Gli alberi e la «timidezza della corona»

[Foto di Mabel Amber da Pixabay.]

Che gli alberi abbiano escogitato tante maniere, simili ma diverse, di far crescere centinaia di rami per riempire uno spazio con efficienza, senza scivolare nell’anarchia, ha del miracoloso. […] Come la gemma apicale, anche le estremità dei rami reagiscono alle variazioni di luce: è così che si inseriscono negli spazi, fermandosi prima di accalcarsi nella chioma. Se alzate lo sguardo in un bosco maturo noterete una linea sottilissima di cielo che separa le chiome, effetto detto «timidezza della corona» (se i rami crescono troppo cominciano a urtare l’uno contro l’altro e la crescita s’interrompe).

[Tristan Gooley, Leggere gli alberi, Altrecose 2025, pagg.73-86. Trovate la mia “recensione” al libro qui.]

Quello delle linee di cielo disegnate dalle cime degli alberi è un fenomeno che sicuramente tutti abbiamo constatato qualche volta, nelle nostre passeggiate nei boschi e in innumerevoli fotografie circolanti sul web. Ma quanti direbbero che una cosa così apparentemente casuale e banale rappresenta invece una delle manifestazioni più evidenti dell’intelligenza degli alberi e della loro capacità di “vedere” il mondo che hanno intorno?

Ciò dimostra quanto sia stupefacente e complessa la Natura in cui viviamo, ben più di quanto si possa immaginare e anche nelle circostanze più ordinarie; al contempo rimarca le responsabilità che noi abbiamo nei suoi confronti: di comprenderne il più possibile la realtà, di armonizzarci ad essa e di salvaguardarla come merita. Cioè come noi meriteremmo, se volessimo continuare a vivere al meglio su questo nostro pianeta, mentre troppo spesso meritiamo solo di subire tutte le conseguenze della nostra relazione disarmonica con l’ambiente naturale.

A tal riguardo anche il più ordinario albero ci sa insegnare molto. Sta a noi “ascoltarlo” e imparare.

Tristan Gooley, “Leggere gli alberi”

Secondo alcune ricerche scientifiche, ci sarebbero più di 3.000 miliardi di alberi sul pianeta Terra. Inevitabilmente si tratta di una stima, anche se esistono in rete alcuni siti di mappatura arborea globale molto ben fatti e scientificamente attendibili, come questo. In ogni caso credo che, ad eccezione delle specie di insetti, gli alberi siano gli organismi viventi più numerosi sul nostro pianeta, oltre a essere fondamentali per la vita di qualsiasi altra specie – si pensi solo alla fotosintesi clorofilliana. Nonostante ciò, noi Sapiens fatichiamo a pensarli “vivi” e dotati di funzioni biologiche peculiari: li vediamo più come oggetti naturali inerti e pressoché immobili, al netto della loro crescita che peraltro spesso si allunga per decenni e dunque ci risulta “impercettibile” e irrilevante, per tutto ciò formalmente non degni di poter venir considerati “esseri”.

Be’, è un altro (cioè l’ennesimo) clamoroso errore che l’uomo (Sapiens?) manifesta nei confronti del mondo in cui vive e in particolar modo dell’ambiente naturale. Riduciamo ogni cosa presente sul pianeta a una visione strettamente (e stoltamente) antropocentrica per la quale ha qualche valore solo ciò che può essere ricondotto, in forme e in sostanze, al modus vivendi umano mentre tutto il resto non ha alcun valore oppure è qualcosa di secondario e inferiore.

Tristan Gooley, scrittore ed esploratore britannico noto per i suoi metodi di orientamento naturale che ha testato in innumerevoli viaggi d’avventura in giro per il mondo, definito dalla Bbc lo «Sherlock Holmes del mondo naturale», nel suo libro Leggere gli alberi (Altrecose, 2025, traduzione di Stefania De Franco e prefazione di Isaia Invernizzi) ci dimostra quanto sia realmente clamoroso quell’errore e quanto poco approfondita sia la conoscenza diffusa, da parte umana, di chi siano veramente gli alberi []

(Potete leggere la recensione completa di Leggere gli alberi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

La meteo “diversamente bella” che rende il paesaggio “diversamente” speciale

Piove. E quando piove almeno due cose sono certe: che il governo è ladro (che poi, fateci caso, la pioggia è sempre bipartisan) e che lo scrivente prepara lo zaino, infila le scarpe da trekking, un copricapo impermeabile in testa e va per i monti. A meno che non ci siano nubifragioni nell’aria, ovvio, e d’altronde il temporale che fino a poco prima ha scosso la zona scaricando anche un po’ di grandine è già corso verso levante, ormai per me innocuo.

Ho scelto un percorso particolarmente silvestre, sia per ripararmi almeno un poco dalla pioggia a tratti battente e sia perché so bene quanto sia fenomenale attraversare i boschi madidi: gli alberi cantano felici come se imitassero noi umani sotto la doccia, il ticchettio delle gocce di pioggia sulle foglie che ancora stazionano sui rami battono il codice morse dell’entusiasmo arboreo, il terreno effonde profumi intensi, ancestrali, quasi inebrianti, i corsi d’acqua, anche quelli periodici, si ravvivano e rivitalizzano l’ambiente. Fuori dal bosco, il verde dei prati si fa quasi fosforescente tant’è brillante mentre le nuvolaglie sfilacciate si fanno indossare dalle cime dei monti come sciarpe fluttuanti.

Tutto questo – anche tutto questo – fa sì che il sentiero lungo il quale cammino l’ho già fatto mille volte e questa milleunesima è sorprendente come fosse la prima: è la manifestazione di una poiesis geopoetica e psicogeografica, un “fare dal nulla” il paesaggio il quale immediatamente diventa la dimensione fondamentale di quei momenti. Alla cui meraviglia, lo ammetto, contribuisce il fatto che non ci sia nessuno in giro – andata e ritorno, non ho incrociato anima (umana) viva; ma in fondo mi dispiace che tali condizioni, anche quando non siano affatto problematiche, scoraggino molti dal farsi una bella camminata al ritmo naturale battuto dalla pioggia sulle chiome arboree. Questa meteo diversamente bella rende percepibili cose diversamente speciali del paesaggio altrimenti sfuggenti – i profumi del bosco, appunto, o le forme dei monti definite dalle nuvole che vi si inframezzano, i differenti toni virenti della vegetazione, eccetera – così che in quel paesaggio ci si senta in qualche modo ancora più dentro del solito, ancora più parte di esso: in fondo si è tutti – umani, animali, piante, pietre – nella stessa condizione madida di pioggia. Alla fine anche il fango che resta sulle mie scarpe o che mi inzacchera i polpacci mi interra più del solito in quel paesaggio, in quell’ambiente grigio, bagnato, freddiccio, eppure così inopinatamente bello e speciale.

Eppoi dopo la pioggia viene sempre il sereno, Rodari docet; ne sarò ancora più contento del suo calore, del cielo tornato terso, della luce ritrovata, proprio grazie alla pioggia, in fondo. Yin e Yang, notte e giorno, caldo e freddo, cielo e terra, negativo e positivo. Ecco anche perché quando piove io comunque prendo lo zaino e comincio a camminare: per farlo pure col Sole con identica, meravigliosa, salutare soddisfazione.

 

Le intelligenze aliene tra di noi (e l’ottusità che dimostriamo nei loro confronti)

[Foto di Mario da Pixabay.]

Dobbiamo cambiare il nostro modo zoocentrico di valutare organismi viventi diversi da noi animali, ma che hanno la stessa capacità di comunicare e relazionarsi. Questo dimostra inoltre che ci sono basi ancestrali tra vegetali e animali che con l’evoluzione hanno preso strade diverse […] Gli alieni sono già tra noi: sono le piante. Sono vive, percepiscono l’ambiente che le circonda, “parlano” e inviano messaggi. Dobbiamo cambiare il nostro modo di considerarle, se no non riusciremo mai a capire la complessità di questi esseri viventi che compongono il 90% della biomassa terrestre.

Sono parole di Umberto Castiello, professore di neuroscienze cognitive al dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova e direttore di Mind the Plant, laboratorio dove si studia il comportamento e la comunicazione delle piante, intervistato sul quotidiano on line “Open” il 4 marzo 2025. Castiello è anche autore di La mente delle piante. Introduzione alla psicologia vegetale, (Società Editrice Il Mulino, 2023) libro che approfondisce questi affascinanti temi, che ho già a casa da leggere.

Trovo fondamentale quanto evidenzia il professor Castiello circa la complessità del mondo naturale: ne facciamo parte in quanto animali come ogni altro organismo vivente, ci arroghiamo il diritto di dominarlo assolutisticamente in quanto Sapiens ma ci ostiniamo pervicacemente a non comprenderlo nella sua rimarcata complessità. È anche da questa colpa – perché di ciò si tratta, dal mio punto di vista – che derivano i grandi disastri che l’uomo cagiona all’ambiente naturale e ai suoi ecosistemi.

E per noi persone comuni non serve comprendere la complessità naturale dal punto di vista scientifico: non siamo tutti scienziati, appunto. Basterebbe almeno comprenderne l’esistenza, capire che la Natura non è solo un insieme apparentemente entropico di piante animali pesci pietre acque eccetera ma è un sistema relazionale complesso che in quanto tale non può essere trattato banalmente e con superficialità, quella che sovente si riscontra nella gestione antropica dell’ambiente e delle risorse naturali.

A tale proposito mi torna in mente quella nota affermazione di Albert Einstein, uno che di complessità se ne intese come pochi altri nella storia:

Quel che vedo nella natura è una struttura magnifica che possiamo capire solo molto imperfettamente, il che non può non riempire di umiltà qualsiasi persona razionale.

Ecco: fossimo almeno umili e per ciò rispettosi della Natura e delle sue diverse intelligenze, sono certo che vivremmo in un mondo migliore e molto più in salute di quello che oggi abbiamo. Inoltre ci mostreremmo a nostra volta intelligenti, ovvero molto meno stupidi di quanto nei confronti della Natura palesiamo di essere.

Quando il bosco si fa confidenziale

Mi sto rendendo conto, peraltro ora che la primavera è sempre più prossima, che negli ultimi tempi ho sviluppato una sorta di sentimento di affetto, di benevolenza, forse di “compassione” – ma senza le accezioni negative e cristiane del termine legate al distorto concetto di “pietà”, semmai nel senso di comunione spirituale intima – verso il bosco d’inverno. E non penso solo agli spazi silvestri come le grandi abetaie alpine oppure a certe maestose faggete, luoghi sempre potenti e impressionanti, anzi, al contrario: mi riferisco al bosco di media montagna, quello delle mie parti, a volte ancora ben tenuto ma molto più spesso disordinato, intricato, confuso, selve che conservano storie che più nessuno vuole ascoltare, manifestazioni del ritorno inesorabile e selvatico della natura in spazi un tempo antropizzati e poi abbandonati e dimenticati.

Scrivo «negli ultimi tempi» pensando alla mia frequentazione di questi boschi anche per come sia stata accresciuta dalle ristrettezze di movimento nel periodo dei lockdown da Covid-19, un intervallo forzato e drammatico ma grazie al quale ho avviato un’esplorazione sistematica e una mappatura mentale di ogni angolo selvatico dei miei monti alla ricerca di antiche o più recenti relazioni antropiche con il loro territorio e di piccole-grandi sorprese naturali celate e conservate nel fitto di queste mie foreste un po’ sgarrupate ma anche per ciò inopinatamente affascinanti.

Un’esplorazione che il periodo invernale – con tutto che “non ci siano più gli inverni di una volta”, come ormai ci siano dovuti abituare a dire – rende favorevole e oltre modo suggestiva. Il silenzio e la quiete più assoluti regnano tra gli alberi, l’unico rumore prodotto, che a volte sembra quasi un suono o, se così posso dire, il frusciante sussurrio con il quale si richiama l’attenzione del bosco, è quello dei passi lungo sentieri a volte quasi scomparsi e ricoperti dalle foglie cadute, la luce radente getta lame scintillanti tra i tronchi generando di contro ombre lunghe e misteriose, innumerevoli rami contorti strappati dal vento dagli alberi irrigiditi giacciono inerti sul terreno, un’idea accidentale ma essenziale dell’equilibrio tra la vita e la morte che in natura non solo è sempre presente ma è un elemento imprescindibile che genera il divenire reale del mondo selvatico. E su tutto, l’inverno col suo gelo – quando ancora si manifesti, ribadisco – cristallizza ogni cosa in un’attesa inerte, una sospensione vitale che fa del bosco una comunità immobile, silente, meditabonda, genuflessa al dominio del tempo e delle stagioni che impongono inerzia ma non per questo dotato d’una propria presenza e di una particolare energia: solo latenti, quiescenti fino al primo cenno di rinascita che prima o poi si manifesterà.

Per tutto questo trovo il bosco d’inverno un ambito bonario come pochi altri, placido, confidenziale e suo modo accogliente, uno spazio dove la quiete sovrana sviluppa il pensiero spontaneo e agevola la calma interiore, dove il dialogo con il paesaggio naturale riecheggia più che in altre occasione dentro me stesso, dove per così dire sono portato a farmi albero a mia volta, tranquillo, quiescente, in attesa di percepire minimi ma intriganti segnali di vitalità e nel mentre cullato dalla leggera brezza che smuove le foglie rinsecchite sul terreno come per il respiro disteso di un sonno profondo che accoglie ogni cosa silvestre intorno a me nel letargo stagionale ristoratore. E accoglie un po’ anche me, umano che non può permettersi – ahimè! – sospensioni letargiche ma certamente anela di sentirsi accolto dal bosco, anche protetto ovvero celato, almeno per qualche momento, dal resto del mondo che al di fuori della comunità arborea strepita di continuo fin troppo incurante del ciclo naturale della vita e di tutte quelle cose minime e all’apparenza trascurabili ma che in effetti sono le più genuine manifestazioni dell’anima del mondo.

(Articolo pubblicato in origine qui sul blog esattamente 2 anni fa, il 6 marzo 2023.)