Leo Tuor, “Caccia allo stambecco con Wittgenstein” (Casagrande)

La montagna è naturalmente un luogo carico di suggestioni filosofiche, in certi casi molto “alte” e a contatto con il trascendente e lo spirituale, in altri casi più pragmatiche e pratiche, correlate alla rudezza del territorio e alla difficoltà del viverci. A tal proposito, è interessante notare come quella peculiarità orografica che eleva i monti e li spinge verso l’alto, a contatto con il cielo e a debita distanza dalla “piattezza” e dalla monotonia morfologica del mondo di sotto, di contro crea un inopinato livellamento biologico (nonché morale, mi viene da dire) tra le creature che vivono su di essi. Voglio dire: sulle montagne anche il supertecnologico uomo contemporaneo deve ancora sottomettersi alla ruvidità del territorio, all’inclemenza del clima, alla mancanza della comodità geografica che invece la pianura offre, e tale condizione la subisce lui esattamente come la subiscono tutte le alte creature viventi che risiedono in quota. Una ormai rara par condicio, insomma. Anzi, non è raro che l’uomo del Terzo Millennio ne esca bell’e sconfitto: ad esempio, la sua mobilità su certi scoscesi pendii rocciosi non raggiungerà mai l’agilità di camosci e stambecchi, che per di più il freddo lo sopportano molto meglio degli umani… e così via.

Ecco, a proposito di animali: non si può dire di conoscere veramente la montagna – quella vera e pura, non quella addomesticata dal turismo di massa – se non si va a caccia di stambecchi. Lo sostiene Leo Tuor, montanaro (grigionese) purosangue, esperto cacciatore, produttore di formaggi e autore di Caccia allo stambecco con Wittgenstein (Edizioni Casagrande, Bellinzona (CH), 2014, traduzione di Roberta Gado; orig. Catscha sil capricorn en Cavrein, 2010) in qualità di rinomato scrittore di lingua romancia. Perché pure la caccia allo stambecco, praticata in alta quota tra alte vette, ghiacciai, seracchi, inquietanti pareti rocciose e allucinanti pietraie, ha in sé un che di filosofico, o quanto meno di metaforico nei confronti della vita di montagna e del legame che relaziona l’uomo a questi territori tanto spettacolari nel paesaggio quanto, appunto, ostici da vivere ma pure profondamente affascinanti e illuminanti.

Caccia allo stambecco con Wittgenstein (ove in verità il filosofo austriaco non è che c’entri molto, se non per qualche citazione qui e là nelle prime pagine del testo) è una sorta di racconto autobiografico in forma di pseudo testo saggistico (ma prendete tale definizione nel modo più largo e meno compunto possibile) nel quale Tuor narra quindici giorni di caccia allo stambecco sui monti del Surselva, la valle svizzera nella quale è nato e vive, e in particolare nelle impervie vallate laterali che salgono verso il massiccio del Tödi, una delle montagne più elevate di questa porzione di Alpi. Lunghe camminate, appostamenti, inseguimenti, vagabondaggi, pasti frugali, bivacchi in quota, meditazioni, contemplazioni solitarie o in compagnia di altri cacciatori e del fido fucile, con lo sguardo sovente immerso nel binocolo per cercare le prede più adatte e più consone a quanto stabilisce la legge venatoria del Cantone Grigioni e con una notevole vena poetica nella scrittura, frammista a una costante ironia e ad un certo disincanto nella considerazione di come un’attività tanto antropologicamente “viscerale” – anche oggi, nonostante la modernità degli strumenti a disposizione – si scontri di frequente con una burocrazia e con conformismi istituzionali che a volte paiono ideati da gente che le montagne non le ha mai viste, nemmeno a distanza e nemmanco attraverso un binocolo.

Due sono i veri protagonisti di Caccia allo stambecco con Wittgenstein, ovvero i più diretti “interlocutori” del narratore Tuor: il primo è ovviamente lo stambecco, sorta di alter ego cornuto degli uomini che si avventurano sui bricchi alla sua caccia, animale regale tanto quanto strafottente, flemmatico eppure furbo. A volte il tremendo capricorno sembra divertirsi nei binocoli dei cacciatori, pare prendersi gioco di loro e della loro esperienza assumendo addirittura fattezze e condotte diaboliche e, con tutto ciò, ponendoli come di fronte ad uno specchio nel quale essi possano constatarsi in tutta la loro inesorabile condizione di sottomissione alla Natura montana e alle sue regole così “democratiche”, come dicevo poco fa: uomini ben allenati, ben armati, dotati di esperienza e di conoscenza del territorio ma, appunto, a volte pare che la loro preda ne conosca una più del diavolo e trovi il modo di sfuggire ai loro cannocchiali di precisione, in una battaglia a basso profilo e ad armi inopinatamente (quasi) pari. Di contro, non si può dimenticare che lo stambecco è un prestigioso simbolo istituzionale – fa bella mostra di sé nello stemma cantonale dei Grigioni e in ogni cosa affine – e sull’effigie relativa (nonché sulle peculiarità marcatamente sessuali che di frequente dimostra) l’autore disquisisce in alcune pagine assolutamente divertenti.

L’altra protagonista è la montagna o, meglio, il paesaggio montano della Val Russein, zona in cui si svolge la caccia di Tuor. Un paesaggio assolutamente presente, vivo e reattivo agli stimoli di chi vi ci si avventura – nonostante l’aspetto desolato tipico delle alte quote, un paesaggio in grado di generare un’influenza psicogeografica veramente possente che penetra a fondo, fin dal primo istante di permanenza in esso, nell’animo e nello spirito e, dopo un po’ di tempo – ma non troppo, in verità -, facendo esso degli uomini che vi vagano una sorta di propaggini viventi del territorio, delle sue rocce e dei suoi ghiacciai, delle sue durezze e delle sue selvatichezze.
Ma non c’è, qui, un rapporto con il monte solamente superficiale. A pag.60 Tour scrive: «Anche se non trovassi animali, quanto meno imparerei la geografia per un’altra volta.» Ecco, nel vagabondare montano di Tuor e dei suoi amici cacciatori, con la buona scusa dell’inseguimento delle tracce degli stambecchi, c’è un continuo riaffermare il legame profondo che lega gli uomini al loro territorio, all’ambiente nel quale vivono e col quale interagiscono, ai luoghi di cui essi, con la loro presenza, determinano il valore e, appunto, al paesaggio che nella loro mente si determina. Anche per tale motivo la caccia narrata da Tuor assume connotati assolutamente antropologici: se pur lo stambecco si prende frequente gioco della loro esperienza e delle strategie inventate per cercare di farne una preda sicura, l’errare dei cacciatori tra vette e ghiacciai disegna e rinnova ogni volta la mappa geomentale dai cui si genera il legame identitario culturale con il territorio vissuto, abitato, modificato, sfruttato ma sempre geograficamente riverito – come se in quei valloni montani vi fosse il compendio di tutto ciò che di importante c’è al mondo, ovvero di tutto quello che serve agli uomini per costruire una buona e comprensibile nozione di “mondo” e dunque un relativo modus vivendi funzionale, efficace e consapevole. Da mettere in atto a carte scoperte e ben piazzate su un tavolo, sul cui piano poterle considerare al meglio – quello “stesso piano” sul quale la montagna mette tutti quanti, senza nessuno che stia più sopra o più sotto, che sia più bravo o meno.

Caccia allo stambecco con Wittgenstein è un libro notevolissimo, potente, suggestivo. Come una lunga battuta venatoria che dal fondovalle salga oltre i 3.000 metri, appunto: per cacciare fauna alpina ovvero, anche di più, per cacciare e catturare più umanità possibile per sé stessi e la propria quotidianità.

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