Se il turista è la prima vittima (inconsapevole) dell’iperturismo

[Immagine tratta da www.iltquotidiano.it.]

Il turista inconsapevole, esemplare umano che si riproduce in modo seriale su vastissima scala, è concentrato su esperienze prettamente ludiche, con l’unica finalità di riempire il tempo a disposizione. Il viaggiatore consapevole invece, colui che sente, annusa, vede, viaggia per svuotarsi e in questa opera di alleggerimento va incontro al nuovo, allo sconosciuto. Il suo è un tentativo di lasciarsi alle spalle ciò che è conosciuto, un andare per andare. Oggi il turismo, e quindi anche fare turismo, è una sorta di sottoprodotto culturale che strumentalizza la circolazione umana per ridurla a consumo. Si basa su una formula: offrire e ricevere, diventata banale in virtù di uno scambio sempre più stereotipato, duplicato, omologato.

[Michil CostaFuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica, Edition Raetia, 2022, pag.22.]

Spesso coloro che si oppongono ai fenomeni di overtourism e alle conseguenze del turismo massificato sui territori coinvolti puntano il proprio dito e il biasimo sui turisti: comprensibilmente, a volte legittimamente – l’inconsapevolezza del turista rispetto ai luoghi che frequenta citata da Costa lì sopra è una colpa senza dubbio. D’altro canto, il turista è a sua volta una vittima a tutti gli effetti dell’iperturismo e non è così facile che se ne possa rendere conto, dal momento che non possiede e non gli vengono offerti (furbescamente, ovvio) gli strumenti per comprenderlo.

Anche perché certi modelli turistici di natura consumistica, quali sono quelli che manifesta l’overtourism, impongono la trasformazione funzionale ai loro scopi del turista (comunque già un livello inferiore rispetto al viaggiatore, Costa ha ragione) in cliente, il quale paga un prezzo e dunque pretende un servizio ovvero acquista un bene, esattamente come accade con gli articoli in vendita in un centro commerciale. È qui il nocciolo della questione e la colpa fondamentale: la mercificazione di territori, luoghi e paesaggi di grande valore ambientale e culturale, per giunta abitati, trasformati in beni di consumo e messi a valore per poter essere agevolmente venduti/acquistati dalla più ampia clientela possibile.

Così, sugli scaffali del grande “centro commerciale” che è ormai il turismo massificato, i beni/luoghi si accumulano sempre più uniformati ai modelli turistici vigenti e indistinguibili gli uni dagli altri se non per il prezzo e per ciò che tale prezzo può offrire al cliente, che viene spinto dentro il centro commerciale e li compra. La circolazione umana diventa consumo, l’offerta turistica consumismo e, inevitabilmente, entrambe finiscono per consumare territori e comunità. E si può solo immaginare – anzi, forse no – con quali conseguenze per luoghi di grande bellezza ma altrettanta delicatezza e fragilità come le montagne.

P.S. per leggere la mia “recensione” al libro FuTurismo di Michil Costa, cliccate qui.

Vado in montagna «per fuggire dal caos e dallo stress della vita in città». Ma veramente?

Quando leggiamo di articoli e testi dedicati alla frequentazione turistica delle montagne, e alle motivazioni che spingono così tante persone a passare solo qualche ora oppure giorni interi sui monti, anche a prescindere da cosa ci si vada a fare, sovente si leggono cose molto simili: «la bellezza del paesaggio», «la natura, l’aria pura», «la possibilità di relax», «la fuga dal caos e dallo stress della vita in città». Tutte motivazioni legittime e comprensibili, solo apparentemente ovvie ma invero l’ovvietà di esse è legata all’alterità ambientale che rende le montagne, e i territori naturali, diversi dagli spazi antropizzati e iperurbanizzati tipici delle nostre città.

Tuttavia, molto spesso tante di quelle persone che motivano le proprie gite o le vacanze in montagna con quelle affermazioni finiscono poi per ritrovarsi in parcheggi intasati di auto e a vagabondare con la propria per cercare un posto libero, code agli impianti di risalita come in metropolitana, poste da sci affollate come vie cittadine, sentieri sui quali si cammina in lunghe code, ristori e rifugi intasati, hotel grandi come condomini di periferia seppure certamente di pregevole qualità e super confortevoli ma che finiscono per offrire gli stessi agi che si hanno a disposizione a casa propria o si frequentano abitualmente nelle città in cui si passa il resto dell’anno.

Posto tutto ciò, dove si trova dunque la fuga dal caos della città? Dove e come ci si può rilassare? Basta farlo riproducendo le stesse dinamiche della quotidianità ordinaria ma in un contesto paesaggistico differente, che però si fa fatica a poter godere proprio perché intasato e per molti versi nascosto da tutta quella riproduzione dei modelli metropolitani di fruizione dei luoghi dai quali si viene costantemente distratti? Se i territori naturali hanno la capacità da tempo scientificamente comprovata di ristorare la mente, il corpo e l’animo dal modus vivendi opprimente, stressante e manipolatorio nel quale ci tocca vivere per buona parte dell’anno, perché non sappiamo e non vogliamo sfruttare tale fondamentale prerogativa?

Ha senso tutto ciò, rispetto a quelle motivazioni così di frequente addotte dai gitanti e dai vacanzieri montani? A me non sembra e sia chiaro: non è affatto una critica al turista che decide, più o meno consapevolmente, di usufruire di quei modelli di frequentazione turistica dei territori naturali (ma non solo di questi, ovviamente, il principio è valido anche altrove), il quale piuttosto si ritrova a essere costretto ad accettarli e subirli, per motivi vari e diversi. Tuttavia, subiti una volte, due volte, tre o quattro volte, dopo un po’ a mio parere deve diventare necessaria una riflessione al riguardo: ma sto veramente fuggendo dal caos e dallo stress della vita ordinaria, o più semplicemente cambiando la routine quotidiana, vivendo periodi di vacanza che presentano le dinamiche sopra descritte? Sto veramente ritemprandomi in un contesto del genere, o forse mi sto solo convincendo di ciò dal momento che pago un certo prezzo e in cambio ottengo servizi di cui abitualmente a casa non posso godere – fosse solo l’essere servito a pranzo e a cena da un cameriere premuroso o trovarsi una colazione abbondante che nessun bar di città potrà mai offrire, salvo rari e costosissimi casi, oppure l’area wellness appena sotto la propria camera?

Sono esempi banali e elementari, questi che propongo: ovviamente la questione è più articolata e profonda, sottoposta a variabili economiche e imprenditoriali che poco o nulla contemplano la qualità della permanenza turistica in un luogo ambientalmente pregiato, mirando quasi esclusivamente (e legittimamente, dal loro punto di vista) al profitto, alla massimizzazione degli incassi, alla quantità delle presenze che fa utile in bilancio a fine stagione turistica e fissa limiti da dover sempre rincorrere e superare, stagione dopo stagione. Per l’industria turistica è pressoché necessario che un parcheggio il quale contenga duecento autovetture ma abbia spazio per arrivare a trecento debba essere ampliato in tal senso (magari scavando qui e là si arriva anche a quattro o cinquecento posti auto): ma può essere necessario, anzi è veramente necessario anche per chi vuole vivere la montagna in maniera autentica, pur volendo usufruire di certi comprensibili agi? Io credo che non solo non sia necessario ma, oltre una certa misura, diventi inevitabilmente deleterio per la qualità dell’esperienza di frequentazione dei luoghi e di vacanza, da una parte, e per quella dell’ospitalità offerta dalle strutture ricettive dall’altra oltre che, ovviamente, per lo stesso territorio, il suo paesaggio, la sua identità culturale, il benessere della comunità residente. Risulta fondamentale, e sempre più urgente, trovare un punto di equilibrio tra le esigenze e le necessità dei tre principali attori in gioco – il turista, l’albergatore/ristoratore/esercente commerciale, l’abitante del luogo – ma ancor di più secondo me, ribadisco, risulta imprescindibile quella riflessione di cui ho scritto prima da parte di ciascun frequentatore delle montagne e dei territori di grande pregio ambientale – quelli capaci di ristorarci nella mente, nel corpo e nello spirito, appunto, ovvero in grado di donarci una “fuga” il più possibile autentica dalle dinamiche opprimenti della vita quotidiana ordinaria. Una riflessione che si risolve in una (doppia) domanda fondamentale: è veramente la vacanza che voglio vivere in montagna? O sto correndo il rischio di ripetere le stesse cose che faccio già in città, nel resto dell’anno, autoconvincendomi che non sia così per non rovinarmi la (meritata) vacanza stessa?

Capitemi: non so affermando che la vera vacanza in montagna sia obbligatoriamente quella da passare in tenda in luoghi sperduti senza nessun confort e senza incrociare anima viva o quasi per giorni interi (esperienza che può risultare affascinante e invitante per molti e niente affatto a tanti altri). Ma nemmeno posso concepire che una vacanza in montagna sia come quelle che vedo così spesso vissute in enormi parcheggi, resort immensi, code agli impianti, resse ai banconi dei rifugi – che magari per giunta si mettono a offrire ostriche e champagne come i ristoranti gourmet del centro città o i beach club sulle spiagge più alla moda.

No, per quanto mi riguarda questa non è “vacanza”, non è «una fuga dalla città», non è relax: è solo un portarsi appresso la gabbia nella quale si vive rinchiusi per tutto il resto dell’anno. Niente di più e di tanto triste.

(Ri)trovare un equilibrio per le montagne

Come contemperare le esigenze imprenditoriali degli operatori e il desiderio di tornare a un turismo meno industriale? Basta la piena occupazione dei posti letto per garantire la qualità del settore alla quale tanto auspichiamo? Tra la voglia di futuro e il fascino dei bei tempi andati ci vorrebbe un confronto fatto con il cuore e la ragione, non necessariamente una contrapposizione, tra ciò che era bello allora e ciò che ci appare brutto oggi, riflettendo insieme sulla direzione nella quale stiamo spingendo il turismo sulle Alpi. Lo spazio per una forma di equilibrio c’è ancora: non insistere sulla costruzione di nuovi impianti nelle zone dove l’industria dello sci viaggia a gonfie vele, non andare a intaccare zone ancora inermi, là dove i numeri suggeriscono un modo diverso, più slow, di fare turismo.

[Michil CostaFuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica, Edition Raetia, 2022, pag.87.]

«Una forma di equilibrio»: la locuzione che usa Costa nel suo libro nei riguardi del turismo montano contemporaneo è pure, a tutti gli effetti, una definizione perfetta di “montagna”. Le montagne sono anche una manifestazione di equilibrio, tanto in senso geomorfologico, quello primario e più evidente, quanto in molti altri sensi, meno visibili ma altrettanto fondamentali per il rapporto che l’uomo vi intrattiene. Vivere, abitare, frequentare le montagne sono pratiche di costante ricerca di un equilibrio, che consenta di restarci – stanzialmente o per solo poche ore – con vantaggi reciproci per l’uomo e per i monti; invece troppo spesso quell’equilibrio lo si è voluto rompere per deviarne i vantaggi soltanto da una parte e non per tutta la comunità umana ma solo per pochi. Lo ha fatto forse più di ogni altra cosa l’industria dello sci e del turismo di massa, con conseguenze ormai sotto gli occhi di tutti (tutti quelli che li vogliono vedere e comprendere, certamente: ma è la maggioranza delle persone, ormai): continuare con tale rottura è una cosa non solo illogica ma viepiù, col passare del tempo, pericolosa. La montagna disequilibrata, sfruttata, consumata e devastata sia nel suo territorio quanto nella propria cultura diventa inesorabilmente inabitabile e non solo in termini ambientali ma pure economici, sociali, culturali: il che, lo ribadisco per l’ennesima volta, non significa che non ci si possa fare nulla ma che ogni cosa venga fatta – appunto – in maniera equilibrata. Cioè con buon senso e non a senso unico, per il guadagno di pochi e il danno di molti.

Buon senso, già: sembra facile per il super evoluto uomo contemporaneo, invece a quanto pare non lo è affatto e troppe volte in montagna lo si constata benissimo, purtroppo.

Michil Costa, “FuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica”

Nei discorsi che concernono il turismo montano, l’Alto Adige/Südtirol è comunemente preso a modello di eccellenza ed indubitabilmente per diversi aspetti lo è: che ciò sia dovuto alla sua particolarità geopolitica, al regime di autonomia amministrativa del quale gode, per la speciale bellezza del paesaggio dolomitico che ne caratterizza buona parte del territorio o per altre peculiarità, di certo l’accoglienza turistica nella Provincia Autonoma di Bolzano raggiunge livelli difficilmente eguagliati in altre zone turistiche italiane.

Tuttavia, come recita la saggezza popolare, non è sempre tutto oro quel che luccica e dietro l’aureo luccicore altoatesino in alcuni casi si celano circostanze non esattamente esemplari: ad esempio l’overtourism di cui soffrono alcune delle località più rinomate, il gran traffico con relativo caos e inquinamento da città sui passi dolomitici pressoché incontrastato, la turistificazione esasperata di certe zone, l’ambiguità del titolo di “Patrimonio Unesco”, il rifiuto da parte degli albergatori di porre limiti alla frequentazione turistica, come proponeva un ottimo e articolato progetto di qualche tempo fa.

Ecco, gli albergatori per l’appunto. Poste le permesse di cui sopra, forse non è casuale che proprio un esponente della categoria altoatesina/sudtirolese, peraltro tra i più rinomati e prestigiosi, decida di opporsi allo status quo fin qui descritto, dimostrandosi più immune di altri all’oro di cui luccica il suo territorio e denunciandone  gli abbaglianti rischi. È Michil Costa, con la famiglia proprietario di alcune delle strutture alberghiere più belle e di alto livello delle Dolomiti, che ha deciso di mettere nero su bianco il proprio pensiero al riguardo in FuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica (Edition Raetia, 2022, prefazione di Massimo Cacciari), un volume il cui titolo risulta tanto chiaro quanto programmatico. Soprattutto nell’utilizzare subito la definizione di “monocultura turistica” la cui accezione è, alla luce dei fatti, inesorabilmente negativa, come ogni volta che un patrimonio culturale, sia esso materiale o immateriale, viene uniformato e standardizzato a un solo principio generale che sia funzionale a certi determinati scopi, con ciò banalizzando il concetto stesso di “cultura” che è quanto di più illimitabile vi sia, anche quando venga contestualizzato a un ambito definito come quello della montagna.

Il turismo in Alto Adige/Südtirol, modello assoluto nel bene e nel male di quello che caratterizza tutta la montagna italiana e non solo essa, è divenuto monoculturale non tanto nelle forme – comunque legate a ciò che si può fare di ludico-ricreativo sui monti – quanto nella sostanza, ovvero in un unico e sostanziale principio di mercificazione del territorio elaborato al fine di ottimizzarne quanto più possibile i tornaconti ricavabili, in una corsa ai record di presenze, di pernottamenti, di guadagni, di sviluppo inevitabilmente senza freni e limiti dalla quale, una volta dentro, è pressoché difficile uscirne. Ma una tale corsa forsennata ai record turistici non può non generare numerose pericolose conseguenze, inevitabilmente []

(Potete leggere la recensione completa di FuTurismo cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)