L’America attuale (e le Alpi)

L’America attuale a me fa pensare a uno di quegli enormi pick-up con grandi ruote tassellate, rollbar cromati, corna sul cofano e tutto il resto – quelli che, appunto, piacciono tanto agli americani – con al volante i membri di una gang di teppisti zotici, rissosi, arroganti e allucinati, alcolizzati e cocainomani, che trasportano nel cassone i loro compari russi, ungheresi, turchi, israeliani, italiani, argentini e ed altri, tutti similmente bifolchi e sbraitanti (una scena alla “Mad Max”, insomma), guidando il pick-up lungo una stretta via cittadina nella quale urtano e incidentano tutte le auto che vi si trovano, i cui guidatori che protestano per tale comportamento troglodita ricevono in cambio gestacci, insulti e minacce, se non peggio.

Ma è inevitabile che un mezzo del genere, guidato in modi tanto beceri e teppistici, finirà prima o poi per schiantarsi contro un muro esplodendo, con conseguenze imprevedibili.

Intanto i dazi americani già ora stanno generando conseguenze nel settore del turismo, dunque anche in quello montano che concerne le Alpi. Riguardo le quali sembra che gli americani in particolare amino le Dolomiti e le località sciistiche svizzere, ma li si trova di frequente anche nei più grandi e rinomati comprensori italiani.

Di quale genere saranno le conseguenze lo vedremo: forse negative, se diminuiranno le presenze USA come di contro stanno già fortemente riducendosi i flussi turistici verso gli Stati Uniti, forse positive se, per lo stesso motivo appena citato, le altre presenze straniere, in primis asiatiche, che visitano le montagne sceglieranno le mete turistiche sulle Alpi invece di quelle americane.

Di certo, credo che la cosa migliore da fare al momento sia starsene il più lontano possibile da quel pick-up con la fiancata a stelle e strisce che se ne va in giro con a bordo quella messe di mascalzoni. Tanto va a sbattere prima o poi, garantito.

2025.03.03

[Foto di Evgeni Tcherkasski su Unsplash.]
Cielo terso, stasera, d’un indaco vibrante.
Stelle luccicanti, l’Orsa Maggiore dominante come non mai.
Temperatura piacevolmente fresca.
Silenzio.

Quiete assoluta.

Pace.

Già, “pace”.

Questi placidissimi momenti serali di contemplazione della Natura mi sembrano ancora più preziosi e necessari, di questi tempi.

Se penso alla realtà del nostro mondo, sempre più in preda al volere e al potere di figure ambigue, bieche, subdole, l’unica pace a cui penso e che mi pare possibile è solo questa, offerta dalla Natura.

La Natura che «resta sempre» quando non ci resta altro di buono, come scriveva Whitman, nella quale cercare sollievo dalle tante cose che nel mondo non vanno per il verso giusto, soprattutto non vanno verso quella “pace” che tanti invocano ma, forse, nella quale pochi credono.

O nessuno, seriamente.

D’altro canto, a leggere la storia, ci si rende conto che questo nostro mondo, gli stati cui facciamo parte, le nostre società e, per diversi aspetti, i meccanismi che le regolano, sono nati e si sono evoluti nei secoli in gran parte grazie alle guerre. E come possiamo pensare veramente di costruire la “pace” se siamo stati forgiati dalle guerre e dai loro effetti?

Siamo come il bambino che in tenera età già parla con un linguaggio scurrile perché lo usano a casa i suoi genitori: sarà ben difficile fargli capire che non deve parlare in tal modo se il suo modello è quello, dunque se è ciò che in base al proprio giudizio “naturale” ritiene corretto.

Ma è una “natura” distorta, la sua.

Come spesso è distorta la natura che la nostra civiltà manifesta, la cosiddetta natura umana.

Un ossimoro, a pensarci bene.

Forse è proprio questo il motivo per il quale la percepiamo e apprezziamo così facilmente nel mondo naturale, la pace.

Perché non l’abbiamo dentro di noi e dunque la agogniamo lì, senza sapere come raggiungerla. O senza averne la capacità, noi figli “naturali” e ostaggi congeniti della nostra stessa bellicosa storia.

Pace (s.f.). Nel diritto internazionale, si definisce così un periodo di inganni reciproci compreso fra due fasi di combattimento aperto.

[Ambrose Bierce, Dizionario del Diavolo, 1a ed. 1911.]

 

Silvia Calamati, “Qui Belfast. Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord”

Sono sempre stato “affascinato” – no, aspettate un attimo, il termine è sbagliato se non preciso che deve essere interpretato nell’accezione più buia possibile: sarebbe meglio dire (ma comunque con qualche riserva) sgomentato – dai Troubles, il conflitto che tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso coinvolse l’Irlanda del Nord e le sue due comunità, quella protestante unionista leale a Londra – per ciò detta anche lealista – e quella cattolica repubblicana (maledette religioni, ovunque motivo di guerre e atrocità!), invocante la riunificazione con Dublino. Un conflitto settario a bassa intensità, non una vera e propria guerra nel senso classico del termine eppure costellato di eventi sconvolgenti, a volte veramente terrificanti come nelle guerre più atroci, il tutto in una delle terre europee più ricche di storia, di identità, di cultura, di tradizioni grandi e nobili oltre che di bellezza paesaggistica. Proprio questa è l’evidenza che mi ha più cupamente “affascinato” e sgomentato del conflitto nordirlandese, combattuto in pratica tra “cugini” (se non tra fratelli), persone che fino a fino a un certo giorno prima degli scontri vivevano fianco a fianco e qualche giorno dopo si sparavano addosso e si facevano saltare in aria.

Silvia Calamati si occupa del conflitto nordirlandese dal 1982 per la RAI e per diverse altre testate italiane e estere, è dunque tra le massime conoscitrici della storia degli scontri tra lealisti e unionisti, non solo dal punto di vista della mera cronaca dei fatti ma pure dei contesti geopolitici, sociali, culturali, umani. In Qui Belfast. Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord (Red Star Press, 1a edizione 2013) raccoglie una cospicua serie di articoli giornalistici a sua firma oltre che di altri corrispondenti locali usciti sui media europei tra il 1984 e il 2012 a cui fa raccontare il conflitto come attraverso un reiterato rewind dei fatti, dei momenti in cui sono accaduti, delle reazioni, delle testimonianze e dunque dei testimoni, dei protagonisti di quelle vicende nel bene e nel male []

(Potete leggere la recensione completa di Qui Belfast cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Migrazioni e politica, chiacchiere e meschinità

[Immagine tratta dal profilo Twitter dell’Agenzia Ansa.]
Da qualsiasi parte la si osservi e analizzi, la gestione europea della questione migratoria resta profondamente vergognosa e indegna di quella parte di mondo che si ritiene la più avanzata e civile del pianeta.

Gli ultimi drammatici episodi, dei quali il naufragio di Cutro è tra i più tragici ma niente affatto isolato (e di certo la tragicità di questi fatti non può essere determinata dal mero numero di morti, come se il problema sussistesse solo se accadono naufragi da un tot di decessi in su), hanno semplicemente rimesso in evidenza una volta di più la gravità della situazione in corso ormai da decenni. Ciò almeno fino a che i media avranno voglia di occuparsene, ovvero fino a che la politica fingerà di dibatterci sopra fornendo alla stampa le solite parole tanto belle e nobili quanto ipocrite e vuote di sostanza (se non slogan beceri e vergognosamente strumentalizzanti), nel frattempo facendo spallucce e semmai dando le colpe a quello che le schiverà e scaricherà a quell’altro e così via, funzionalmente a far che alla fine le responsabilità non siano di nessuno e tutto vada avanti come sempre – quello che tanti sperano in fondo. D’altro canto, a breve, qualche nuova questione più o meno emergenziale (delle quali l’Italia abbonda, lo sappiamo bene) devierà nuovamente lo sguardo della stampa e l’attenzione del pubblico e ogni cosa sarà dimenticata, con gran soddisfazione della politica.

Personalmente – da quel signor nessuno che sono, inutile dirlo – è da anni (si veda qui) che vado sostenendo che la questione dell’immigrazione non può e non potrà essere risolta e tanto meno gestita al meglio, a livello politico, finché non verrà compresa sul suo piano fondamentale che è quello antropologico, il quale ne sottintende altri – quello storico, quello geografico, sociologico, ambientale eccetera – ma che, appunto, appare come l’ineluttabile contesto entro il quale bisogna analizzare e comprendere la questione sì da trarne qualsiasi metodologia operativa sul campo, la più restrittiva come la più accogliente nel rispetto delle normative internazionali vigenti. Non li si vuole far arrivare sul suolo europeo? Bene, si faccia qualcosa in tal senso. Li si vuole accogliere e integrare? Bene, si faccia qualcos’altro in tal senso. Insomma: la questione non è più tanto attuare questa o quell’altra cosa ma fare qualcosa. Invece qui non si fa nulla, da decenni girando le spalle alla messe di morti di donne, uomini e bambini (26mila morti in dieci anni solo nel Mediterraneo) la cui unica colpa è stata quella di sperare in un futuro migliore, e che se ciò sia lecito o meno non è per nulla “motivo” per lasciarli morire come avviene, calpestando criminalmente qualsiasi loro dignità.

Ovvio che per fare quanto sopra occorre la combinazione di due cose parimenti fondamentali: competenza rispetto al fenomeno e volontà di gestirlo (ve ne sarebbe una terza che tuttavia non sarebbe nemmeno da citare: l’umanità). Invece, il mix strumentale di razzismo e xenofobia resta la forma mentis fondante del (non) agire politico, così come la pericolosità del mare (o del clima, su altre rotte continentali) resta il principale “metodo di gestione” dei flussi migratori: in pratica, più ne crepano e meno se ne hanno da gestire nei vari centri di accoglienza e da regolarizzare. Amen. Tutto il resto – la bieca “differenza” tra rifugiati politici e migranti economici, i corridoi umanitari sempre annunciati e mai realizzati, l’aiutarli a casa loro mai messo in atto, la persecuzione delle ONG che con i loro salvataggi evidenziano il menefreghismo delle istituzioni, eccetera – sono solo chiacchiere e meschinità.

Il Sapiens in crisi

Lo si sa bene ormai che l’Homo Sapiens, autoproclamatosi tale in forza di non si sa bene quale pretesa superiorità e verso chi, ci metta invece un grande impegno a rendere del tutto ingiustificata e ingiustificabile quella altisonante definizione.

Prendete il momento storico attuale, ad esempio: è in corso una crisi climatica che va aggravandosi anno dopo anno e i cui effetti si fanno materialmente sempre più pesanti a livello globale e, nello specifico, sul continente europeo; una crisi riguardo la quale è sempre più indispensabile e urgente agire ma il Sapiens che fa, invece? Pensa bene di scatenare proprio in Europa una guerra che non solo provoca morti e distruzione ma genera un’emergenza energetica mai vista prima. Così, nell’estate più calda e siccitosa di sempre, per cercare di mitigare gli effetti di questa emergenza il Sapiens decide di attingere a fonti (il carbone, ad esempio) che non solo non la risolvono ma peggiorano inesorabilmente l’altra crisi, quella climatica. Ciò anche per non aver dato seguito, se non in minimissima parte, alle sue annose e pompose dichiarazioni sulla necessità di convertire il sistema alle energie alternative e rinnovabili – perché il Sapiens possiede pure una notevole capacità di proclamare intenzioni e volontà che poi quasi mai metterà in atto, a meno che non siano particolarmente deleterie (come quelle belliche, appunto).

Non solo: in alcune regioni del continente europeo abita un Sapiens che, se possibile, mette ancor più fervore nel perseguire l’impegno sopra evidenziato. In Italia, ad esempio, dove nell’estate appena trascorsa la carenza di risorse idriche si è fatta particolarmente grave ma il Sapiens locale, che nel frattempo ha preteso di organizzare i prossimi Giochi Olimpici invernali, finanzia a spron battuto innumerevoli impianti per la produzione di neve artificiale, per i quali serve una quantità immane di acqua che viene tolta alle scorte naturali – e non solo a quelle stagionali – destinate ai suoi simili.

Nel frattempo la crisi energetica si aggrava sempre più e dunque il Sapiens si organizza per razionare usi e consumi dell’energia, con tagli alle forniture e diminuzione delle temperature dei riscaldamenti domestici, dichiarando al riguardo di «sperare l’inverno non sia tanto freddo» (dichiarazione udita dallo scrivente alla radio qualche giorno fa da parte di un Sapiens politico – e non l’unica di questo genere intercettata, peraltro). Sperare che d’inverno non faccia freddo, già. Ma se non dovesse fare freddo sarebbe l’ennesimo segnale di un ulteriore peggioramento della crisi climatica, il che significherebbe che, a fronte del risparmio di una minima parte di risorse energetiche e di un po’ di soldi al riguardo, si manifesterebbe un probabile ulteriore aggravamento delle conseguenze del riscaldamento globale, sicuramente di portata ben più ampia e peggiore di quelle derivanti dall’emergenza energetica e che peraltro finirebbe per aggravare pure questa – come d’altro canto la storia recente ormai insegna. In parole povere il Sapiens, per tentare di salvarsi da un problema di una certa gravità, auspica a se stesso di subire un problema ancora più grave e pressoché irrisolvibile. Si sta scavando la fossa sotto i propri piedi ma, per non rovinare la pala, usa le sue stesse mani.

Ecco. Questa è la situazione del Sapiens contemporaneo, già.

P.S.: per giunta, se d’inverno non facesse freddo come certi Sapiens auspicano, la neve artificiale prodotta sottraendo risorse idriche ai territori pur in presenza di una grave siccità finirebbe per sciogliersi rapidamente, sprecando l’acqua, l’energia impiegata e ovviamente i soldi pubblici investiti al riguardo dai quegli stessi Sapiens. Autoproclamati tali, è bene rimarcarlo.