La libertà è una decisione dello spirito

La libertà è una decisione dello spirito. È lo spirito che decide di essere libero, se non ne è capace, non c’è libertà che lo possa aiutare.

(Friedrich Dürrenmatt citato da Donata Berra nella postfazione de La Valletta dell’Eremo, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2002, pag.84.)

La Svizzera (e la “Svizzeritudine”), secondo Gottfried Keller

Seldwyla, secondo l’antica parlata, indica una località solatia e deliziosa, che si trova da qualche parte in Svizzera. Essa è ancora circondata da alte mura e torri, come lo era trecento anni fa, ed è rimasta sempre lo stesso nido; l’originale e profondo intendimento di questo insieme è stato consolidato dalla circostanza, che gli stessi fondatori della città, si erano posti a una buona mezz’ora da un fiume navigabile, con il chiaro segno, che non se ne sarebbe fatto nulla. Ma essa è sistemata bene, nel mezzo di verdi monti, troppo esposti a mezzogiorno, cosicché il sole la può investire appieno, ma neppure un alito di vento la sfiora. Così vi cresce attorno alle antiche mura un buon vitigno, mentre più in alto sui monti si estendono zone boscose, che costituiscono il patrimonio della città; perciò è questo stesso un emblematico e curioso destino, che la comunità sia ricca ma la cittadinanza povera e precisamente che nessuna persona di Seldwyla abbia qualcosa e nessuno sappia, di che cosa essi da secoli vivano.

(Gottfried Keller, Kleider machen leute (“Gli abiti fanno le persone”) in Die Leute von Seldwyla (“La gente di Seldwyla”), 2a ed. 1873-1874.)

Gottfried Keller in un disegno di Karl Stauffer-Bern del 1887

Quella descritta da Keller, scrittore “nazionale” svizzero per eccellenza ovvero uno dei più significativi in senso assoluto della letteratura elvetica (ma pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano), è una località immaginaria, Seldwyla, che tuttavia compendia in modo letterariamente efficace i principali caratteri della Confederazione e delle sue genti: il paesaggio montano e boscoso (patrimonio della città così come della Svizzera reale, innegabilmente) e la cura agricola delle terre (i vitigni) ma pure la difesa di esse (le alte mura e le torri), la concretezza degli abitanti (il fondare la città a mezz’ora da un fiume navigabile) così come una certa condizione sociale, e socioeconomica, che per certi versi è emblematica anche per la contemporaneità elvetica. Come si può leggere su Wikipedia nella voce dedicata alla novella da cui è tratto il testo qui citato, “Persone di poche parole, gli abitanti di Seldwyla, ridono raramente e non perdono tempo ad immaginare storielle divertenti ed altre amenità. Essi non vogliono saperne di politica, che, secondo loro, conduce spesso a guerre, che loro, essendo da poco arricchiti, temono più del diavolo.

Ecco: svizzeri, appunto. Oggi che è il 1° di agosto, la Festa Nazionale Svizzera, anche di più.

Laurearsi in “Scrittura letteraria” (in Svizzera, non in Italia!)

La letteratura svizzera non è certamente tra le più popolari del mondo, nonostante in tema di produzione moderna e contemporanea presenti autori di altissima qualità – in fondo forse il solo Friedrich Dürrenmatt ha raggiunto uno status internazionale storicizzato (ciò senza considerare Hermann Hesse tedesco di nascita e svizzero naturalizzato). Questa alta qualità letteraria elvetica continua tutt’oggi, a differenza di altri paesi ove invece si assiste a un non indifferente scadimento in tal senso (ogni riferimento a qualche paese in particolare è puramente… beh, lo potrete immaginare), e di ciò va dato merito pure a un’istituzione molto particolare, che in Europa rappresenta quasi un unicum e ancor più rispetto alla situazione italiana: l’Istituto Letterario Svizzero di Bienne, nato nel 2006, che tiene corsi di scrittura di valore professionale universitario e, al termine del percorso di studi, rilascia un bachelor – una laurea breve, in pratica – in “scrittura letteraria”.

Di questa particolare scuola universitaria ne parla questo articolo di swissinfo.ch (lo potete leggere anche cliccando sull’immagine in testa al post). Per quanto mi riguarda, considerando la scarsisssssssima considerazione che nutro verso la maggior parte dei tanti corsi di “scrittura creativa” nostrani (in troppo casi veri e propri specchietti per allodole, o per allocchi, che non insegnano affatto a scrivere bene, soprattutto se non insegnano prima a pensare letterariamente bene e a conoscere approfonditamente la materia, lucrando sopra le speranze di tanti non scrittori), quello dell’Istituto Letterario Svizzero è un esempio da studiare e da seguire. Foss’anche solo per eliminare tanti aspiranti scrittori che sarebbe bene aspirassero a qualcos’altro più adatto alle loro capacità effettive.

Leo Tuor, “Caccia allo stambecco con Wittgenstein”

La montagna è naturalmente un luogo carico di suggestioni filosofiche, in certi casi molto “alte” e a contatto con il trascendente e lo spirituale, in altri casi più pragmatiche e pratiche, correlate alla rudezza del territorio e alla difficoltà del viverci. A tal proposito, è interessante notare come quella peculiarità orografica che eleva i monti e li spinge verso l’alto, a contatto con il cielo e a debita distanza dalla “piattezza” e dalla monotonia morfologica del mondo di sotto, di contro crea un inopinato livellamento biologico (nonché morale, mi viene da dire) tra le creature che vivono su di essi. Voglio dire: sulle montagne anche il supertecnologico uomo contemporaneo deve ancora sottomettersi alla ruvidità del territorio, all’inclemenza del clima, alla mancanza della comodità geografica che invece la pianura offre, e tale condizione la subisce lui esattamente come la subiscono tutte le alte creature viventi che risiedono in quota. Una ormai rara par condicio, insomma. Anzi, non è raro che l’uomo del Terzo Millennio ne esca bell’e sconfitto: ad esempio, la sua mobilità su certi scoscesi pendii rocciosi non raggiungerà mai l’agilità di camosci e stambecchi, che per di più il freddo lo sopportano molto meglio degli umani… e così via.
Ecco, a proposito di animali: non si può dire di conoscere veramente la montagna – quella vera e pura, non quella addomesticata dal turismo di massa – se non si va a caccia di stambecchi. Lo sostiene Leo Tuor, montanaro (grigionese) purosangue, esperto cacciatore, produttore di formaggi e autore di Caccia allo stambecco con Wittgenstein (Edizioni Casagrande, Bellinzona (CH), 2014, traduzione di Roberta Gado; orig. Catscha sil capricorn en Cavrein, 2010) in qualità di rinomato scrittore di lingua romancia. Perché pure la caccia allo stambecco, praticata in alta quota tra alte vette, ghiacciai, seracchi, inquietanti pareti rocciose e allucinanti pietraie, ha in sé un che di filosofico, o quanto meno di metaforico nei confronti della vita di montagna e del legame che relaziona l’uomo a questi territori (continua…)

(Leggete la recensione completa di Caccia allo stambecco con Witttgenstein cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Le vere capanne di montagna (Leo Tuor dixit)

Ci sono capanne malconce, abitate ormai solo da pastori d’alpeggio. I pastori cambiano tutti gli anni, e i nuovi ereditano il lerciume dei vecchi, e i contadini ci aggiungono tutta la robaccia che non vogliono più tenersi in casa: moquette pidocchiosa e stoviglie vecchie come il cucù. Spremiagrumi, due tre porta filtri da caffè (ancora quelli di porcellana con scritto sopra Melitta), le prime Duromatic uscite sul mercato e passaverdura con metà dei pezzi riempiono gli scaffali fra pile di piatti e, nel cassetto sopra la credenza che si apre a fatica, una macedonia di posate che basterebbe per un gregge di capre. Le vere capanne d’alpeggio non ce la fanno veramente più. Poi ci sono le baite risistemate solo il tanto che basta, capanne pratiche, di gente che dà l’anima alla montagna e prende alla montagna rocce, radici, camosci. E poi ci sono le casette con la staccionata tutt’intorno e la bandiera al vento, con le gelosie colorate e le tendine a quadretti e alphorn e jodel, chincaglierie kitsch di gente da mezza montagna, specialista in materia. Dico sempre che baite così possono anche andare, nei boschi più a valle, nelle radure, nel privato, in fondo siamo svizzeri liberi e uno nella sua radura può farci quello che vuole, agli altri non resta che sorbirselo con il cuore in pace. Ma in alta quota, sui pubblichi bricchi, in quel mondo radicale, il kitsch non è tollerabile. E invece troviamo baite in stile lassù-sulla-montagna anche oltre il limite dei boschi. Da voltastomaco.

(Leo Tuor, Caccia allo stambecco con Wittgenstein, Edizioni Casagrande, Bellinzona (CH), 2014, traduzione di Roberta Gado, pagg.40-41.)

Un breve ma intenso trattatello di architettura d’alta quota (e non solo) firmato Leo Tuor, uno dei più importanti scrittori elvetici di lingua romancia. A breve ne leggerete di più, qui nel blog, su di lui e sul romanzo dal quale il brano è tratto.