Milano ora toglierà il traffico dalle sue vie?

[Le Grigne viste da Milano. Immagine di Andrea Cherchi, tratta da www.milanomontagna.it.]
Milano è una “città di montagna” sotto molti punti di vista: perché è fatta di “cose della montagna” – marmi, acque, pietre d’ogni sorta… -, perché le Alpi cominciano poco oltre la sua periferia nord e le vette alpine si scorgono benissimo dal centro, perché alle montagne è sempre stata culturalmente legata, perché ha una lunga tradizione alpinistica, perché tra sedici mesi sarà pure sede delle Olimpiadi invernali. Ci tornerò pure io, a breve, per parlare di montagne in un evento pubblico.

Bene: oggi a Milano apre l’intera linea 4 della Metropolitana cittadina. Con essa, e con le linee di superficie, la città è ormai totalmente servita dai trasporti pubblici. Cosa dovrebbe fare dunque ora l’amministrazione della città? Semplice: togliere il traffico dalle sue vie. Quel traffico che la sta soffocando e la rende invivibile – come se già non avesse altre criticità che la rendono tale – e qualche mente misera ritiene una manifestazione di vitalità, di attivismo, di libertà. Libertà di morte, già.

Avrà il coraggio di prendere quella decisione? Saprà Milano dimostrarsi veramente una “città di montagna” cioè una metropoli legata al territorio e all’ambiente che la circonda non solo dalle vicinanze geografiche ma pure da una autentica consonanza ecologica, facendosi elemento antropico armonico – nonostante la sua grandezza – al territorio d’intorno e non più fattore dissonante, squilibrato, ammorbante e, ribadisco, sempre più invivibile?

[I grattacieli di CityLife, il Monte Rosa e le Alpi Pennine, quando non c’è lo smog. Immagine tratta da milano.repubblica.it.]
Io temo di no. Troppo impegnata Milano, ancora e pervicacemente, a costruire un’immagine di se stessa fatta di tanto marketing e di poca realtà, attrattiva per i forestieri e repulsiva per i milanesi, sempre più privata/privatizzata ed esclusiva, sempre meno urbana e civica. Una città, per giunta, che ora sta solo pensando a come imbellettarsi ancor più di prima per farsi bella davanti alle telecamere olimpiche.

[CityLife quando c’è lo smog. Immagine tratta da milanocam.it.]
Una città meravigliosa, scintillante, avvenente, vibrante, che vien sempre meno voglia di visitare e vivere.

Lombardia, la regione più “ricca” – di finanze, ipocrisie, miserie e malesseri

La Lombardia: la zona più ricca d’Italia, la regione «del fare» e nel suo mezzo Milano, la città più “cool”, la capitale finanziaria e morale del paese. Oppure entrambe, la Lombardia e la “sua” Milano, scintillanti scatole piene solo di immagine e ipocrisia e in realtà vuote di qualsiasi buona sostanza civica e politica?

Su “Il Tascabile” di Treccani potete leggere un bell’articolo di Ilaria Padovan e Graziano Gala che fin dal titolo dice come realmente stanno le cose al riguardo: LombarDie: morte di una regione, con quel “-die” che letto all’italiana indica che ci sono più facce della stessa regione e spesso sono antitetiche, e letto all’inglese significa “morire”, appunto. È un’analisi interessante e illuminante da leggere anche per come descriva la realtà lombarda attraverso frequenti citazioni di testi e di canzoni che l’hanno efficacemente raccontata: una realtà dove da tempo una scellerata politica bi-partisan (sinistra a Milano, destra in regione), da una parte sta svuotando la città dei suoi abitanti, soffocandone la vitalità e la sua comunità per fare spazio all’affarismo più spinto e urbanisticamente (ma pure civicamente) distruttivo, nascondendo il tutto dietro il più bieco marketing, e dall’altra sta devastando la regione diffondendovi lo stesso affarismo con fini unicamente ideologici e propagandistici (la gestione delle prossime Olimpiadi di Milano-Cortina lo dimostra benissimo) al contempo smontando ogni forma di assistenza a favore dei lombardi (la sanità regionale lo dimostra benissimo) con la strafottenza di chi rifiuta qualsiasi vicinanza alla loro quotidianità e l’ipocrisia degli slogan alla «Prima la Lombardia!» e cose simili.

Risultato: i milanesi scappano da Milano, viverci è sempre più roba da milionari, la regione ha il record di suicidi (ma dal 2021 non comunica più dati al riguardo, guarda caso), la cementificazione e il consumo di suolo aumentano irrefrenabili, l’inquinamento uccide migliaia di persone all’anno, i trasporti pubblici peggiorano continuamente i propri servizi, la già citata sanità pubblica viene sistematicamente depotenziata per favorire quella privata, nelle sue aree interne i servizi di base vengono tagliati, sulle montagne si chiudono ambulatori e scuole e si finanziano seggiovie e cannoni sparaneve… eccetera eccetera eccetera.

Ma di cosa stiamo parlando, dunque? Questa sarebbe la regione “più ricca d’Italia”? Ricca di cosa? La regione “del fare”? Fare cosa, in concreto?

Destra e sinistra, sinistra e destra. «Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?» (cit.)

(Nell’immagine in testa al post: sopra, CityLife, la Milano e la Lombardia belle, ricche e da far vedere; sotto, il così detto “Cementone”, ecomostro abbandonato e in degrado da anni in zona Greco, la Milano e la Lombardia brutte, misere e da nascondere.)

Milano, la città-centro commerciale che svende se stessa e la propria identità

Qualche giorno fa, sono in auto, ascolto la radio. In un notiziario si parla di Merlata Bloom, a Milano.

[Immagine tratta da https://www.merlatabloommilano.com/ ]
«210 negozi, 43 ristoranti tutto sparso su 70mila metri quadrati è il nuovo lifestyle center di Milano!» si dice nel servizio del notiziario.
Ah, dico io, un nuovo centro commerciale!
«Un progetto di pianificazione urbana dal cuore verde!» dice il servizio.
Comunque un ennesimo centro commerciale, dico io.
«Un grande intervento di rigenerazione urbana, un “winter garden” caratterizzato da aree verdi interne e ampie aree finestrate!» dice il servizio.
Mettetela come volete, è in ogni caso un altro megacentro commerciale, dico io.
«Un luogo di incontro e condivisione, che ripensa il tempo libero, le occasioni di socializzazione, il benessere e il rapporto con la natura.» dice il servizio.
Un. Nuovo. Maxi. Centro. Commerciale, dico e ribadisco io.
Ecco.
Risultato:

[Per leggere l’articolo cliccate sull’immagine.]
La pianificazione e la rigenerazione urbana, il benessere, la natura… sì sì, come no.

Nuovamente, incessantemente, pervicacemente, Milano svende la propria anima al consumismo più spinto e sfrenato, mettendo sul mercato la propria identità a favore delle brame degli immobiliaristi, dei signori della gentrificazione, del cemento, del panem et commercium «accaventiquattro», come si dice oggi.

Come scrive Lucia Tozzi nel suo illuminante libro L’invenzione di Milano, quella in atto è «la privatizzazione della città pubblica, dei suoi spazi e delle sue istituzioni sociali e culturali» a danno innanzi tutto dei suoi abitanti naturali, i milanesi, che infatti se ne stanno andando dalla città, allontanati e espulsi dal suo corpo urbano. Ovvero, come scritto altrove sempre a proposito del libro, «Milano propone una grande illusione collettiva, una grande allucinazione, dove ciò che rimane è la disneyficazione delle città e la foodification.»

A ben vedere, il vero maxi centro commerciale, a Milano, è la stessa città, sottratta ai milanesi e svenduta ai forestieri – bravissime persone e piene di belle idee e buona volontà, sicuramente, ma che non c’entrano nulla con l’anima cittadina, con il Genius Loci meneghino, con la sua dimensione storica urbana.

D’altro canto, è bene rimarcarlo come fa “Milano Today” nell’articolo dal quale ho ricavato buona parte delle citazioni lì sopra, il nuovo centro commerciale “Merlata Bloom” è stato edificato

su un’area che fino a qualche anno prima di Expo era completamente agricola

nella città che è già la più cementificata d’Italia. Un primato del quale evidentemente va molto fiera e che vuole consolidare il più possibile. E intanto incombono le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026, altra ottima occasione per ulteriori perversioni urbanistiche di vari ordini e gradi.

Be’, addio, meravigliosa Milano. Città tanto sublime nella forma architettonica, così degradata nella sostanza urbana e civica. Chissà, magari tornerai in te prima o poi. Magari invece no, e forse è giusto così.

Alberto Saibene, “Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più”

Col passare del tempo, il mio rapporto di amore/odio con Milano si sta elaborando in modi sempre più antitetici ma, obiettivamente, con la parte negativa che sta gioco forza diventando preponderante rispetto all’altra. Chiunque viva in Lombardia – ma la cosa può valere un po’ per tutto il Nord Italia, se non per l’intero paese – è ben consapevole di come Milano sia il fulcro di questa parte di mondo, e che lo sia nel bene e nel male: la città ha “salvato la vita” a tanti – nel senso più variegato dell’espressione -, ha costruito i loro destini, li ha resi gradevoli e confortevoli, a volte li ha fatti ricchi, ma la vita l’ha pure rovinata ad altrettanti che da Milano sono dovuti fuggire, per vari motivi. D’altro canto le città sono entità che vivono una vita propria a volte non così correlata a quella di chi ci vive, e il cui destino può anche prendere strade differenti da quello che vorrebbero per se stessi i suoi abitanti, magari non tutti ma tanti sì. In tal senso anche Milano, uscita semidistrutta dal secondo conflitto mondiale, è divenuta in pochi anni la capitale economica e culturale dell’Italia, il motore del boom economico, la “Milano da bere” in costante euforia consumistica degli anni Ottanta, per poi inevitabilmente deprimersi nei Novanta, perdere molta della sua identità negli anni a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, smarrirsi vivendo una crisi di identità piuttosto forte. Quindi, ritrovando nuovo slancio con l’Expo e ora con le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 ma al contempo generando in se stessa fenomenologie politiche, sociali e culturali che sembrano quelle degli anni Ottanta coniugate con le caratteristiche liquide e “post-un po’ tutto” del ventunesimo secolo: gentrificazione esasperata ovvero cementificazione incontrollata, greenwashing spinto, cosmopolitismo mal gestito, l’esasperazione estrema della forma e dell’immagine – adeguatamente brandizzate – a scapito della sostanza, l’happy hour come monocultura urbana imperante… di contro, Milano s’è fornita di nuovi luoghi preziosi, musei prestigiosi, spazi urbani innovativi, servizi di alto livello, ma con tutto quanto che pare messo più al servizio del successo e dell’immagine della città, non dei suoi cittadini. I quali infatti la stanno abbandonando, essendo ormai il centro pressoché in mano a multinazionali, grandi brand commerciali e holding immobiliari legati a fondi d’investimento esteri, per andare ad abitare sempre più in periferia se non nelle città dell’hinterland, vicine al centro della metropoli ma già al di fuori della sua centrifuga urbana e dunque più vivibili (seppur a rischio costante di fagocitazione metropolitana, posta la citata cementificazione tentacolare su ogni residuo spazio libero al di fuori del centro).

Una città totalmente diversa da quella di solo pochi anni fa, insomma, di un passato che per alcuni lustri è stato veramente eccezionale, assimilabile forse solo a quello di Londra per manifestazione di talento, genialità e produzione di variegate arti e cose sublimi, oltre che profondamente identificanti l’anima della città stessa – di quella città che non c’è più. Proprio come evidenzia il sottotitolo del libro di Alberto Saibene, Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più (Edizioni Casagrande, 2021), nel quale l’autore ripercorre quel periodo veramente aureo per il capoluogo lombardo che va dal primo dopoguerra agli anni Ottanta, quando un numero spropositato di talenti, appunto, girava per le sue vie e ne animava la vita con “invenzioni” in tutti i campi che hanno fatto epoca []

(Potete leggere la recensione completa di Milano fine Novecento cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

l’Italia e i “ritardi” sul PNRR. O forse no.

La questione dei ritardi sui progetti finanziati dai fondi europei facenti capo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che da qualche giorno è emersa sugli organi di informazione (cliccate sull’immagine qui sopra per leggere uno dei tanti articoli al riguardo), appare come l’ennesima manifestazione del cronico deprecabile modus operandi della politica italiana, frutto di un mix di incapacità, incompetenza, superficialità, menefreghismo, quando non di vera e propria cialtronaggine, che da lustri caratterizza bipartisanamente l’operato della classe politica nostrana, i cui rappresentanti attuali non sono che i discepoli di numerosi precedenti pessimi maestri – il che, sia chiaro, non li esime dalle conseguenti responsabilità, anzi.

Ecco, verrebbe da pensare tutto ciò, nel leggere quelle notizie e i dettagli di alcuni dei ritardi segnalati.

E se invece l’italico modus operandi consueto fosse “strategico”, fatto apposta per svicolare da obblighi, vincoli, responsabilità altrimenti inderogabili? Se di “ritardi” veri e propri non si trattasse ma fosse una altrettanto solita, bieca furbata all’italiana?

È un pensiero conseguente al primo, quest’altro, che sorge nel leggere altre notizie, ad esempio questa relativa ad altre “grandi opere” in programma di questi tempi:

Uhm… non vi fa venire in mente nulla, a proposito di modus operandi?

Vi aiuto io, con un altro caso recente:

E infatti già qualcun altro ben più titolato di me ha formulato lo stesso pensiero:

Bene: ora, se leggerete, sentirete o vedrete qualche politico italiano che dice cose al riguardo, accampa scuse, si straccia le vesti, fa lo scaricabarile o promette prodigi, mi auguro che vi prenderete qualche attimo di riflessione in più per cogliere il senso reale delle sue parole.

A pensar male si fa peccato ma si indovina spesso, rimarca la nota frase pronunciata da Pio XI e resa celebre da Giulio Andreotti. Che per analizzare questioni del genere è comunque un modus operandi – anzi, modus cogitandi individuale sempre utile, questo sì.