propria prosa, riesce a non fissare semplicemente su carta dei resoconti di quelle narrazioni vernacolari, delle vicende, dei dialoghi, non ne ricava dei meri racconti pur pregiati ma in qualche modo è come se portasse lo spaziotempo dei monti narrati in un ambito narrativo che è profondamente e potentemente letterario, i cui elementi lessicali sono fatti degli stessi elementi geografici del paesaggio di quei monti – caratteristica fondamentale e distintiva, questa, di tutta la letteratura di montagna elvetica, che la rende così speciale rispetto a ogni altra. Per cui le rocce, i prati, gli alberi, il vento, gli animali e tutti gli altri componenti che fanno –materialmente e immaterialmente – i paesaggi narrati nei suoi testi si ritrovano nelle parole delle narrazioni stesse, ne sono parte integrante, determinano il senso del testo e formano le immagini che il lettore ricava dalla sua lettura, anche dove Orelli non stia raccontando di cose specificatamente montane, facendo da ciò scaturire immagini letterarie di grandissima e fascinosa potenza. Ad esempio quando scrive «Alla fontana in mezzo al villaggio mi sono accorto che dopo la rapida pulizia di questi anni le case fanno fatica a darsi la mano e sono meno allegre.» (pagina 70) per dire di quando le strade del villaggio sono state asfaltate coprendo il precedente fondo erboso: le case che per questo cambiamento “fanno fatica a darsi la mano”, una visione meravigliosa, poetica e insieme malinconica, di un cambiamento minimo ma epocale che sta trasformando la realtà urbana e umana del villaggio, poche parole che tuttavia sanno contenere un’intera e articolata riflessione sul tempo che passa e sullo spazio vissuto che cambia, non tanto in bene o in male, non è questo il punto, ma innanzi tutto modificando un paesaggio forse immutato per secoli e ora radicalmente mutato, seppur il cambiamento materiale (la semplice asfaltatura della strada) sia stato minimo.
La grandezza e la potenza letteraria alpina di Orelli sta in queste meravigliose invenzioni narrative, in questa profondità geografica, culturale, umana, spirituale, che egli riesce a fissare nei propri testi facendone un palinsesto narrativo che identifica un certo spazio e un certo tempo letterari senza tuttavia fissare un tempo e uno spazio fisici ben determinati, anche ove siano facilmente riconoscibili. D’altro canto la Leventina narrata da Orelli – o dagli Orelli, potrei dire – è valle già emblematica per propria storia e geografia: con i loro testi lo diventa ancor più, sorta di luogo simbolico e culturalmente identitario di una dimensione alpina e della sua civiltà umana che nel tempo si trasforma sempre più ma conserva in sé la memoria di un vissuto che lo spirito sensibile può ancora facilmente cogliere, anche dove la post-modernità abbia ormai portato i suoi radicali mutamenti.
Ah, mi rendo conto solo a questo punto che non vi ho detto – salvo che nel titolo di questa mia dissertazione – di quale libro sto disquisendo… Rosagarda (Edizioni Casagrande, 2021, postfazione e cura di Pietro De Marchi e Matteo Terzaghi), è una raccolta postuma di tre racconti, o “storielle” come le definiva Orelli, più volte rimaneggiati dall’autore e in parte lasciati incompiuti ovvero non rifiniti (anche perché lo scrittore svizzero era di quelli che quasi mai riteneva un testo “definitivo”) che raccontano appunto di questa località dell’alta Leventina, Rosagarda, il cui toponimo reale indica un piccolo alpeggio che però Orelli assurge al rango di simbolico “villaggio letterario”, nella quale personaggi di ogni genere e sorta vivono vicende minime oppure fondamentali, a volte divertenti, altre volte tristi o drammatiche, tratteggiando nel complesso un sublime, potente, poetico, appassionato ma pure elveticamente pragmatico ritratto alpino novecentesco che, una volta ancora, si presenta con un testo di bellezza delicata e suadente. Come sanno esserlo le montagne anche ove si palesino in tutta la propria morfologica forza ma al contempo donando allo sguardo, al cuore e all’animo un’amenità che si fa all’istante poesia e beatitudine.