Il paesaggio è una tela euclidea tesa sull’orizzonte

[Foto di StockSnap da Pixabay.]

Un paesaggio – ogni vagabondo che gli sta seduto davanti con l’anima vuota lo sa – è una tela euclidea tesa sull’orizzonte, sulla quale sono compressi e ridotti su un unico piano i milioni di eventi concorsi alla trasformazione del quadro, un accumulo di strati di Storia ridotti a un unico istante, una storia che avrebbe fatto a meno del dispiegarsi del tempo. Come un disco è una superficie piana che contiene in potenza una sinfonia, il paesaggio è un quadro che contiene in potenza la compressione immaginaria di secoli di sconvolgimenti. La geografia è la chiave che permette di srotolare il filo del tempo reale.

[Sylvain Tesson, Piccolo trattato sull’immensità del mondo, Piano B Edizioni, 2024, traduzione di Anna Faro, pagg.73-74. Trovate la mia “recensione” al libro qui.]

Aggiungo solo una cosa – fondamentale, per me – ai pensieri di Tesson: il paesaggio così ben definito, che è esteriore, nel viaggiatore consapevole che vi vagabonda diventa il paesaggio interiore. È ciò che genera e alimenta la relazione tra il viaggiatore e il luogo attraversato e fa del primo un elemento “significativo” del paesaggio, per quei momenti (pochi o tanti che siano) nei quali vi sta. Cioè, ciò che può far dire di essere veramente stati in un luogo.

Ma vi immaginate quanto prodigiosa è questa cosa? Tutto quello che scrive Tesson del paesaggio, che si riflette dentro chi lo attraversa?

Un prodigio, appunto. Che il viaggiatore autentico conosce bene.

Sylvain Tesson, “Piccolo trattato sull’immensità del mondo”

Ogni viaggiatore che si rispetti, cioè che si possa definire autenticamente tale, sa benissimo che l’infinito comincia appena oltre la punta dei propri piedi, e dunque che ogni passo compiuto rappresenta già l’esplorazione dell’immensità, che rappresenta la dimensione dell’infinito. Per questo motivo, ciascun singolo passo compiuto è già in potenza un viaggio verso l’infinito: non conta tanto la distanza percorsa e la lontananza dal punto di partenza quanto la predisposizione all’immensità, che in fondo è ciò che sostenne anche Fernando Pessoa con quel suo celeberrimo «I viaggi sono i viaggiatori», solo detto in altre parole. Una predisposizione che, appunto, ogni viaggiatore autentico coltiva incessantemente nel proprio animo.

Tuttavia l’immensità, se appare difficilmente definibile in senso materiale (non sappiamo e sapremo mai dire ovvero stabilire quanto sia vasto l’infinito), non può restare indefinita nella mente del viaggiatore che la esplora: come detto, è una dimensione in tutto e per tutto tuttavia immateriale, più filosofica che geografica ma comunque referenziale, che il viaggiatore stesso definisce in base al senso del proprio viaggiare, al valore ineludibile per la propria esistenza che egli vi conferisce e alla relazione spirituale che elabora con il viaggio (si veda Pessoa, ribadisco) e con ciò che ne ricava. Il viaggio in effetti è una pratica per imparare a conoscere il mondo e, come sostiene quel noto detto, di imparare non si finisce mai: un apprendimento a sua volta infinito, dunque, un cerchio che si chiude riaprendosi ogni volta come ogni fine di un viaggio che rappresenta l’inizio del successivo.

Un viaggiatore che più di tanti altri ha interpretato a modo suo la citata affermazione di Pessoa, facendo del viaggio una pratica di apprendimento del mondo e al contempo di definizione di se stesso rispetto al mondo “ viaggiato” è Sylvain Tesson, scrittore francese autore di alcuni dei maggiori best seller nella produzione editoriale di viaggio degli ultimi anni come La Pantera delle Nevi, Nelle Foreste Siberiane e Sentieri Neri. A proposito di dimensioni filosofiche del viaggiare, in  Piccolo trattato sull’immensità del mondo (Piano B Edizioni, 2024, traduzione di Anna Faro; originale Petit traité sur l’immensité du monde, 2005; 1a edizione italiana Guanda, 2006) racconta e delinea la propria filosofia personale alla base dei viaggi compiuti o, per meglio dire – anzi, meglio direbbe Tesson – dei vagabondaggi effettuati in varie parti del mondo, con una predilezione per quelli a cavallo tra la Russia europea e l’Asia centrale (intervallati da varie ascese alpinistiche nelle Alpi, una sorta di verticalizzazione del vagabondare sulla base degli stessi principi di quello “orizzontale”).

In tal senso la figura che Tesson prendere come riferimento è quella del Wanderer, termine tedesco e ideale di origine ottocentesca che indica non tanto il vagabondo in senso generale quanto il viandante intriso degli ideali romantici che va per il mondo avendo come unico obiettivo la ricerca della bellezza, ovunque essa si nasconda []

[Immagine tratta da www.segnalibro.net.]
(Potete leggere la recensione completa di Piccolo trattato sull’immensità del mondo cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

 

Sylvain Tesson, “La Pantera delle Nevi”

Come la precedente qui pubblicata, anche questa che state per leggere è una “recensione” sui generis. Questo perché qualche tempo fa ho letto La Pantera delle Nevi, il libro di Sylvain Tesson (Sellerio Editore, 2020, traduzione di Roberta Ferrara; orig. La panthère des neiges) per presentare l’omonimo film uscito nelle sale italiane lo scorso ottobre, dunque per diversi aspetti ciò che ne ho scritto rappresenta una “recensione” sia del libro che della pellicola – cosa che peraltro ci sta, vista la stretta correlazione narrativa, espressiva e artistica tra le due opere. Per lo stesso motivo, se quanto leggerete potrà interessarvi – come mi auguro – al libro, l’invito è comunque quello di vedere prima o poi anche il film, così da rendere completa e compiuta la conoscenza de La Pantera delle Nevi e l’importante esperienza che senza dubbio ne trarrete.

Ma partiamo dalla protagonista assoluta: la pantera delle nevi, o leopardo delle nevi / Panthera uncia: “uncia” deriva dal francese once (italianizzato in onza) inizialmente usato per indicare la lince europea e poi in generale i felini delle dimensioni della lince. Venne individuata per la prima volta nel 1775 da un naturalista tedesco, Johann Christian Daniel von Schreber. Nonostante il suo nome ordinario “leopardo”, è più imparentata con la tigre che con il leopardo propriamente detto.

La pantera delle nevi è uno degli animali più elusivi e misteriosi del mondo, al punto che non se ne conosce con precisione la quantità. Ce ne dovrebbero essere ancora 4-6.000 individui dei quali solo 2.500 in età riproduttiva, dunque è una specie sicuramente in pericolo. È stata a lungo cacciata per la sua pelliccia e solo dagli anni ’80 è protetta in modo ampio. Ma tutt’oggi deve affrontare numerose minacce antropiche: oltre al bracconaggio e alla caccia di frodo, la mancanza di salvaguardia dell’ambiente naturale e le attività industriali-minerarie che disturbano la vita della pantera e la allontanano da molte aree del suo habitat tipico. Il fotografo Vincent Munier e l’autore Sylvain Tesson partono nel 2018, con la regista Marie Amiguet e un collaboratore, per un viaggio di circa un mese negli altipiani tibetani, a quote tra i 4 e i 6000 metri e temperature raramente superiori ai -20° C, alla ricerca della misteriosa creatura… Perché proprio la pantera delle nevi? Perché la sua elusività e il mistero che l’accompagna, nel nostro mondo contemporaneo iperantropizzato, ultratecnologico e che pensiamo/crediamo di conoscere sotto ogni aspetto, simboleggia come poche altre cose ancora la natura selvaggia e un ambito vitale nel quale l’uomo è quasi del tutto assente, dunque un abito che preserva caratteristiche biologiche ma anche filosofiche intatte da decine di migliaia di anni []

[Sylvain Tesson, a destra, con Vincent Munier in una scena del film.]
(Potete leggere la recensione completa de La Pantera delle Nevi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Il selvaggio ci tiene d’occhio

Il giardino dell’uomo è popolato di presenze. Non sono ostili ma ci tengono d’occhio. Niente di quello che facciamo sfugge alla loro attenzione. Gli animali sono i guardiani del giardino pubblico, dove l’uomo gioca col cerchio credendosi il re. Era una scoperta, e nemmeno tanto sgradevole. Ormai sapevo di non essere solo.
Séraphine de Senlis era una pittrice dell’inizio del XX secolo, un’artista per metà pazzoide e per metà geniale, un po’ kitsch e non molto quotata. Nei suoi quadri, gli alberi erano cosparsi di occhi spalancati.
Hieronymus Bosch, il fiammingo dei retromondi, aveva intitolato una sua incisione Il bosco ha orecchi, il campo ha occhi. Aveva disegnato dei globi oculari sul terreno e due orecchie umane sul limitare di una foresta. Gli artisti lo sanno: il selvaggio vi tiene d’occhio senza che ve ne accorgiate. Quando il vostro sguardo lo scopre, lui sparisce.

[Sylvain TessonLa pantera delle nevi, Sellerio, 2020, traduzione di Roberta Ferrara, pagg.50-51; orig. La panthère des neiges, 2019.]

N.B.: nell’immagine in testa al post, scattata dal fotografo naturalista francese Vincent Munier e tratta dal docufilm La pantera delle nevi, del quale ho scritto (e non solo) qui, c’è un animale selvaggio che vi sta guardando dritto negli occhi. Lo vedete?

Il gioco scorretto dell’uomo

[Immagine tratta dal web.]

Definizione dell’uomo: la creatura più prospera nella storia degli esseri viventi. In quanto specie, non ha nemici naturali: dissoda, costruisce, si espande. Dopo aver conquistato nuovi spazi, vi si affolla. Le sue città salgono verso il cielo. «Abitare il mondo da poeti» aveva scritto un poeta tedesco nel XIX secolo. Era un bel progetto, una speranza ingenua che non si era realizzata. Nelle sue torri, l’uomo del XXI secolo abita il mondo da coproprietario. Ha vinto la partita, pensa al suo avvenire, ha già messo gli occhi sul prossimo pianeta dove spedire gli esuberi. Presto gli «spazi infiniti» diventeranno la sua discarica. Qualche millennio prima, il Dio della Genesi (le cui parole erano state annotate prima che diventasse muto) era stato preciso: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta» (I, 28). Si poteva ragionevolmente pensare (senza offesa per il clero) che il programma era stato interamente svolto, che la Terra era stata «assoggettata» e che ormai era tempo di mettere a riposo la matrice uterina. Noi uomini eravamo otto miliardi. Restavano alcune migliaia di pantere. L’umanità non faceva un gioco corretto.

[Sylvain Tesson, La pantera delle nevi, Sellerio, 2020, traduzione di Roberta Ferrara, pagg.83-84; orig. La panthère des neiges, 2019.]

Il gioco scorretto che l’uomo pratica fin dall’inizio della sua civiltà, e in modo crescente negli ultimi secoli, si chiama antropocentrismo. È un gioco dove egli pensare di vincere senza alcun dubbio sconfiggendo chiunque altro costringa a giocare con lui, e questa sua convinzione è così forte, e altrettanto immotivata, da non fargli rendere conto che probabilmente egli verrà sconfitto prima di qualsiasi altro giocatore. Ovvero, forse, l’uomo ha già perso da tempo, cioè proprio da quando ha cominciato a credersi indubitabilmente vincitore. Già.

P.S.: a breve, qui sul blog, potrete leggere la personale “recensione” del libro di Tesson, dal quale è tratto l’omonimo film.