Martin Pollack, “Paesaggi contaminati. Per una nuova mappa della memoria in Europa”

Chiunque si occupi di paesaggi sa bene che, al netto dell’accezione popolare con la quale il termine viene usualmente inteso cioè quale sinonimo di “territorio” o “luogo”, ogni paesaggio compendia nel proprio senso gli aspetti materiali di un dato spazio vissuto e quelli immateriali determinati dall’elaborazione culturale che di esso facciamo, e in forza di tutto ciò rappresenta un palinsesto di scritture che nel corso del tempo l’uomo ha impresso sul territorio naturale, sovrapponendo le une alle altre, riscrivendole di continuo e cancellando quelle più antiche ma a volte pure altre più recenti. In certi casi capita che, tra le cose non più leggibili e visibili ma affascinanti che formano un bel paesaggio (le rilevanze storiche e archeologiche, ad esempio), ce ne possano essere alcune di natura opposta, niente affatto belle e piacevoli, in qualche caso rimandanti a «oscuri segreti» nascosti alla percezione e alla memoria di chi oggi vive e frequenta quel paesaggio, ritenendolo in tutto e per tutto idilliaco.

In Paesaggi contaminati (Keller Editore, 2016, traduzione di Melissa Maggioni, orig. Kontaminierte Landschaften, 2014) lo storico e scrittore austriaco Martin Pollack ci dimostra come ciò che ho appena affermato è circostanza spaventosamente frequente, in Europa, il continente che è la culla della civiltà moderna e contemporanea e al contempo, ovvero nonostante ciò, la parte del mondo che ha subìto più di molte altre la tragedia di innumerevoli guerre e conseguenti massacri. Una storia oscura che tuttavia oggi appare pressoché invisibile, se non fosse per la presenza di alcuni luoghi commemorativi e per un bagaglio di memoria che tuttavia diventa sempre più svanente, non solo per l’ineluttabile corso del tempo ma pure per una nostra colpevole trascuratezza nei confronti del valore della memoria storica per il presente e il futuro []

(Potete leggere la recensione completa di Paesaggi contaminati cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

 

Freud e la “guerra genetica”

P.S. – Pre Scriptum: questo è un post che in origine pubblicai qui sul blog 4 anni fa, il 12 aprile 2018, quando la guerra in Siria raggiungeva il proprio apice di barbarie bellica. Oggi, che “la Siria” ce la siamo portata nel mezzo dell’Europa, torna drammaticamente valido.

[Il centro commerciale Podilskyi District di Kiev distrutto da un bombardamento delle forze armate russe, 20 marzo 2022. Foto di Kyivcity.gov.ua, CC BY 4.0, fonte: commons.wikimedia.org.]

Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggior forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse realizzarla. Presto la forza muscolare è accresciuta o sostituita dall’uso di certi strumenti; vince chi possiede le armi migliori o chi le adopera con maggior destrezza. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle proprie forze, è costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni o opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, cioè lo uccide.

(Sigmund FreudLe ragioni profonde della guerra in Lettera a Einstein, settembre 1932, in Opere, Torino, Boringhieri, 1966-1978, vol. XI, pp. 293 e sgg.)

Nel 1931 il Comitato sull’Arte e Letteratura della Lega delle Nazioni propose ai più noti intellettuali dell’epoca di iniziare una corrispondenza epistolare su diversi temi; fra di essi, Sigmund Freud e Albert Einstein discussero intorno al tema della guerra. Gli scritti di Freud, che comunque riprendono concetti già espressi in sue opere precedenti, vennero poi raccolti in Perché la guerra? e sono considerati in gran parte premonitori della successiva ascesa del nazismo in Germania e degli eventi della Seconda Guerra MondialeFreud, al contrario di Einstein, affermò l’impossibilità della fine delle guerre, in quanto l’aggressività, fondamento di ogni guerra, è radicata nell’uomo.

Per cui, se così si può dire, non è dunque la guerra il problema – Freud docet. Dobbiamo farcene una ragione o quanto meno meditarci sopra per bene, e sotto ogni punto di vista.

Una protesta vibrante

Egr.mo Dio,

mi permetto di disturbarti con questa mia lettera ma, perdonami se sono tanto franco, devo rimarcarti con decisione che la misura è ormai colma.

Mi sembra che fin dalla notte dei tempi i patti tra noi fossero chiari: tu eri il bene, io il male. Io facevo commettere peccati d’ogni sorta, anche i più turpi e abietti, tu redimevi, affrancavi, salvavi. Un accordo semplice e lineare, senza possibilità di dubbi.

E invece sono più di venti secoli che quei tuoi rappresentanti terreni, quelli i cui vertici stanno in Vaticano, a Roma, peccano alla grande e combinano cose che, francamente, imbarazzerebbero pure me. Falsità e ipocrisie a gogò, ruberie, simonie, traffici sporchi che di più non si può, guerre sante, repressioni violente, massacri, genocidi, e poi ancora oggi scandali d’ogni genere, ladrocini, pedofilia, nel frattempo stringendo sodalizi coi peggiori e più sanguinari dittatori o con le organizzazioni malavitose… Eccheccazzo! (Scusami, ma quando ci vuole ci vuole, e poi sono “demoniaco”, lo sai.) E poi tu saresti il bene e io il male? Io? Ma se al vostro confronto sembro un’ingenua educanda, che a momenti mi si rammolliscono pure le corna, per la vergogna!

Mi verrebbe da dire che ho un diavolo per capello ma mi sembrerebbe di essere fin troppo autoreferenziale – anche in tal caso, in maniera ben diversa da ciò che siete voi.

No, mi spiace ma così non si può andare avanti. O i patti si rispettano – ma non mi pare che vi sia da parte tua e dei tuoi la volontà di farlo, anzi! – o si rimettono le cose nel giusto e più obiettivo equilibrio, sancendo da che parte veramente stia il bene e da che parte il male. E non ci vuole molto impegno o chissà quale documentazione comprovante: basta leggere e considerare la storia, passata e attuale.

Altrimenti, molto sinceramente, mi toccherà passare dalle parole ai fatti e, attraverso i miei legali, chiederti i danni materiali, morali e d’immagine per tutti questi secoli di ipocrisie, che stanno pure continuando senza sosta lasciandomi ben poca speranza riguardo un eventuale vostro cambiamento di rotta futuro.

Attendo tuoi solleciti riscontri a queste mie rimostranze e, con l’occasione, porgo i più diabolici saluti.

F.to: Satana.

(Nell’immagine, un articolo de “L’Espresso” su uno degli ultimi scandali che sta scuotendo le mura vaticane. Cliccateci sopra per saperne di più.)

La Rabbia Saudita

Oggi i media internazionali (ma non quelli italiani se non in rarissimi casi, e poi capirete il perché) riportano la notizia che

La coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita è stata inserita nella lista nera dell’ONU [dei paesi che violano i diritti umani in particolare dell’infanzia], anche se le viene riconosciuto di aver messo in atto misure per migliorare la protezione dei bambini.

E’ un fatto assolutamente emblematico di come giri il mondo contemporaneo, a mio modo di vedere. E, per la cronaca, non gira affatto dritto.

Infatti, se la suddetta lista nera dell’ONU sancisce uno stato di fatto risaputo riguardo la “cura” (ovvero la repressione) dei diritti umani in Arabia Saudita – al punto da “costringere” molti a salutare come una “vittoria” la recente concessione alle donne di guidare autovetture, che a me invece pare tanto una sonora e ipocrita presa per i fondelli – nel sentire stamani la notizia nelle rassegne stampa internazionali non ho potuto istantaneamente pensare ad alcuni elementi assai significativi al riguardo, appunto:

  • In primis la carica di Faisal bin Hassan Thad, ambasciatore dell’Arabia Saudita presso le Nazioni Unite, come presidente del comitato consultivo del Consiglio Onu dei Diritti Umani, l’organismo tecnico delle Nazioni Unite ha il compito di indicare buone pratiche e indirizzi agli esperti di difesa delle libertà umane fondamentali. Un’assurdità bella e buona, palesemente.
  • Il fatto che l’Arabia Saudita era e resta il Paese arabo che nell’ultimo anno solare ha speso di più in armi.Non solo. Riyad, impegnata militarmente contro i ribelli Houthi (sciiti)  in Yemen, in  questa poco onorevole classifica si piazza al quarto posto nel mondo con un budget per la Difesa di 62,7 miliardi di dollari (il più imponente della regione). È quanto riporta l’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Leggete qui maggiori dettagli al riguardo oppure qui.

  • E chi ha notevolmente aumentato il volume della vendita di armi all’Arabia Saudita? L’ItaGlia, esatto. Il che, io credo, spiega almeno in parte perché la notizia citata all’inizio di questo post è pressoché assente sui media italioti. Complimenti come sempre alla meschina nonché viscida furberia nazionale, eh!
  • Ma in fondo, a comportarsi in questo modo non è certamente sola, l’ItaGlia. Non serve infatti rimarcare come l’Arabia Saudita sia da tempo considerata uno dei migliori alleati in senso assoluto dell’Occidente. Un’alleanza assolutamente riconfermata di recente dall’attuale Presidente USA, al quale proprio in queste ore si è accodato il Presidente russo in carica.

Ecco. Questo è il pianeta Terra, anno 2017. O meglio: questa è la “civiltà” umana, quella formata dagli esseri più “intelligenti” e “avanzati” del pianeta – per autoproclamazione. Fate voi!

P.S.: l’immagine in testa al post è © Mohammed Huwais, Afp.

25 aprile cosa?

Già da un po’ di tempo volevo scrivere qualcosa circa una questione culturale profondamente “italiana” che ritengo fondamentale tanto quanto sostanzialmente ignorata – anzi, evitata… Poi, per una di quelle “coincidenze” dal tempismo pressoché perfetto, ho letto Trans Europa Express di Paolo Rumiz – libro di cui a breve potrete leggere la personale “recensione”, qui sul blog –  nel quale ho trovato questo passaggio (pagg.120-121):

La memoria: ecco il tema chiave. Se la Germania ha pilotato il suo allargamento è anche perché ha ammesso le sue colpe storiche, e questa ammissione l’ha resa leggera e meno ambigua anche in territori dove ha compiuto i peggiori stermini. L’Italia no. L’Italia continua a far finta di non essere stata fascista e di aver vinto la guerra. Invece è stata fascista eccome; e ha perso la guerra, proprio nelle mie terre. La Germania ha fatto dei suoi “giorni della memoria” il tempo della responsabilità e del pentimento. Da noi, la parola memoria fa quasi sempre rima con autoassoluzione. Vi prego, non parlatemi di “italiani brava gente” perché abito sul luogo del misfatto. (…) L’Italia non ha avuto la sua Norimberga. Ecco perché non ha l’autorevolezza per chiedere ai vicini di fare pulizia nella loro memoria.

La questione culturale a cui facevo cenno poco fa l’avrete capita: in più di 70 anni l’Italia non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato, non s’è mai assunta – come comunità civile e politica – le proprie responsabilità, non ha mai realmente meditato su ciò che è successo ricavandone qualche buon insegnamento. Tutt’altro: rapidamente, fin dal primo dopoguerra, ha fatto come se nulla fosse accaduto – dice bene Rumiz – anzi, ha pure cronicizzato quelle problematiche ideologico-politiche scaturite dal periodo fascista rendendole ordinarie, normali, pur dopo così tanto tempo. Le polemiche in corso per questo ulteriore 25 aprile – solite, ormai, anno dopo anno – polemiche inconsistenti, stupide, infantili, rozze, dimostrano una volta ancora la realtà effettiva della situazione. Da una parte beceri neofascisti che paiono rimasti fermi al ventennio mussoliniano contrapposti ad antifascisti a loro volta bloccati in un antagonismo pseudo-partigiano, né più né meno come fossero le tifoserie di due squadre di calcio rivali – perché alla fine tutto, in questo nostro miserrimo paese, si riduce a comportamenti del genere: bandiere, campanili(smi), orticelli. Peggio che all’asilo, appunto. Si continua a inneggiare da una parte e dall’altra a periodi storici morti e sepolti senza provare nemmeno per un attimo a comprendere che l’orologio della storia nel frattempo ha continuato a girare, e lo ha fatto in maniera inversamente proporzionale alle rotelle del cervello di certa gente, la quale nemmeno per un attimo sembra tentare di fermarsi un momento, riflettere, elaborare, capire, ricontestualizzare il retaggio culturale scaturente da quel periodo storico al tempo presente, imparare, assimilare e solo dopo tutto ciò (ri)provare a dire qualcosa al riguardo. No, giammai! – tutti fermi, nemmeno arrivati al 26 aprile ’45, tutti fossilizzati sulle solite stupide parole convenzionali, sui soliti “se ci vanno loro non ci vado io!”, su quei ridicoli saluti romani o sui cori intonanti “Bella ciao”… E tutto il resto? Dov’è?

Dice bene Rumiz: ove la Germania ha fatto dei suoi “giorni della memoria” il tempo della responsabilità e del pentimento, l’Italia fa di essi il tempo del rinnovato scontro, della becera polemica, dell’ennesima dimostrazione della scempiaggine della classe politica (a sua volta incapace di fare i conti con la storia nazionale e di essere dunque da esempio per la cittadinanza… tutt’altro! È la prima a fare baccano! D’altro canto, al solito: ogni popolo ha i governanti che si merita!) ovvero il momento nel quale il paese, piuttosto che dimostrare la sua maturità civica e sociale, riesce per l’ennesima volta a dare il peggio di sé.

Ma, io temo (anzi, ne sono convinto), a ben vedere l’Italia non può fare i conti con la propria storia, ricavandone la più virtuosa memoria… a parte che la memoria qui nemmeno si sa cosa sia (tanti italiani neppure sanno cosa esattamente si festeggi, oggi!), il fatto che un paese decida di intraprendere un processo di assunzione di consapevolezza e responsabilità storica riguardo il proprio passato oscuro presuppone inevitabilmente che un paese ci sia, che ci sia una società civile considerabilmente tale, ben identificabile in senso civico, appunto, antropologico, culturale… Cosa aveva affermato (si dice) Massimo D’Azeglio, quasi due secoli fa? “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, no? Ecco: siamo ancora qui, come tanti bambini rognosi che continuano a litigare su di chi sia il pallone per giocare quando quel pallone è sgonfio da decenni.
Se ci sarà qualcosa da festeggiare realmente, d’ora in poi, in una giornata detta “della Liberazione”, sarà la finalmente ottenuta libertà da qualsiasi ottenebramento “nazional-mentale”, ovvero dalla ancora profonda immaturità civica che contraddistingue la comunità sociale di questo paese, incapace di voltarsi a guardare nel suo passato e, al contempo (ma pure per conseguenza inesorabile), totalmente miope nella visione del proprio futuro.

Tornerò ancora e presto, su tale argomento. Perché dobbiamo pur renderci conto di quanto sia grave tale situazione. Per il nostro bene, per il bene prossimo dell’Italia.