Senza sapienza non c’è nemmeno preveggenza

[Immagine tratta dal video della canzone Are You Lost In The World Like Me? di Moby & The Void Pacific Choir.]

Sarebbe impossibile eliminare per un tempo prolungato tutta la tecnologia, quindi anche abiti, scarpe, viveri conservabili, alcuni semplici utensili e attrezzi, il controllo del fuoco, in quanto la nostra specie, chiamata con presunzione Homo Sapiens, è nata in una condizione in cui queste tecnologie erano già disponibili, ereditate da altre specie di Homo; senza di esse le nostre sole doti naturali non basterebbero alla sopravvivenza. Non è mai esistito un Sapiens in grado di vivere senza utensili, per quanto semplici; ed è un fatto su cui riflettere, perché la crisi che provochiamo al pianeta, oltre che a noi stessi, parte da qui. La sapienza, se ci fosse, comprenderebbe la capacità di limitare lo sviluppo tecnologico entro limiti non autodistruttivi. E se davvero esistessero inventori geniali, nel produrre un’innovazione l’accompagnerebbero con gli antidoti atti a risolvere gli squilibri che essa provocherà. L’uomo non è nato con questa preveggenza.

[Franco Michieli, Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord, Ponte alle Grazie, 2024, pag.24.]

Veramente c’è da riflettere sul fatto che non è mai esistito un Sapiens in grado di vivere senza utensili come suggerisce Franco Michieli, naturale o meno che sia. Ovvero su come la tecnologia, da elemento in grado di sancire l’effettiva superiorità dell’essere umano su ogni altra specie terrestre, sia per molti versi un fattore che ha generato un inopinato degrado della sua sapienza. Stiamo per sbarcare su Marte ma ci sentiamo persi se restiamo senza smartphone: forse una delle due cose non è così contestuale all’altra e rivela una certa profonda stortura nella nostra evoluzione. Anche per come entrambe le tecnologie, nella loro essenza, spesso e volentieri le utilizziamo per distruggere la Terra più che per renderla un posto migliore da vivere – non solo per noi.

No, decisamente senza sapienza non c’è nemmeno preveggenza.

Franco Michieli, “Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord”

È ancora possibile esplorare qualcosa sul nostro pianeta, oggi che sul web esistono innumerevoli strumenti i quali ne rivelano qualsiasi minimo angolo, anche il più lontano, in certi casi dando quasi l’impressione di esserci stati per la gran quantità di informazioni che mettono a disposizione?

Verrebbe da rispondere di no a questa domanda, sia perché, se esplorare significa scoprire cose nuove, di spazi sconosciuti sulla superficie della Terra ormai non ce ne sono più, sia perché obiettivamente non serve più farlo, appunto, avendo altri mezzi che lo consentono con raffinatezza suprema – i satelliti e le loro mappature super dettagliate, ad esempio – senza dover rischiare la pelle.

D’altro canto, forse la situazione appena descritta e in generale l’evoluzione scientifica alla quale siamo giunti rendono la domanda suddetta fuorviante e non più corretta. Ovvero: chiusa l’era dell’esplorazione geografica propriamente detta del mondo, oggi c’è probabilmente bisogno di altre “esplorazioni” atte a (ri)conoscere il pianeta sul quale viviamo, che come ogni spazio possiede certamente una finitezza e dei limiti materiali ma, ancora per chissà quanto tempo, non ne avrà di immateriali – in effetti credo che nessuno possa dire di sapere tutto ciò che c’è da conoscere del nostro mondo, anzi, di cose da scoprire ce ne sono un’infinità, non è così difficile immaginarlo. E una delle nozioni fondamentali che ancora conosciamo molto poco o, per meglio dire, della quale ignoriamo la gran parte del valore culturale (e non solo) che possiede, riguarda noi – esseri umani, Sapiens – rispetto al mondo che viviamo, la nostra relazione con esso, con i suoi ambienti, con i suoi paesaggi. In parole povere: abbiamo esplorato praticamente tutto il mondo, ma quanto abbiamo esplorato ed esploriamo noi stessi in relazione a questo nostro mondo?

Franco Michieli, che “esploratore” propriamente detto lo è e tra gli italiani più rinomati – oltre che geografico, alpinista, scrittore – ha intrapreso la propria attività esplorativa ai quattro angoli del mondo sviluppandone col tempo un’elaborazione interiore che si è fatta prima complementare a quella meramente geografica e poi preponderante: una nuova modalità di esplorazione lungo le vie (spesso invisibili, appunto) che corrono tra i paesaggi esteriori e quelli interiori le quali dei primi si fanno rappresentazione sempre più intensa e profonda fino a che, per così dire, la dinamica si ribalta e sono i secondi a “rielaborare” i paesaggi fisici. Questo lungo percorso di duplice affinamento della pratica esplorativa Michieli lo ha soprattutto sviluppato nelle terre del Grande Nord, percorse fin dall’età di vent’anni e poi innumerevoli volte, così diventate territori dell’anima più di ogni altro, con i quali ha sviluppato un legame particolare e profondo. Alcuni dei suoi più significativi viaggi iperborei Michieli li ripercorre in Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord (Ponte alle Grazie, 2024): dalla Norvegia alla Groenlandia, dalle Lofoten alle Shetland all’Islanda, prima attraverso una modalità esplorativa tradizionale con carte e bussola e poi, come accennato, elaborando la propria peculiare “nuova” esplorazione, senza più alcun strumento di navigazione e con il solo uso dei segni naturali, dei sensi, dell’istinto e di eventuali mappe mentali, esattamente come facevano gli esploratori fino a qualche secolo fa, nell’epoca precedente all’invenzione degli strumenti suddetti []

(Potete leggere la recensione completa di Le vie invisibili cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Shackleton, una leggenda imperitura

[Shackleton durante la Spedizione Nimrod in Antartide del 1908.]
Leggo su “Il Post” che è stato trovato il relitto della Quest, la nave sulla quale il 5 gennaio 1922 morì il celebre esploratore Ernest Shackleton. La Quest affondò nel 1962 durante una battuta di caccia alla foca mentre navigava al largo delle coste del Labrador, in Canada, dopo essere rimasta intrappolata e schiacciata dal ghiaccio marino, subendo così una sorte simile all’altra celebre nave di Shackleton, la leggendaria Endurance (ritrovata nel 2022 a cento anni esatti dalla morte dell’esploratore).

[La “Quest” nel 1921.]
Ogni volta che si legge da qualche parte il nome Shackleton vengono alla mente non solo paesaggi polari di infinita vastità, ghiacci a perdita d’occhio e un’idea che si associa al termine “avventura” come pochissime altre, ma è lo stesso Shackleton a illuminarsi di nuovo della propria leggenda, e sempre vividamente, nel pensiero di tanti. Fu uno degli ultimi grandi esploratori nel senso originario del termine, quelli che ancora ebbero da esplorare parti della Terra dove mai nessuno prima era giunto, e fu un uomo dalla tempra e dalla volontà d’acciaio ma pure un sognatore, un genio, per certi aspetti un pazzo e comunque una figura il cui carisma ancora oggi è assai fulgido, al punto che ogni cosa riguardi la sua vita e le imprese compiute fa notizia in giro per il mondo.

[La nave “Endurance” in Antartide nel 1915.]
Poi, a me, viene anche in mente un libro dei tanti scritti sul grande esploratore britannico, che spiega in modo mirabile com’è nata la leggenda attorno alla sua figura, e questa è l’occasione buona per consigliarvelo: La lunga notte di Shackleton di Mirella Tenderini, che racconta innanzi tutto la famosa e famigerata spedizione della nave Endurance in Antartide del 1914-1916 ma pure molte significative vicende della vita di Shackleton che rivelano molto dell’uomo, del suo carattere, del pensiero e delle visioni che lo hanno reso così influente e indimenticabile. Leggetelo: sono certo che vi piacerà parecchio.

Walter Bonatti, il più grande

Walter Bonatti, 13 settembre 2011, undici anni fa.

Il più grande, sempre.

E trovo sia doveroso ricordarlo attraverso le parole della sua amata Rossana Podestà, colei che divenne una parte fondamentale e inscindibile dell’uomo-Walter Bonatti e nonostante ciò venne allontanata dai medici della clinica privata cattolica dove Bonatti era stato improvvidamente ricoverato perché non erano sposati. Anche per questo è giusto e bello ricordarli insieme, e insieme saperli felici tra le montagne dell’infinito.

[Il video è stato realizzato da Vinicio Stefanello (Planetmountain.com) e Francesco Mansutti (Studio Due) per l’edizione 2012 dei Piolets d’Or.]

Appartenere al punto di vista dei vagabondi

[Foto di Sergey Pesterev da Unsplash.]

La mattina del 24 agosto iniziava il secondo mese di cammino attraverso le Alpi. Fin qui, nella mia ricostruzione, ho voluto raccontare il viaggio quasi passo passo, giorno per giorno, per consentire al lettore di immergersi nella trasformazione emotiva di ragazzi che affrontano il distacco dal mondo cittadino per diventare viandanti della montagna, in cerca delle molte risposte che la civiltà umana non sa dare. Come capii allora, avendone conferma in occasioni successive, dopo circa un mese di traversata – nelle condizioni di isolamento dalle cronache del mondo civile che si viveva all’epoca – si apre una nuova porta esperienziale e cognitiva: ormai si appartiene al punto di vista dei vagabondi, la natura è la propria casa e gli schemi di pensiero tipici della vita urbana sono dimenticati, quasi che non dovessero mai più riguardarci.

(Franco Michieli, L’abbraccio selvatico delle Alpi, CAI / Ponte alle Grazie, 2020, pag.156.)

L’importanza fondamentale di conservare in noi, esseri tecnologici fondamentalmente stanziali, la natura vagabonda ovvero l’impulso al nomadismo, nelle parole e nell’esperienza di Michieli. Una dote che come poche altre ha reso l’uomo un Sapiens e lo ha relazionato al mondo vissuto ma che oggi appare quasi del tutto dimenticata, nella sua accezione originaria e antropologica. Ne riparlerò a breve, di questo tema.