L’Irlanda del Nord, una ferita europea che sanguina ancora

Probabilmente avrete letto o sentito dagli organi di informazione, nelle scorse settimane, del riacutizzarsi degli scontri tra cattolici e protestanti – ovvero tra nazionalisti-repubblicani e unionisti-lealisti – nell’Irlanda del Nord e in particolare a Belfast, ennesimo strascico di quella incredibile e per molti versi paradossale vicenda bellica che fu il conflitto nordirlandese, tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, una guerra a bassa intensità (ma nemmeno così tanto, a ben vedere) conosciuta come The Troubles, “I disordini”, quasi a rimarcare il basso profilo che si è sempre cercato di conferire ad essa e al suo retroscena storico-etnico-politico – in effetti il termine “trouble” indica anche un semplice guaio o un mero disturbo. Qui trovate un ottimo dossier sulla situazione attuale nordirlandese tratto da “Il Bo Live”, notiziario dell’Università di Padova.

Peraltro questo 2021 è un anno particolarmente significativo per l’Irlanda del Nord, dal momento che si “celebrano” due ricorrenze di segno geopolitico opposto: da una parte i cento anni dalla creazione della regione con la separazione dalla Repubblica d’Irlanda e la giunzione del Regno Unito, dall’altra i quarant’anni dalla scomparsa di Bobby Sands, attivista politico nordirlandese e figura di grande influenza a livello internazionale, che morì in carcere il 5 maggio 1981 a seguito di uno sciopero della fame condotto a oltranza come forma di protesta contro il regime carcerario a cui erano sottoposti i detenuti repubblicani, e per questo considerato un “martire” della lotta per l’indipendenza nordirlandese.

Ho sempre trovato estremamente emblematica, e sotto diversi aspetti inquietante mentre per altri inconcepibile, la storia dei Troubles: una guerra – anche se “a bassa intensità” ma pur sempre guerra – di matrice (anche) religiosa, combattuta in una delle terre più belle, nobili e avanzate d’Europa, parte integrante della formativa e identitaria cultura celtica alla base della storia europea, eppure capace di provocare più di 3.500 morti (con i paramilitari repubblicani cattolici che furono responsabili del 60% delle vittime, gli “unionisti lealisti protestanti” del 30% e le forze di sicurezza britanniche del 10% – sottolinea l’articolo di Wikipedia) e segnata da episodi a volte spaventosamente efferati, che oggi tendiamo a credere propri solo di certe forme di terrorismo integralista ma che, incredibilmente, trovano numerosi precedenti nei Troubles, tra stragi di civili anche ad opera dell’esercito britannico (non si può non citare la famigerata Bloody Sunday al riguardo), attentati in luoghi pubblici, assassinii efferati, vendette di pari abominio e altri episodi che verrebbe ben più facile correlare a situazioni da guerre civili in parti del mondo ben più problematiche rispetto all’Irlanda del Nord e alla sua nobile gente.

Ad oggi Belfast, capoluogo della regione e città per giunta molto bella, è ancora estremamente frammentata dal punto di vista etnico-politico e alcune zone urbane con la presenza ravvicinata di cattolici e protestanti sono divise da muri – già, muri: non è stato quello di Berlino l’ultimo muro “politico” europeo – i cui varchi vengono chiusi nelle ore notturne in forza di una sorta di coprifuoco permanente. Una delle vie centrali di Belfast, che anche nelle ultime settimane è stata citata nelle varie notizie sui recenti disordini, è Shankill Road, il cui nome rimanda all’omonimo quartiere circostante ma che, a chiunque abbia un minimo di conoscenza della storia dei Troubles, ricorda una delle vicende più spaventose ed efferate della guerra: quella degli Shankill Butchers, i “macellai di Shankill”, un ramo terroristico dell’Ulster Volunteer Force che si rese protagonista di almeno 23 omicidi di cittadini cattolici (ma non solo, ci furono anche protestanti tra le vittime) che rapiva, torturava e uccideva barbaramente tagliando loro la gola con un coltello da macellaio. Già, esattamente come i terroristi islamisti dell’ISIS, le cui immagini delle stragi compiute con tali modalità qualche anno fa hanno sconvolto il mondo, additate giustamente come esempli di barbarie e di fanatismo assoluti e insopportabili ma che nessuno o quasi dei vari cronisti ha rimarcato come fossero del tutto similari agli episodi degli Shankill Butchers, quasi che questi ne abbiano rappresentato un terrificante “modello” da imitare (peraltro non nuovo nella storia più cupa dell’umanità ma certamente non frequente negli ultimi decenni).

Dunque, è triste sapere quella meravigliosa terra nuovamente preda di disordini o, per meglio dire, mai affrancata da essi e dalle sconcertanti motivazioni di fondo, le quali temo resteranno vive fino a quando non vi sarà una reale spinta di matrice socioculturale e antropologica, ancor più che politica, al cambiamento della società nordirlandese verso un maggior equilibrio generale delle sue componenti, in verità ben più omogenee di quanto la storia regionale possa far credere. Di contro quella dei Troubles resta una vicenda costantemente emblematica e dalla conoscenza necessaria ovvero che non può essere omessa nella cognizione e comprensione dell’Europa recente e contemporanea. Al proposito, vi sono molte opere che nei vari media raccontano i Troubles, e da differenti punti di vista, ma poche in italiano: tra queste mi permetto di consigliarvene due, un film e un libro. Il film è Bloody Sunday, del 2002, che racconta proprio quella maledetta domenica di sangue a Derry, un’opera molto bella, tesa, visivamente potente e per certi versi straziante; il libro è Qui Belfast, di Silvia Calamati, un testo sicuramente schierato (dalla parte dei repubblicani) ma che offre una cronaca e una disamina complete della guerra nordirlandese forse come nessun altra opera in lingua italiana. Una guerra la cui storia, purtroppo, al momento resta una ferita aperta, profonda e assai dolorosa nel corpo della nostra Europa.

INTERVALLO – Lione (Francia), “Bibliothèque de la Cité”

La Bibliothèque de la Cité è un grande murale, ampio oltre 400 mq, che affresca un palazzo nel centro di Lione con la raffigurazione di più di 500 libri di autori e generi diversi ma tutti in vario modo legati alla città francese. Creato nel 1998, nel murale vi si riconoscono testi di Rabelais, Louise Labé, Voltaire, Reverzy, Frédéric Dard, Annie Salager e molti altri. Oggi attrae non solo i turisti che visitano la città ma pure altrettanti bibliomani, dato che è stato realizzato in un quartiere ove si trovano numerosi librai.

Keith Haring, Milano

Con inedita profusione di quantità e qualità espositiva, e come ideale seguito della mostra dedicata qualche mese fa dal MUDEC all’altro grande “genio maledetto” dell’arte dell’ultimo Novecento, Jean-Michel Basquiat, About Art porta negli spazi di Palazzo Reale a Milano tutta la potenza artistica espressiva nonché lo straordinario (e tutt’oggi troppo sottovalutato) retaggio culturale di Keith Haring, in un’esposizione capace di sorprendere e affascinare in modo inaspettato.

Conosciuto dal grande pubblico più come street artist (o graffitaro, come si diceva ai tempi) soprattutto per via delle sue icone più identificanti – il “bambino radiante”, il cane che abbaia, l’omino stilizzato che balla, divenute loghi di innumerevoli cose oltre che degli stessi anni ’80 del Novecento – Keith Haring in verità è stato un artista estremamente colto e inopinatamente legato alla produzione artistica classica, molto spesso rinascimentale italiana, della quale ha disseminato di riferimenti molte sue opere. Dietro il tratto apparentemente semplice e legato al costume dell’epoca (invero assai dotto e raffinato, se analizzato per bene), le sue opere rivelano profondità tematiche ed espressive forse tra le più alte e strutturate dell’intera pop art, movimento che con Haring tocca uno degli apici assoluti. Come in un percorso artistico inverso rispetto a quello di altri pop artists, che trasportavano i riferimenti artistici classici in ambiti popolari contemporanei, nella forma e nella sostanza, Haring ha invece portato la pop art a riconnettersi con la storia dell’arte e con le sue matrici fondamentali, senza tuttavia perdere nulla della propria contemporaneità e della capacità di essere compresa ovvero di arrivare, anche solo iconicamente, a tutte le persone – obiettivo che l’artista americano ha sempre considerato fondamentale per la sua produzione artistica.

Così, il suo tratto semplice, a volte quasi infantile, così “normale” rispetto all’ambiente nel quale viene inserito (i luoghi urbani, la strada, le stazioni della metropolitana soprattutto) e del quale diviene segno distintivo, diventa uno strumento estremamente funzionale a rendere popolare un linguaggio artistico invece denso e strutturato, tratteggiando con rara forza ed efficacia espressiva lo storia sociale e culturale d’una intera epoca, espansa anche oltre il decennio nel quale Haring opera, non di rado con creatività tanto potente e visionaria da diventare profetica. Tuttavia, la sua apparente matrice pop(olare), la quale rende frequenti soggetti delle sue opere le icone più celebri dell’epoca e dell’intero secolo scorso – Mickey Mouse, per dirne una – non gli impedisce di riferirsi spesso e volentieri ad ambiti ben più insoliti, dai quali trae ispirazioni assolutamente affascinanti – l’arte precolombiana, ad esempio. Riferimenti che, in aggiunta a quelli ben più classici prima citati (tra i quali è preponderante Hieronymus Bosch), dotano la produzione artistica di Haring di raro eclettismo e altrettanto rara poliedricità espressiva.
Ma, come detto poco fa, la sua arte doveva arrivare a tutti, e se in certi casi i temi assai colti non potevano giungere dacché più ostici da comprendere, vi giungeva la forza spontaneamente iconica delle opere, la sua formidabile capacità di utilizzo del colore, gli accostamenti cromatici perfetti, a volte l’ipnotica reiterazione nella stessa opera del soggetto principale – una sorta di “campionamento visuale” simile a quelli musicali coi quali si innovava e si caratterizzava la pop music del tempo (e giova qui ricordare la grande amicizia di Keith Haring con Madonna, che stava allora diventando l’icona di oggi così come Haring lo sarebbe diventato dell’arte, anche suo malgrado per via della morte a soli trentuno anni) – e, ribadisco, la generale potenza dei suoi lavori, quasi sempre di grande formato, realizzati su qualsiasi superficie utile allo scopo, capaci di catturare in maniera inesorabile l’attenzione e la meraviglia di chiunque.
Ottima mostra, tra le migliori visitate ultimamente nella struttura museale milanese – anche riguardo l’allestimento, che in certi casi accosta alle opere di Haring le riproduzioni di quelle classiche a cui le prime fanno riferimento, rendendo così evidente l’ispirazione originaria. E, aggiungo, è una mostra necessaria, perché il retaggio culturale di altissimo valore che Keith Haring ha lasciato, non solo allo specifico mondo dell’arte ma pure a quello culturale in generale, merita di essere considerato nella sua interezza e compreso in profondità.

Avete tempo di visitare Keith Haring. About Art fino al prossimo 18 giugno – cliccate sull’immagine in testa al post per visitare il sito web dedicato alla mostra. E, vi assicuro, sarà tempo assolutamente ben speso, grazie al quale vi si genererà un’esperienza culturale di grande forza e suggestione.

La morte della (nostra) comunicazione (Pasolini dixit)

La morte non è nel | non potere più comunicare, | ma nel non potere più essere compresi.

(Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità)

La-Pietà-di-pasolini-secondo-Ernest-Pignon-ErnestCredo non ci sia nulla da dire, ancora, sulle peculiarità profetiche del pensiero di PPP. Ma certamente oggi, nell’epoca dell’informazione e della comunicazione a 360°, della connessione in rete 24/7 e, di contro, pure del sempre più diffuso analfabetismo funzionale, non è difficile riferire la morte citata da Pasolini a questa nostra società, al suo essere ingolfata di innumerevoli voci parlanti che sempre meno gente sa ascoltare e dunque comprendere, in uno stato di effettiva cacofonia nel quale svaniscono anche quelle poche parole di valore che ci farebbe bene sentire ma che appunto, nel rumore generale, non comprendiamo più. Non manca comunicazione, al tempo d’oggi, manca comunicabilità ovvero, per dirla in altro modo, manca la volontà di comunicare e di recepire comunicazione: al punto che, in una deriva inquietante tanto quanto pericolosa per tutti, molti ormai (da certo potere politico, e non solo, in giù) rinunciano totalmente a comunicare, arroccandosi e rinchiudendosi nella propria – più o meno consapevole, più o meno dissennata – alienazione, ovvero in uno stato totalmente anti-sociale. Che, se le cose non cambiano, potrebbe finire per uccidere la “società” in quanto tale, per causarne la morte. Appunto.