«Come rovinare un paradiso in nome del paradiso»

Tra i giostrai alpini, quelli che si prodigano nel piazzare installazioni ludico-ricreative (ovvero così ritenute da alcuni) sulle montagne, vi è pure una categoria definibile “devota” le cui opere, generalmente piazzate sulle vette più che sui fianchi montuosi, hanno carattere religioso (ovvero così ritenuto da alcuni) più che ludico, seppur nel principio le due cose si basano su un identico principio di percezione forzatamente mediata dell’ambiente e del paesaggio montani. I primi pensano che senza qualcosa di artificiale (panchine giganti, piattaforme panoramiche, ponti di varia natura, eccetera) non si possa cogliere e valorizzare a dovere la bellezza alpestre, i secondi che senza un qualche manufatto simbolico religioso (croci, statue, altari, eccetera) non se ne possa cogliere la sacralità. In entrambi i casi, passatemi l’esempio, è un po’ come se per ammirare un capolavoro pittorico standoci davanti venisse imposto l’uso di un cannocchiale perché altrimenti la visione ne verrebbe deformata: peccato che avviene l’esatto contrario ed è semmai la lente del cannocchiale a distorcere la percezione visiva dell’opera, essendo del tutto inadatto allo scopo.

Nell’articolo qui sopra riportato, pubblicato su “Aquile in Guerra. Rassegna di studi della Società Storica per la Guerra Bianca” nr.21-2013, Marco Balbi, presidente della Società stessa, mette ben in evidenza la suddetta devianza percettiva (e non solo) contestualizzata all’emblematico caso religioso-devozionale del Monte Castellazzo, nelle Pale di San Martino (nella foto in testa al post), chiedendosi-ci efficacemente al riguardo come si possa «rovinare un paradiso in nome del paradiso», cioè un luogo che tutto ha per natura dell’ambito sublime e spirituale o, se si vuole, divino, con qualcosa che francamente di spirituale e divino non ha nulla se non per imposizione forzata e dogmatica. Già, perché guai a osare criticare tali opere: non si passa solo per disfattisti, “ecointegralisti” o cose simili ma pure per blasfemi miscredenti profanatori dei valori e delle tradizioni popolari!

Eh, peccato che insieme al luogo montano e alla sua dimensione naturalmente elevata, ciò che viene più rovinato, da questi interventi, è proprio il senso religioso e devozionale, e la possibilità di suscitare in chi li visita un genuino afflato spirituale e meditativo. Insomma, pensateci bene: che genuina “spiritualità” («l’avere natura o carattere spirituale», vocabolario Treccani) può essere quella che non sa rendersi conto dell’essenza spirituale primigenia e naturale che le vette montane manifestano fin dalla notte dei tempi e di contro ha bisogno di simboli materiali lì piazzati per convincersi di sussistere? Invero è una non spiritualità di matrice inesorabilmente artificiosa, finta, simulata e vuota di qualsiasi senso devozionale – posto poi che effettivamente chi salga lassù voglia manifestarla, una qualche forma di spiritualità, dacché, come scrive Balbi, l’impressione è che lassù ci giungano soltanto masse turistiche attratte dal marketing, ben più interessate a stare lassù (testimoniando il tutto con gli immancabili selfies, ovviamente) che a essere lì, in quel luogo e in relazione con la sua autentica valenza culturale che può ben contenere anche la matrice mistico-spirituale ma, ribadisco, per sua natura e senza il bisogno di alcun manufatto francamente invasivo, inquinante, inquietante, degradante. E con l’inesorabile contorno di assembramenti, schiamazzi, rifiuti… – tutte cose consone a un luogo deputato alla spiritualità e alla meditazione, vero?

Ecco.

Per quanto mi riguarda, l’opinione personale riguardo il tema “croci sui monti” l’ho già ben formulata più volte, ad esempio qui. Quello del Monte Castellaccio credo sia l’ennesimo caso di degrado d’una montagna con manufatti del tutto fuori contesto e avvilenti il luogo, il paesaggio e il suo valore culturale, con ricadute materiali che amplificano il danno originario. Punto.

P.S.: ringrazio molto Giuseppe Mendicino per avermi ricordato l’articolo di Balbi e il tema in genere.

Le colonne del cielo

[Foto di eberhard 🖐 grossgasteiger da Unsplash.]

[…] Il desiderio di capire e di spiegare i grandi fenomeni che gli si svolgevano attorno ha spinto l’uomo di un tempo a interpretare l’ambiente che lo circondava con la sua fantasia e i pochi dati oggettivi di cui disponeva.
L’egocentrismo (che poi l’uomo ha ancor più sviluppato), le grandi catastrofi, frane, forse terremoti gli hanno fatto pensare che il cielo potesse crollargli addosso. Solo l’essenza delle montagne era lì a puntellarlo, a garantire una sicurezza tanto aleatoria quanto dipendente dai capricci degli dei.
Così nacque l’idea che le montagne fossero le colonne del grande tempio del cielo, idea presente in ogni cultura e civiltà. Basti pensare all’Odissea, al Libro di Giobbe, ai Rigveda. I nomadi vedevano le montagne come il palo portante della loro tenda. Il libro arabo delle Mille Domande dice che le montagne sono i chiodi della terra. Per non parlare di Atlante, il gigante che in prossimità delle Colonne d’Ercole sosteneva a spalle la colonna che separa il Cielo dalla Terra e che in seguito fu trasformato lui stesso nella catena di montagne omonima. In Cina sono addirittura quattro, situate in quattro opposti punti cardinali, le montagne che reggono il mondo: basta una piccola oscillazione per avere lutti, tragedie o nuove creazioni […].

(Alessandro Gogna, Le colonne del cielo, da “GognaBlog”, 1 settembre 2014. Cliccate qui per leggere il testo nella sua interezza.)

La manifestazione del “sacro” autentico, nel paesaggio

[Foto di Pascal Debrunner da Unsplash.]
Credo che chiunque riveli in sé almeno un poco di sensibilità – cosa che peraltro, a mio modo di vedere, fa parte del “minimo necessario” per potersi considerare esseri umaninon possa non percepire nel paesaggio la manifestazione di una sacralità assoluta. Ma niente di teologico o religioso, sia chiaro – anzi: ciò è quanto maggiormente può svilire quella manifestazione – come nemmeno di meramente estetico, solo legato alla percezione (pur possente ed emozionante) della bellezza naturale del paesaggio e neanche di “sovrannaturale” – definizione in fondo utile a noi uomini quando qualcosa in Natura sfugga alla nostra comprensione o all’immaginazione (e quanto poco ancora la conosciamo, la Natura!)

No, è invece qualcosa di ben presente nel paesaggio stesso, in forma tangibile e non immateriale (semmai siamo ancora noi che nell’individuare – anche inconsciamente – tale sacralità, tentiamo di definirla attraverso forme cognitive inesorabilmente immateriali), che ne determina la forma, l’armonia geomorfologica, il senso, il valore filosofico e di conseguenza la percettibilità da parte nostra – che potrà essere più fisica ovvero maggiormente spirituale e mistica, appunto, ma è una faccenda nostra, questa, non del paesaggio che la genera.

Nel riflettere su ciò, mi torna in mente la visione panteista di Giovanni Segantini, quando il grande artista affermava che “Non cercai mai un Dio fuori di me perché ero persuaso che Dio fosse in noi e che ciascuno di noi è parte di Dio come ciascun atomo è parte dell’Universo”, ove tuttavia l’uso del vocabolo “Dio” voleva esprimere un concetto di “entità divina” del tutto antitetico a quello teologico-religioso cristiano e semmai più affine alla concezione buddista, se non ad una vera e propria visione – di matrice pagana – di Natura quale espressione “divina” dacché essa stessa sede del “divino”.

Giovanni Segantini, “Trittico della Natura o delle Alpi: la Natura”, 1898-1899.

Ma anche se, ribadisco, la metafora divina di Segantini può risultare fuorviante, di sicuro egli comprese perfettamente la cognizione (lo dimostra in quelle parole sopra citate, portate sovente ad esempio del suo panteismo “misticamente laico”) che la sacralità assoluta del paesaggio è in fondo presente anche in noi, se sappiamo coglierla e manifestarla – e Segantini certamente lo fece da par suo, attraverso la propria meravigliosa arte. Il che comporta che riuscire a fare questo è in fondo, a sua volta, una grande manifestazione dell’umana sensibilità di cui dicevo in principio nonché, ad un livello più pratico ovvero antropologico, del legame che dobbiamo palesare nei confronti del territorio e dell’ambiente da noi abitato – della Terra, insomma. È il divenire parte dell’Universo come ciascun atomo, per citare ancora Segantini, dunque è il rivelarsi creature “divine” – noi sì, antiteticamente a qualsiasi pretesa e presunta entità teologica, comunque troppo “umana” per risultare credibile e dunque troppo “meschina”, in senso concettuale, nei confronti del paesaggio (ecco perché affermavo che una visione dottrinale religiosa del paesaggio finisce per svilire la sua naturale sacralità).

Di contro, non riuscire in tutto ciò, oltre a quanto affermavo all’inizio di questa dissertazione, temo rappresenti la nostra personale parte di responsabilità in una sostanziale “negazione” del paesaggio e della sua sacralità, ovvero in un possibile, catastrofico sfacelo finale. Che peraltro facilmente non cancellerà il paesaggio, la sua sacralità e la grande bellezza che manifesta, ma cancellerà chi doveva e poteva godere – o ne avrebbe dovuto consapevolmente godere: noi esseri umani.

Una croce diabolica sul Monte Baldo

«È cosa comune l’errare; è solo dell’ignorante perseverare nell’errore» scrive Cicerone nelle Filippiche: affermazione che precede quella più d’uso comune, oggi, che indica il perseverare nell’errore come atto diabolico. Be’, quale iniziativa più rappresentativa e consona a queste antiche saggezze se non l’ostinarsi nel piazzare in cima alle montagne orribili manufatti di varia natura e imponenza a forma di croce?

Iniziativa vergognosa, biecamente strumentale, oltraggiosa sotto ogni punto di vista e, per paradosso d’altro canto culturalmente congenito all’ambito dal quale proviene, svilente il concetto stesso di “fede”. E altrettanto rappresentativo dell’ignominia di queste opere è il progetto della croce, alta ben 18 metri, che si vorrebbe piazzare su una delle sommità del Monte Baldo. Uno scempio assoluto, materialmente e immaterialmente ovvero nel senso, nel concetto, nei principi alla base di queste realizzazioni, alle quali da tempo, nel mio piccolo-piccolo, mi oppongo in ogni modo – potete leggere qui, ad esempio, una mia iniziativa al riguardo e qui un altro articolo sul tema.
Veramente i credenti (?) pensano di promuovere e salvaguardare il proprio credo (?) con cose del genere, così primitive, così insulse, prepotenti e infestanti? Un’assurdità totale, ribadisco, anche e soprattutto dal punto di vista religioso.

Invito chiunque tenga alla salvaguardia dei territori di pregio che abbiamo a disposizione, all’ambiente, al paesaggio, alla sua bellezza, alla valenza culturale e alla relazione fondamentale che possiamo e dobbiamo avere con esso, a firmare la petizione attiva sulla piattaforma Change.org (anche cliccando sull’immagine in testa a questo post) per fermare quel folle progetto nonché, mi auguro, ogni altro simile in qualsiasi altro luogo. Questo sì, è un atto sacrosanto da compiere, e un’azione di alto valore civico e culturale. O se preferite, più semplicemente, di umanissimo buon senso, ecco.

Sulla “sacralità” del Paesaggio

Credo che chiunque riveli in sé almeno un poco di sensibilità – cosa che peraltro, a mio modo di vedere, fa parte del “minimo necessario” per potersi considerare esseri umaninon possa non percepire nel paesaggio la manifestazione di una sacralità assoluta. Ma niente di teologico o religioso, sia chiaro – anzi: ciò è quanto maggiormente può svilire quella manifestazione – come nemmeno di meramente estetico, solo legato alla percezione (pur possente ed emozionante) della bellezza naturale del paesaggio e neanche di “sovrannaturale” – definizione in fondo utile a noi uomini quando qualcosa in Natura sfugga alla nostra comprensione o all’immaginazione (e quanto poco ancora la conosciamo, la Natura!)

No, è invece qualcosa di ben presente nel paesaggio stesso, in forma tangibile e non immateriale (semmai siamo ancora noi che nell’individuare – anche inconsciamente – tale sacralità, tentiamo di definirla attraverso forme cognitive inesorabilmente immateriali), che ne determina la forma, l’armonia geomorfologica, il senso, il valore filosofico e di conseguenza la percettibilità da parte nostra – che potrà essere più fisica ovvero maggiormente spirituale e mistica, appunto, ma è una faccenda nostra, questa, non del paesaggio che la genera.

Nel riflettere su ciò, mi torna in mente la visione panteista di Giovanni Segantini, quando il grande artista affermava che “Non cercai mai un Dio fuori di me perché ero persuaso che Dio fosse in noi e che ciascuno di noi è parte di Dio come ciascun atomo è parte dell’Universo”, ove tuttavia l’uso del vocabolo “Dio” voleva esprimere un concetto di “entità divina” del tutto antitetico a quello teologico-religioso cristiano e semmai più affine alla concezione buddista, se non ad una vera e propria visione – di matrice pagana – di Natura quale espressione “divina” dacché essa stessa sede del “divino”.

Giovanni Segantini, “Trittico della Natura o delle Alpi: la Natura”, 1898-1899.

Ma anche se, ribadisco, la metafora divina di Segantini può risultare fuorviante, di sicuro egli comprese perfettamente la cognizione (lo dimostra in quelle parole sopra citate, portate sovente ad esempio del suo panteismo “misticamente laico”) che la sacralità assoluta del paesaggio è in fondo presente anche in noi, se sappiamo coglierla e manifestarla – e Segantini certamente lo fece da par suo, attraverso la propria meravigliosa arte). Il che comporta che riuscire a fare questo è in fondo, a sua volta, una grande manifestazione dell’umana sensibilità di cui dicevo in principio nonché, ad un livello più pratico ovvero antropologico, del legame che dobbiamo palesare nei confronti del territorio e dell’ambiente da noi abitato – della Terra, insomma. È il divenire parte dell’Universo come ciascun atomo, per citare ancora Segantini, dunque è il rivelarsi creature “divine” – noi sì, antiteticamente a qualsiasi pretesa e presunta entità teologica, comunque troppo “umana” per risultare credibile e dunque troppo “meschina”, in senso concettuale, nei confronti del paesaggio (ecco perché affermavo che una visione dottrinale religiosa del paesaggio finisce per svilire la sua naturale sacralità).

Di contro, non riuscire in tutto ciò, oltre a quanto affermavo all’inizio di questa dissertazione, temo rappresenti la nostra personale parte di responsabilità in una sostanziale “negazione” del paesaggio e della sua sacralità, ovvero in un possibile, catastrofico sfacelo finale. Che peraltro facilmente non cancellerà il paesaggio, la sua sacralità e la grande bellezza che manifesta, ma cancellerà chi doveva e poteva godere – o ne avrebbe dovuto consapevolmente godere: noi esseri umani.