Incontri ravvicinati di molti tipi, nel bosco

C’è ormai una bella animazione dalle mie parti, in queste sere che profumano sempre più intensamente di primavera nelle quali io e il segretario personale (a forma di cane) Loki usciamo per la consueta sgambata attraverso i boschi e i prati adiacenti il nostro centro abitato. Con l’inverno che si decompone in un mero ricordo viepiù vago a ogni secondo di luce che sfrangia la notte e a ciascun decimo di grado Celsius guadagnato dalla temperatura da un giorno all’altro, di vita in giro ne troviamo parecchia… Sì, ma non umana: tassi in quantità, alcuni (giovani?) piuttosto confidenti, parecchie volpi sempre curiose fino a che non ritengano di esagerare, altrettanti scoiattoli, qualche riccio acquattato tra i cespugli (se non vi siano i tassi nelle vicinanze, i quali non disdegnano di inserirlo tra le portate del proprio menù), la ben più sfuggente faina e idem il ghiro, un capriolo che giusto ieri sera abbiamo sorpreso mentre curiosava in un parco giochi per bambini che confina col bosco, oltre ai vari rapaci notturni e alla presenza recondita eppure tangibile dei cinghiali, nel caso evidenziata al solito dai segni sui prati delle loro grufolate.

Basta che il fascio luminoso della pila frontale che mi porto appreso punti verso il buio del bosco per cogliere regolarmente diverse paia di punti luminosi, piccoli fanali che si mantengono a lungo fissi sulle nostre figure in movimento. A volte invece nel nero silvestre non scorgo nulla ma è Loki che di colpo si ferma e punta il naso verso il bosco, apparentemente (per me) osservando il vuoto: vi dirigo la luce della frontale, attendo qualche attimo ed ecco accendersi pure lì un altro paio di fanali luminosi. A volte sono occhi di gatti, quelli che per fortuna si mostrano ancora almeno un po’ selvatici e rifiutano di abbandonarsi definitivamente agli agi domestici e alle scatolette di cibo, ma con pari frequenza chi ci osserva è qualche rappresentante del regno animale silvestre, senza contare poi le presenze più furtive che preferiscono evitare pure il contatto visivo con noi restando celati nell’oscuro del bosco. E parimenti senza contare chi non si fa vedere ma si fa sentire: in effetti c’è anche un gran ciarlare selvatico che viene dal bosco in queste sere, versi di innumerevoli tipi, molti dei quali non riconosco, che in certi casi sembrano veramente rispondersi e ribattersi dibattendo animatamente, protestando, litigando o forse, chissà, veramente festeggiando in compagnia l’arrivo ormai deciso della primavera.

[Una coppia di tassi (Meles meles) come quella, molto confidente, che io e Loki ci siano ritrovati di fronte qualche sera fa, vicino casa.]
Ogni sera, ogni uscita, è un’avventura diversa con qualche sorpresa. Il buio profondo del bosco non intimorisce ma intriga: regala la percezione nitida del mistero naturale e della vita che pulsa incessante, anche quando di contro la civiltà umana si mette in pausa e in gran parte s’acquieta fino al mattino successivo. Vagabondare sul margine tra il mondo degli uomini e quello dei selvatici è qualcosa di semplice tanto quanto affascinante, e può aiutare a comprendere che le nostre pretese di dominazione assoluta del mondo possono rapidamente svaporare in presenza del più minimo elemento di incertezza, ancor più se fino a poco prima lo concepivamo come parte “normale” di esso. Come il buio notturno, e come la presa d’atto che in quelle ore indubbiamente il bosco è reame d’altri il quale può essere anche nostro solo se ci rimettiamo sullo stesso piano di chi lo abita come e più di noi. Non è quel poco di tecnologia che abbiamo sviluppato nell’arco di qualche millennio a renderci superiori a loro: dominanti sì, ma questa circostanza non ci garantisce alcuna superiorità, anzi, ci riserva maggiore responsabilità. In fondo la notte è il giorno senza la luce, il giorno è la notte illuminata e noi siamo animali tali e quali agli altri senza gli occhi luminosi come quelli che ci osservano, nascosti nel buio del bosco.

La meta

Cielo grigio e un po’ cupo, nuvolaglia che si incastra tra le cime dei monti d’intorno, qualche tuono non lontano ma nemmeno così minaccioso. Condizioni più che buone, io e il segretario personale (a forma di cane) Loki partiamo proprio quando cadono le prime gocce di pioggia. Siamo i soli a salire verso l’alto, tutti tornano a valle, qualcuno ci (mi) guarda strano, come a chiedermi con gli occhi dove diavolo me ne stia andando con il tempo che c’è; gli sorrido. Altri sono bardati di mantelle parapioggia nemmeno tornassero dalla Malesia nel periodo dei monsoni, mentre la pioggia è sì aumentata ma non tanto intensamente: mi basta indossare il cappello impermeabile, non serve altro.

Cosi io e Loki saliamo lungo il sentiero che s’innalza nella vallata ormai priva di altre presenze umane, accompagnati dal solo rumore dell’acqua che scroscia nel torrente oppure, nei tratti in cui questo s’inforra rumoreggiando più sommessamente e la traccia vi si allontana a monte, dal ticchettio da vecchia macchina da scrivere della pioggia che scrive il proprio diario pomeridiano sulle foglie degli alberi. Non abbiamo una meta alla quale giungere e oggi non lo è nemmeno il “viaggio”, classicamente inteso per come vi si riferisca il noto modo di dire; semmai, una “meta” per questa giornata è il vagare nella Natura per godere di momenti che alcuni ritengono non così ideali e invece, nelle giuste condizioni ambientali e emotive, io penso lo siano anche più di tanti altri. Peraltro, pensarci gli unici presenti in questa micro porzione di mondo regala sempre una sensazione particolare, quantunque basta gettare lo sguardo oltre il crinale boscoso a valle per cogliere la pianura antropizzata e immaginarne la gran frenesia. Non siamo chissà dove e qui non c’è nessuno solo per un fortunato caso meteorologico; fosse stata una bella giornata ci sarebbe una coda assai variegata di gitanti. Però, nel qui-e-ora attuale, è divertente formulare la percezione di vivere una personale e temporanea Dissipatio H.G. morselliana: lo è probabilmente perché so benissimo che sia una mera fantasia tanto quanto che nonostante ciò la finzione sembri molto reale.

Mentre Loki esegue le sue consuete e approfondite analisi della qualità dell’acqua del torrente ad ogni guado che affrontiamo (si veda qui sopra), la pioggia scema pressoché del tutto e già qualche frazione di cielo si sfilaccia abbastanza da lasciar passare scintillanti lame di Sole. Abbiamo avuto ragione noi e torto quelli che sono scappati a casa, riguardo la meteo, o forse c’è solo andata bene e nessun temporale ci ha scagliato addosso le proprie folgori. Siamo in mezzo al bosco, il torrente qui percorre un tratto tranquillo e dunque anche la fluida colonna sonora si stempera, facendo intuire il silenzio pressoché totale che altrimenti regnerebbe, in questo tratto appartato della vallata, se l’acqua non ci fosse. D’un tratto, Loki si impettisce, comincia a fiutare nervosamente l’aria e punta lo sguardo verso certi bricchi che si intravedono tra il fogliame sopra di noi; il segretario mi fa così notare qualcosa che solo ora il mio udito coglie e identifica ma che già prima era percepibile, solo non ci stavo facendo caso: un fischio, che proviene esattamente dal punto sovrastante verso il quale Loki guarda. Eccolo, è un camoscio, a una ventina di metri da noi, che corre verso l’alto e rapidamente sparisce alla nostra vista. Evidentemente un maschio, e pure di taglia piuttosto grossa. Loki vorrebbe dimostrargli che anche lui ci sa fare con la corsa in montagna (così è convinto, a quanto pare) ma riesco a farlo desistere tenendogli saldamente la pettorina – con gran sforzo, per quanto tira, e rischiando un bagno magari gradevole ma non espressamente desiderato nelle acque del torrente. Acquietatosi lui e io pure, restiamo immobili per qualche secondo ancora ascoltando lo scalpiccio del camoscio sulle rocce fino a che il rumore dell’acqua non torna a sovrastarlo e a farlo svanire nel labirinto di rocce e anfratti silvestri. Guardo l’ora: se continuassimo a salire verrebbe tardi, non saremmo di ritorno per cena. Dunque decidiamo che questa è la meta di oggi, invertiamo la rotta e cominciamo la discesa verso valle.

Niente di che tutto questo, sia chiaro, e una “meta” a sua volta apparentemente banale, posto che la visione di camosci da queste parti è piuttosto comune. Quale “meta” poi? Non siamo arrivati da nessuna parte formalmente, rifugio o vetta o luogo oppure punto geografico importante… niente di tutto ciò. Eppure, non è detto che la meta debba sempre essere un punto spaziale; potrebbe anche essere uno “spazio di tempo”, una specie di cronotopo ovvero un certo momento, anche casuale e imprevedibile, il quale tuttavia nel suo manifestarsi è capace di dare un senso multidimensionale al cammino compiuto, alla fatica sopportata, allo starsene in quel luogo apparentemente anonimo ma che così assume un proprio significato, genera un ricordo, diventa esperienza, magari nozione, un elemento immateriale nell’elaborazione personale del paesaggio materiale vissuto in quel dato momento. Il qui-e-ora come meta, appunto, qualsiasi esso sia ma comunque essendo un accadimento unico e irripetibile proprio perché manifestazione significativa di un particolare istante, di chi lo vive e come lo vive in quel preciso istante.

«I viaggi sono i viaggiatori», scrisse giustamente Pessoa; a me piace anche pensare che i viaggiatori sono il viaggio, ovvero che la meta principale di qualsiasi “viaggio” – il quale, sia chiaro, è tale sia se percorra migliaia di km oppure solo qualche centinaia di metri vicino casa; per quanto mi riguarda, ogni escursione sui monti è assolutamente un viaggio, nel senso pieno del termine – è dentro di noi, deve essere dentro di noi affinché possa trovarsi anche fuori, possa essercene una da raggiungere anche materialmente. Quel piccolo, apparentemente banale momento vissuto con il segretario Loki nel bosco è stata la meta “reale” di una meta mentale e spirituale che ho percepito vividamente e la quale ho avuto certezza di aver raggiunto proprio quando ho vissuto la prima, cioè nel momento in cui le due si sono riallineate e riunite. Non una “meta” nel senso ordinario del termine e per come molti la potrebbero intendere ma anche per questo speciale, a suo modo unica. Qualcosa che ha dato senso, significato e valore a una normalissima camminata sulle montagne vicino casa in un modo che nessun altra “meta” ordinariamente intesa forse avrebbe potuto fare.

Certa politica di montagna, spiegata bene e rapidamente

Effettivamente, a volte, per capire lo stato dell’arte della politica nei territori di montagna non servono chissà quali ponderatissime analisi o elucubrazioni super articolate.

Basta molto meno, spesso.

Ad esempio, basta notare la grandezza dei caratteri dei titoli sulle locandine degli organi di stampa. Che non a caso risulta sempre direttamente proporzionale all’entità del vociare dei rappresentanti della suddetta politica. Già.

D’altro canto, una società che ancora oggi si fa inquietare (forzatamente) più dalla presenza di qualche animale selvatico (al netto dell’ovvio e necessario supporto agli allevatori negli alpeggi, al riguardo) che dalla mancanza nei propri paesi dei fondamentali servizi di base, è quanto di più funzionale a quei titoloni. E di meno necessario alle proprie montagne, ma evidentemente questo conta meno.

Chissà se i genitori dei bambini disabili della Valtellina prima o poi si vedranno costretti ad andare a vivere altrove per la mancanza in valle dei servizi di assistenza e supporto a loro necessari oppure per la presenza sui monti dei lupi. Chissà.

Animali giuridici

[Foto di Cristofer Maximilian da Unsplash.]
Come riporta “Il Post”, l’anno prossimo, forse già a gennaio, la Corte di Appello dello stato di New York dovrà stabilire se Happy, un’elefantessa asiatica di circa 50 anni che vive da sola in un’area recintata di 4mila metri quadrati nello zoo del Bronx, a New York, sia una persona giuridica, cioè un individuo con diritti morali e legali di fronte alla legge americana, con potenziali grosse conseguenze per molti altri animali in cattività.

Se da un lato fa piacere leggere che il sistema giuridico di un paese avanzato come gli USA si occupi finalmente di questo tema, dall’altro risulta parecchio sconcertante che la parte più evoluta e “civile” del genere umano – ben rappresentata dagli Stati Uniti, appunto – solo ora si renda conto (forse) di quanto sia ineludibile il tema in questione. Un tema fondamentale non solo e non tanto per le ricadute giuridiche che può avere ma, io credo, per la nostra stessa presenza sul pianeta tra le altre specie viventi in qualità di razza “dominante”, certamente in senso tecnologico ma ben più discutibilmente dal punto di vista ecologico.

In verità, alle persone dotate di autentica sensibilità intellettuale e morale il quesito posto all’attenzione della Corte newyorchese appare quanto mai retorico e privo di senso biologico: certo che gli animali hanno una “personalità giuridica”, tutti quanti e in special modo quelli con i quali l’uomo – razza che ha il diritto/dovere di stabilire quanto sopra – interagisce! Ce l’hanno naturalmente, ancor più di quanto l’uomo ce l’abbia pure giuridicamente, e il fatto che tale “ovvietà” non sia ancora stata considerata per come dovrebbe dal genere umano è una delle sue più grandi colpe, anche per come essa abbia causato e cagioni continuamente danni tremendi alle altre creature viventi e agli ecosistemi del pianeta. Ma non è, questo mio, un discorso meramente ambientalista o animalista: è una questione filosofica e etica nonché politica, ancor prima che giuridica. Non c’è nulla da stabilire in un senso o nell’altro in forza di un provvedimento legale: c’è da prendere atto con adeguata consapevolezza di un dato di fatto biologico.

A tale proposito mi pare che non abbia granché senso l’obiezione – citata nell’articolo de “Il Post” e che immagino sarà posta da molti – del giurista statunitense Richard Cupp, oppositore dello status di persona giuridica per gli animali, il quale ha detto: «Un caso che potrebbe portare miliardi di altri animali in tribunale sarebbe un disastro. Una volta che ammetti che un cavallo, un cane o un gatto possono sporgere denuncia per aver subito degli abusi, si arriva in un attimo alla considerazione che una persona giuridica non può essere mangiata». Mi sembra che tale affermazione crei solo confusione tra due questioni ben differenti anche se di apparente simile sostanza, l’una relativa alla relazione etico-ecologica tra umani e animali e l’altra all’aspetto ecosistemico: una confusione che sottende una reiterata visione antropocentrica del tema e non considera la necessità inderogabile, in una rete ambiente complessa, di un equilibrio armonico tra specie viventi, in primis negli aspetti etici, appunto. Un equilibrio biologico pragmatico, in parole povere, che può ammettere che l’uomo – razza onnivora per natura, non per altri motivi – si cibi di certe specie animali ma non può ammettere affatto che qualsiasi specie animale venga maltrattata (qualsiasi cosa ciò possa significare) dall’uomo solo perché razza dominante.

Se a tal fine occorre che una legge di uno stato stabilisca la personalità giuridica degli animali, ben venga. Tuttavia, ribadisco, le persone che sanno vivere in consapevole armonia con il mondo che hanno intorno già la riconoscono e la rispettano verso qualsiasi altra specie vivente, questa dote. Ed è alquanto importante che l’intero genere umano raggiunga questa consapevolezza ecologica: non ne va solo della vita animale ma, forse soprattutto, ne va della vita umana, di tutti noi.