«Bernina» è un altro di quei nomi che inesorabilmente indicano e richiamano alla mente grandi montagne, vasti ghiacciai, superbi panorami alpestri… giustamente, visto che il “quattromila” più orientale delle Alpi è uno dei massicci montuosi più estesi, articolati e elevati di questa parte della catena alpina, con numerose vette spettacolari e assai celebri sulle quali sono state scritte pagine importanti della storia dell’alpinismo. Un nome sinonimo di “montagna” nel senso più compiuto del termine, insomma: ma che origine ha, il così famoso toponimo “Bernina”?
In verità anche questo è un caso di nome assai potente, nell’immaginario (toponomastico e non solo) oggi condiviso, ma di contro dalle origini molto meno “gloriose” ovvero più pragmatiche, per così dire. Il nome «Bernina» in origine – cioè nel Basso Medioevo – non indicava infatti la montagna ma era usato per la località di Bernina Suot e per il vicino alpeggio in val Minor, appena sotto l’omonimo passo sul versante engadinese, e deriva probabilmente dal cognome Bernin, diffuso anche nell’Italia settentrionale e centrale come Bernini. Nel 1429 Bondo, comune della val Bregaglia, acquistò un alpeggio in Barnynia in valle Minori – forse Bernin era il nome del precedente proprietario del terreno – che da allora divenne l’Alp da Buond, mentre con il nome Bernina si finì per indicare il passo del Bernina e successivamente, per un mero traslato geo-toponomastico, l’intero gruppo montuoso soprastante. Meno probabile sembrerebbe invece l’origine slovena del toponimo citata da alcuni (lo studioso grigionese Andrea Schorta, ad esempio), come abbreviazione del termine berdnina (“montagna con propaggini”).
D’altro canto la forma arcaica del toponimo, Barnynia, potrebbe far pensare a una similitudine con l’origine del toponimo «Berna», la capitale svizzera, che popolarmente deriva da Bär, “orso” (animale simbolo della città) ma che oggi viene più probabilmente fatto derivare dal termine celtico berna il quale significa “fessura”, “fenditura”: nell’uno e nell’altro caso, comunque qualcosa che si ritrova facilmente anche sulle montagne!
Sulla mia carta fai-da-te non sono annotati stati-nazione, ma antiche regioni frontaliere inghiottite dalla geopolitica. Sentite che nomi. “Botnia”, dove il fondo del Baltico muore nella tundra. “Carelia”, un labirinto di fiumi tra Russia e Finlandia. “Livonia”, coperta di laghi e abeti. Ascoltate come suona bene la parola “Curlandia”, terra di lagune e dune di sabbia battute dal vento. Cercate sull’atlante la Prussia Orientale, la Latgallia e la Masuria, vengono i brividi solo a nominarle. E che mi dite della Polesia, lo spartiacque più piatto del mondo, terra dalle cui paludi un tempo potevi scendere in barca sia sul Baltico, sia sul Mar Nero? O delle sterminate colline della Volinia?
E ancora la Rutenia, la Podolia, la Bucovina: provate a fare questi nomi in un’agenzia di viaggi. Vi prenderanno per matti. Ma voi insistete, mostrate la carta geografica, dite che sono posti reali, che contengono fiumi, città, monasteri, sinagoghe, pianure e montagne. Dite che volete vedere anche la Budjak, ultima propaggine dell’Ucraina prima del Delta del Danubio, selvaggia terra di minareti in mezzo a un mare ortodosso, spazio franco di zingari e pastori. Pretendete di visitare la Bessarabia, la Dobrugia e la Tracia. Rieducate l’industria del turismo, spiegate che col petrolio alle stelle il viaggio deve ridiventare avventura e scoperta, mollare i centri rinomati, scegliere le periferie, ridiventare leggeri. In seimila chilometri non ho incontrato un viaggio di gruppo e nemmeno un ristorante cinese. Di italiani meno che meno. Vorrà pur dire qualcosa.
Questo è, a mio parere, uno dei passaggi più belli ed evocativi del noto libro-diario di viaggio di Rumiz lungo il “confine verticale” europeo, dal Circolo Polare Artico fino al Mar Nero, e ciò per due motivi.
Il primo, perché Rumiz evidenzia nuovamente l’importanza fondamentale dei toponimi, i nomi dei luoghi, veri e propri scrigni lessicali di storie e culture millenarie nonché di relativi saperi, nozioni, rivelazioni sul luogo che denominano nel corso del tempo e sulle genti che lo hanno vissuto, trasformato e abitato. Lo stesso Rumiz in un altro suo bel libro, La leggenda dei monti naviganti, scrive che «Finché ci saranno i nomi, pensai, ci saranno i luoghi» ed è verissimo, perché in effetti è anche grazie al nome che gli uomini gli conferiscono che uno spazio, un territorio, una zona diventa luogo e prende a vivere, a diventare dimora di un proprio Genius Loci. Per questo, in fondo, conoscere e indagare l’origine e il significato dei toponimi significa da un lato viaggiare nello spazio-tempo e, dall’altro, contribuire a mantenere vivo il luogo relativo. Tanta roba da un semplice nome, no?
Il secondo motivo è che in quel brano Rumiz ci ricorda di come molto poco, a ben vedere, conosciamo il mondo che abitiamo, e non territori lontani, esotici e di ostica visita ma regioni che sono parte del nostro stesso continente, in certi casi a un paio d’ore d’aereo o a poche di più d’auto da noi. Eppure la storia della parte di mondo in cui viviamo è ancora in gran parte dentro quei nomi: quelli che sono venuti dopo, sovente per imposizione geopolitica del tutto slegata dalla realtà storico-geografica relativa, sanno raccontare molto meno dei primi delle loro terre, dei loro luoghi, delle genti che vi sono nate o che le hanno abitate, delle loro geografie, morfologie, paesaggi, mitologie. Anche in tal caso conoscerli, quei nomi, e sapere a quali luoghi si riferiscono, non è un mero esercizio nozionistico ma un prezioso esercizio culturale e identitario – di identità virtuosa e benefica, intendo dire, quella che scaturisce da un luogo vivo e per questo identificante, appunto, giammai da una pretesa più o meno localistica che quasi sempre si nutre proprio della carenza di cultura storica, geografica e antropologica nonché di elementi del tutto avulsi e scriteriati.
Ed è un esercizio, quello a cui ho appena accennato, che possiamo fare in ogni territorio e luogo, piccolo o grande, dacché ciascuno di essi ha i suoi toponimi referenziali, identitari, storici, tradizionali, vernacolari, che il passare del tempo e la trasformazione della presenza umana tende a dimenticare e far svanire quando invece la loro salvaguardia è, ribadisco, una fondamentale manifestazione di vitalità culturale e antropologica. Perderne la conoscenza, di contro, significa perdere la storia, i saperi e l’anima dei luoghi in essi racchiusi: qualcosa che una civiltà già troppo smemorata come la nostra non si può assolutamente permettere.