Il cielo stellato, l’amico più fidato

Quando abbiamo imparato a conoscerlo, il cielo stellato è l’amico più fidato che abbiamo nella nostra vita; è sempre lì, ci trasmette un senso di pace, ci ricorda sempre che la nostra irrequietezza, i nostri dubbi, i nostri dolori, sono cose di poco conto, passeggere. L’universo non verrà mai meno. Quando tiriamo le somme, scopriamo che le nostre opinioni, le nostre battaglie, le nostre passioni non sono poi così importanti e straordinarie.

[Fridtjof Nansen, citato in Erling Kagge, Il silenzio, Giulio Einaudi Editore, 2017; trovate la mia recensione al libro qui. Del cielo stellato io ho scritto varie volte, ad esempio qui.]

 

Un saluto a Orione, prima di dormire

[Il cielo di nord est come più o meno lo vedo da casa, in questo periodo.]
In queste sere di meteo ciclonico e di cieli finalmente limpidi – per me che abito in montagna – dopo le continue piogge di ottobre, l’uscita serale in giardino per l’ultima pipì del segretario personale (a forma di cane) Loki diventa anche una sorta di piccolo rito di saluto alla volta stellata e, in modo particolare, alla costellazione per eccellenza dell’inverno: Orione, il gigante che combatte contro il Toro, «la più potente delle costellazioni» secondo l’astrologo romano Marco Manilio.

All’ora in cui esco la vedo sorgere a nordest, maestosa, grandissima, brillantissima, con la spada appesa alla cintura (forse l’allineamento stellare, questo, più famoso e celebrato del cielo) che pare conficcata nel crinale montuoso che da quella parte chiude il mio orizzonte visivo e mi genera la fantasia che il ciclopico gigante stellare si sforzi, aumentando ancor più la sua luminosità (in verità perché rimanendo fuori al buio l’occhio acuisce la sensibilità visiva), di estrarre la lama per continuare la propria ascesa nel cielo, mentre con il suo scudo cerchi di ripararsi dalla luminosità del pianeta Giove, che in questi giorni brilla sopra di lui, e dall’altra parte dall’ammasso delle Pleiadi, uno dei più spettacolari del cielo.

[La regione celeste attorno a Orione nella Uranographia di Johann Elert Bode, del 1801.]
È un rito domestico banale – e funzionale ai bisogni di Loki, certamente – ma altamente suggestivo, che mi ricorda quanto sia non solo bello ma per molti versi necessario, per noi piccoli terrestri mortali, perdere lo sguardo e incantarsi il più spesso possibile nell’osservazione del cielo stellato e della sua infinità, così meravigliosa e inconcepibile da non poter essere nemmeno lontanamente compresa e per questo visione insuperabile di una vastità che si riverbera nella nostra mente e nell’animo aprendoli come non mai, facendoci per un attimo dimenticare di essere creature confinate quaggiù, su un piccolo pianeta tra miliardi di altri persi nel cosmo, e sognare di viaggiare in quell’infinito stellare apparentemente vuoto ma in realtà talmente pieno di bellezza da sembrare assolutamente denso di tutto.

[Immagine tratta da accademiadellestelle.org.]
Peccato che tante persone non coltivino più l’abitudine di osservare il cielo stellato e la sua bellezza, ancor più perché spesso impedite nel farlo dall’inquinamento luminoso delle nostre città (leggete “Cieli neri” della bravissima Irene Borgna, al riguardo) e da quello dell’aria che vela il cielo e offusca, quando non spegne, la luce di gran parte delle stelle (al riguardo date un occhio alla “Scala del cielo buio di Bortle”). Sono convinto da sempre che se si praticasse diffusamente l’osservazione del cielo, tutti quanti “praticheremmo” molto meglio anche la nostra vita quotidiana quaggiù sulla Terra. Il che potrebbe sembrare un paradosso, ma solo a chi, appunto, non sia più in grado di rendersi conto quanto sia bello perdersi tra le stelle. Anche in questo caso, d’altronde, è un perdersi necessario per poi ritrovarsi, e il cielo stellato permette di farlo senza nemmeno muoversi da casa – inquinamenti permettendo, ribadisco.

[Il cielo stellato sopra le Alpi del Salzkammergut, vicino Salisburgo in Austria. Foto di Felix Wegerer su Unsplash.]
Per cui, se potete, provateci: qualche minuto in meno sullo schermo dello smartphone, prima di dormire, per qualche minuto in più in giardino o sul terrazzo di casa col naso all’insù. Sembra una stupidaggine, una banalità, ma sono certo che vi sentirete molto meglio, e più sensibili alla bellezza che ci circonda – quella veramente che può salvare il mondo come nessun altra cosa – e che spesso non sappiamo più cogliere.

Il paesaggio e la felicità

[Foto di Annie Spratt su Unsplash.]

Ho visto un bambino di due anni, che non aveva mai lasciato Londra, in occasione della sua prima passeggiata in campagna. Era inverno e tutto intorno non vi era che fango e umidità. Per l’occhio dell’adulto non vi era nulla di piacevole, ma il bambino fu colto da una strana estasi; si inginocchiò sulla terra umida e nascose il viso nell’erba, emettendo inarticolate grida di delizia. Quella gioia che egli stava provando era primitiva, semplice e profonda. Il bisogno organico che in quel momento veniva soddisfatto è così profondo che coloro nei quali è spento sono di rado completamente sani.

[Bertrand RussellLa conquista della felicità, traduzione di Giuliana Pozzo Galeazzi, Longanesi & C., Milano, 1969, cap. IV; 1969, pag. 63; ultima ediz. it. TEA, 2003. Orig. The Conquest of Happiness, 1930.]

La gioia di quel bambino per la scoperta di una Natura a lui ancora sconosciuta e per ciò così meravigliosa, descritta da Bertrand Russell, mi ricorda quella che, io credo (ma lo affermo soprattutto per esperienza personale), chiunque prova in altre forme, magari più “adulte” ma nella sostanza ugualmente profonde, di fronte alla scoperta di un “nuovo” sublime paesaggio – a patto che si mantenga la mente curiosa e l’animo sensibile alla bellezza (nel senso più pieno del termine, non solo in quello estetico) che ci può offrire il mondo d’intorno. Quando si giunge in cima a un colle o a una montagna oppure si valica un passo, si supera un versante montuoso e finalmente si guarda dall’altra parte, o quando si esce da un folto bosco in aperta campagna e d’improvviso sembra che tutto si apra, si ampli, prenda forma e armonia, s’illumini e si colori oppure riveli qualcosa di inaspettato e per ciò sorprendente, qualcosa che sembra la rivelazione di un segreto del quale forse prima non sapevamo nulla e ora non solo pensiamo di sapere tutto ma è pure una sapienza della quale non possiamo più fare a meno… Ecco: di momenti del genere, di “scoperte” così capaci di generarci una gioia «primitiva, semplice e profonda» ce ne sono a iosa intorno a noi, in qualsiasi parte del mondo. Bisogna solo percepire quel «bisogno organico» di relazione con la Terra, con la Natura, con il paesaggio, e per fare ciò bisogna soltanto essere realmente vivi e per ciò sensibili verso l’ambiente del quale siamo parte.

Ha dunque ragione Russell nel concludere, riguardo quel bisogno, che coloro nei quali è spento «sono di rado completamente sani»: è una mancanza di sanità che, appunto, è probabilmente la conseguenza d’una similare nonché, mi permetto di dire, triste carenza di vitalità. Cioè di vita, vera, piena, compiuta.

Ci stancheremo mai di osservare la bellezza?

Io e Loki abbiamo fatto un po’ tardi, stasera, ma è colpa mia. Mi sono fermato, o dovrei meglio dire imbambolato, a osservare l’orizzonte nel mentre che la sera portava appresso e sistemava le sue cose – la limpidezza del cielo, il blu sempre più profondo, l’ombra nei fondivalle, le prime luci stellari… – negli spazi lasciati libero dal giorno. Mi capita di frequente, anche in luoghi il cui paesaggio ho già osservato infinite volte, eppure ciascuna è unica, l’ennesima è come se fosse la prima, le stesse cose viste e riviste le scopro come fossero nuove. Potrei stare ore e ore con lo sguardo fisso, o quasi, a osservare il mondo che ho intorno senza mai stancarmi, in una sorta di meditazione visuale tanto consapevole quanto a suo modo “mistica”. Di meraviglia da osservare nel mondo ce n’è un’infinità ed è ovunque, nelle cose minime come nelle grandi vastità; è una bellezza che si rinnova continuamente, in ogni istante offre di sé un’immagine diversa e la sua osservazione diventa una pratica per rinnovare sé stessi, in effetti, rinnovando ugualmente la relazione che ci lega al mondo in cui viviamo e che osserviamo.

L’occhio umano non dovrebbe mai stancarsi di osservare la bellezza del paesaggio: come ci si può stancare di osservare qualcosa che è bello in modi costantemente diversi? E se pure fosse apparentemente immutato, come è possibile stancarci se siamo noi a essere inevitabilmente diversi?

Sì, esimio principe Lev Nikolàevič Myškin, la bellezza può veramente salvare il mondo perché la bellezza è il mondo, e lo è anche senza la nostra elaborazione culturale e estetica del suo concetto. Semmai il punto è un altro: potrà il mondo salvare la bellezza? Ovvero: saremo capaci noi uomini, che in concreto per noi stessi siamo il mondo, di mai stancarci della sua bellezza e di osservarla, comprenderla, tutelarla, così da farne la nostra salvezza?

Ci penso nel mentre che torniamo, io e Loki, verso casa, senza alcuna certezza di poter trovare una risposta valida o quanto meno plausibile. Ma è il bello di queste riflessioni, un’altra forma di bellezza accessibile, ecco.

La cognizione della bellezza

Ovunque la Natura, anche nei suoi angoli più “minimi” e all’apparenza trascurabili sa offrire barlumi di meraviglia, parvenze di incanto, piccole magie di luci, ombre, colori e vitalità varie che, quando vengono còlte, lasciano sorpresi, a volte stupiti, comunque strabiliati nel constatare quale patrimonio di bellezza abbiamo a disposizione, intorno a noi.

D’altro canto, il paesaggio naturale non è bello, non manifesta bellezza: siamo noi che gli conferiamo questa dote, formulandola in base alle sensibilità personali e al bagaglio culturale collettivo, essendo la bellezza un’ideale estetico che abbiamo concepito e reso identificabile con modalità condivise nel corso del tempo. Ma è anche vero che la bellezza bisogna saperla vedere, intercettare, cogliere e comprendere per come ho appena detto nonché, e forse in modo maggiore, per come sappiamo derivare da questa capacità di percezione un piacere tanto elementare quanto profondo, che forse nemmeno riusciamo a spiegare ma ci appaga come pochi altri, almeno tra quelli immateriali.

In fondo è anche per tale motivo che il paesaggio naturale può ovunque e comunque donarci bellezza, nelle sue visioni più grandiose – i grandi panorami, le architetture montuose, i boschi più maestosi – come nei più trascurati recessi: tra le ombre del sottobosco, in mezzo alle pietre o a un ordinario prato, nelle foschie che sembrerebbero celare il paesaggio, eccetera. Per cogliere questi doni di meraviglia e incanto, serve solo una cosa altrettanto semplice ma assolutamente fondamentale: l’attenzione, a ciò che abbiamo intorno, a quanto può capitare, a mantenere sempre accesa la curiosità verso la scoperta e il cuore e l’animo aperti alla sorpresa. In fondo è quanto occorre anche per relazionarci con il paesaggio nel quale ci troviamo, per sentirci accolti in esso e per accogliere la sua bellezza in noi, facendoci stare bene e sentire felici in ogni suo angolo pur apparentemente “ordinario”, ribadisco. È una bellezza sublime e oltre modo preziosa, dunque, del cui valore abbiamo il diritto e il dovere di esserne massimamente consapevoli: anche perché è roba nostra, di tutti noi, e trascurarla o non averne cura la danneggia immediatamente ma poi danneggia in modo anche più grave e irreparabile tutti noi.

P.S.: per dire, l’immagine fotografica lì sopra, prodotta con il mio smartphone, non rende affatto giustizia alla percezione di bellezza che ho ritenuto di cogliere nell’angolo ritratto, sui monti sopra casa in un momento speciale nel quale la luce del Sole calante, le ombre conseguenti tra gli alberi il verde dell’erba fattosi luminescente, i chiaroscuri cromatici d’intorno e ogni altra cosa lì presente mi sono sembrati essere tutti insieme al massimo della loro bellezza possibile in quel preciso momento. Ma, appunto, sono attimi di magia che in quanto tali bisogna vivere nel loro subitaneo divenire, apici d’incanto che si possono raccontare pur suggestivamente ma non più riprodurre materialmente, sperando che il loro racconto quanto meno ne delinei, pur minimamente, la bellezza.