A dire «montagna», ecco i primi personaggi che vi sono venuti in mente

[Foto di Erich Wirz da Pixabay.]
Qualche giorno ho proposto agli amici che leggono le mie cose sul web di citarmi il nome di un personaggio al quale per primo si pensa in mente a sentire la parola «montagna». Una figura che per ciò che è stato o è, ha fatto, ha detto, ha rappresentato, vi si possa identificare un’idea compiuta di montagna. Una sorta di “primo ambasciatore” delle terre altre, per così dire, o colui che meglio di altri potrebbe aver dato o dare forma, mente e anima al loro Genius Loci.

Innanzi tutto grazie di cuore a chi è stato al gioco – perché di ciò si trattava, non certo di un sondaggio con pretese demoscopiche ma più una “chiacchierata” tra amici: anche se le risposte, ben 150 (spero di non averne persa qualcuna!), formano un quadro sì giocoso ma comunque parecchio significativo. Le ho raccolte nell’istogramma che vedete qui sotto (cliccateci sopra per ingrandirlo) ordinandole alfabeticamente (nome-cognome) e non per quantità di citazioni, proprie perché non c’era alcuno scopo di comporre graduatorie di preferenza. Anche se la proposta iniziale era di indicare un solo nome di personaggi reali, ho inserito tutti quelli citati, anche quelli più “bizzarri”: perché ogni vostra risposta ha valore e in effetti risulta variamente interessante e significativa. Grazie ancora per averle espresse!

Posto ciò, potete liberamente ricavare dalle risposte ottenute le vostre considerazioni, mentre io qui ne rimarco alcune personali: se per molti versi la quantità di citazioni per Walter Bonatti poteva essere prevedibile, trovo significativo che il secondo personaggio più citato sia stato Mario Rigoni Stern (ribadisco, non importano il numero di voti o lo scarto): il primo una figura che incarna soprattutto la dimensione alpinistica e esplorativa della montagna, il secondo invece principalmente quella culturale e umana, i due ambiti fondamentali attraversi i quali l’uomo ha vissuto le montagne dai secoli scorsi fino al presente, seppur sia Bonatti che Rigoni Stern hanno poi elaborato il proprio legame con i monti anche in altri modi – così come hanno fatto ulteriori personaggi citati, conosciuti soprattutto come alpinisti ma la cui relazione con le montagne non si è manifestata solo attraverso la conquista delle vette e la sfida alle loro verticalità (Reinhold Messner, per dirne un altro tra i più citati).

Ugualmente interessanti sono le numerose citazioni a personaggi che invece poco o nulla si legano all’alpinismo così come quelle a figure familiari, mentre inesorabilmente poche sono le donne citate: se l’alpinismo si è spesso contraddistinto per la propria dimensione patriarcale, nella quale la frequentazione femminile delle vette spesso era ritenuta sconveniente, non solo la sua storia è ricca fin dall’inizio di grandi alpiniste ma in fondo è la montagna nei suoi tanti aspetti quotidiani a essere stata spesso “governata” dalle donne senza che ciò venisse loro adeguatamente riconosciuto. Così come oggi non esiste più un alpinismo “maschile” e uno “femminile” ma l’alpinismo e basta, credo che il Genius Loci montano non abbia genere. Che poi, a ben vedere, «montagna» è un sostantivo femminile che deriva dal latino mons mōntis, «monte», il quale è un sostantivo maschile, dunque: pari e patta!

Ancora una volta grazie per le vostre risposte!

Se vi dico «montagna» chi è il primo personaggio che vi viene in mente?

[Foto di candidsoul da Pixabay.]
Cari amici, vi propongo un’altra domanda alla quale rispondere senza pensarci troppo, il giusto insomma oppure anche d’istinto, se vi viene di farlo:

Se vi dico «montagna» chi è il primo personaggio che vi viene in mente?

Il nome che vi chiedo può essere di un personaggio vivente oppure del passato, comunque reale, pensando il quale vi pare che nella sua figura, in ciò che è stato, ha fatto, ha detto, ha rappresentato, vi si possa identificare un’idea compiuta di montagna. Una sorta di ambasciatore imperituro delle terre altre, per così dire, o colui che meglio di altri potrebbe aver dato o dare forma, mente e anima al loro Genius Loci.

Grazie di cuore fin d’ora a tutti quelli che vorranno pubblicare la propria risposta!

P.S.: al proposito, ovviamente propongo la mia risposta tra le numerose che mi verrebbero in mente, e nel tentativo – un po’ meschino, ammetto – di schivare quelle più immediate (Bonatti!), dico…

John Muir! (E ovviamente quella nell’immagine in testa al post è una veduta delle “sue” montagne dello Yosemite.)

Alberto Saibene, “Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più”

Col passare del tempo, il mio rapporto di amore/odio con Milano si sta elaborando in modi sempre più antitetici ma, obiettivamente, con la parte negativa che sta gioco forza diventando preponderante rispetto all’altra. Chiunque viva in Lombardia – ma la cosa può valere un po’ per tutto il Nord Italia, se non per l’intero paese – è ben consapevole di come Milano sia il fulcro di questa parte di mondo, e che lo sia nel bene e nel male: la città ha “salvato la vita” a tanti – nel senso più variegato dell’espressione -, ha costruito i loro destini, li ha resi gradevoli e confortevoli, a volte li ha fatti ricchi, ma la vita l’ha pure rovinata ad altrettanti che da Milano sono dovuti fuggire, per vari motivi. D’altro canto le città sono entità che vivono una vita propria a volte non così correlata a quella di chi ci vive, e il cui destino può anche prendere strade differenti da quello che vorrebbero per se stessi i suoi abitanti, magari non tutti ma tanti sì. In tal senso anche Milano, uscita semidistrutta dal secondo conflitto mondiale, è divenuta in pochi anni la capitale economica e culturale dell’Italia, il motore del boom economico, la “Milano da bere” in costante euforia consumistica degli anni Ottanta, per poi inevitabilmente deprimersi nei Novanta, perdere molta della sua identità negli anni a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, smarrirsi vivendo una crisi di identità piuttosto forte. Quindi, ritrovando nuovo slancio con l’Expo e ora con le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 ma al contempo generando in se stessa fenomenologie politiche, sociali e culturali che sembrano quelle degli anni Ottanta coniugate con le caratteristiche liquide e “post-un po’ tutto” del ventunesimo secolo: gentrificazione esasperata ovvero cementificazione incontrollata, greenwashing spinto, cosmopolitismo mal gestito, l’esasperazione estrema della forma e dell’immagine – adeguatamente brandizzate – a scapito della sostanza, l’happy hour come monocultura urbana imperante… di contro, Milano s’è fornita di nuovi luoghi preziosi, musei prestigiosi, spazi urbani innovativi, servizi di alto livello, ma con tutto quanto che pare messo più al servizio del successo e dell’immagine della città, non dei suoi cittadini. I quali infatti la stanno abbandonando, essendo ormai il centro pressoché in mano a multinazionali, grandi brand commerciali e holding immobiliari legati a fondi d’investimento esteri, per andare ad abitare sempre più in periferia se non nelle città dell’hinterland, vicine al centro della metropoli ma già al di fuori della sua centrifuga urbana e dunque più vivibili (seppur a rischio costante di fagocitazione metropolitana, posta la citata cementificazione tentacolare su ogni residuo spazio libero al di fuori del centro).

Una città totalmente diversa da quella di solo pochi anni fa, insomma, di un passato che per alcuni lustri è stato veramente eccezionale, assimilabile forse solo a quello di Londra per manifestazione di talento, genialità e produzione di variegate arti e cose sublimi, oltre che profondamente identificanti l’anima della città stessa – di quella città che non c’è più. Proprio come evidenzia il sottotitolo del libro di Alberto Saibene, Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più (Edizioni Casagrande, 2021), nel quale l’autore ripercorre quel periodo veramente aureo per il capoluogo lombardo che va dal primo dopoguerra agli anni Ottanta, quando un numero spropositato di talenti, appunto, girava per le sue vie e ne animava la vita con “invenzioni” in tutti i campi che hanno fatto epoca []

(Potete leggere la recensione completa di Milano fine Novecento cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Perché gli animali “spariscono” dai libri per gli adulti?

[Masha e l’Orso, illustrazione di Evgenii Rachev per la versione della tradizionale favola russa di Mikhail Bulatov, pubblicata intorno al 1960.]
Sulla sua pagina Twitter, Il Lettore Forte propone una domanda parecchio interessante (la ribadisco di seguito per chi non abbia Twitter e dunque non veda il link qui sotto): «Perché nei libri per l’infanzia c’è pieno di personaggi che sono animali e poi, quando si cresce, si passa agli esseri umani?»

Al di là delle risposte “ovvie”, legate alla visione fantastica infantile del mondo, espressa favolisticamente, e a quella razionale dell’età adulta, che accetta più difficilmente un coniglio che parla, ad esempio (ma vogliano parlare di quante cose assai più irrazionali gli adulti accettano e credono?), è sicuramente vero che gli animali, quando compaiono nelle narrazioni per adulti, o sono creature del tutto assoggettate all’umano-padrone alla Lassie oppure esseri bestiali nel senso più violento del termine, spaventosi, pericolosi, nemici dell’uomo e della sua “civiltà evoluta” – King Kong, per dirne una. Altrimenti si manifestano in personaggi dei fumetti, ma ovviamente l’ambito rappresentativo e narrativo è differente e comunque il punto di vista alla base, salvo rari casi, è quasi sempre prettamente antropocentrico: comprensibile, da parte nostra, ma obiettivamente squilibrato. È assai meno frequente, insomma, una narrazione nella quale non dico che gli animali parlino e si comportino come umani (sarebbe comunque il frutto, questo, di una mera e iniqua visione antropocentrica) ma che all’interno di una narrazione di qualsivoglia genere si pongano su un piano ecologico e biologico paritetico con gli umani, non fosse altro per essere tutti quanti abitanti di un unico mondo e spesso parte della stessa biosfera – che è un ambito anche culturale, non solo biologico, comprendente per ciò anche la relazione “filosofica” tra umani e animali e la sua rappresentazione.

Nelle storie per adulti, insomma, viene perduto quasi del tutto il riconoscimento dell’intelligenza indipendente e della dote senziente degli animali, oltre a molti dei loro diritti “naturali”, mentre i libri per l’infanzia e i bambini, dovendosi riferire a fruitori estremamente curiosi, fantasiosi e soprattutto ancora privi delle sovrastrutture mentali e ideologiche degli adulti, ineluttabilmente (e spesso  zoticamente) antropocentriche, possono tranquillamente raccontare di umani, pur in giovane età, e animali d’ogni sorta che vivono insieme le più mirabolanti avventure senza che a quei fruitori la cosa risulti bizzarra e insensata, anzi, al contrario.

Però a questo punto mi sorge un dubbio, sviluppo consequenziale della domanda iniziale: poste le suddette argomentazioni “ovvie” e tutto il resto di “razionale” sul tema, non è che effettivamente la rappresentazione e la narrazione degli animali che agli adulti viene offerta (da altri adulti) sui media culturali sia, pur colposamente, almeno un poco alla base della scarsa sensibilità e consapevolezza che il mondo degli adulti sovente dimostra verso la Natura e nei confronti dei suoi rappresentanti primari, cioè proprio gli animali? E se ogni tanto le storie per adulti le facessimo concepire e elaborare ai bambini? Be’, per molti versi credo proprio non sarebbe una brutta idea. Niente affatto.

I “miti” (degli altri)

Qualche settimana fa ho pubblicato un articolo su Bob Dylan – il 24 maggio, giorno del suo ottantesimo compleanno – nel quale celebravo il genetliaco ma, con sconcertante insolenza (me lo dico da solo, sì) e pur con altrettanta sincerità confessavo che trovo da sempre Dylan uno degli artisti musicali più noiosi, soporiferi, sovente assai poco attraenti e a volte sconcertanti che abbia mai ascoltato.

Poi, parlando con alcuni amici di come per chiunque esistano dei “miti” – di ogni ambito terreno – riconosciuti come tali da tantissimi ma che per se stessi non lo sono affatto in forza dei più disparati motivi personali, mi sono messo a fare una rapida top ten dei miei “miti degli altri”, personaggi o cose variamente celebri e mitizzate ma non da me, ecco. Ovviamente è inutile rimarcare che si tratta di opinioni e giudizi del tutto personali senza alcuna pretesa di verità ma, certamente, sinceri e onestamente espressi.
Ecco qui la mia dissacrante, quasi blasfema top ten (posizioni in ordine sparso, eh):

  •  The Beatles: mito assoluto che non abbisogna di presentazioni. Be’, nulla dire sull’importanza rispetto alla storia della comunicazione di massa e del music business, che dopo di loro è indubbiamente cambiato ed è diventato quello che oggi è, ma le canzoni, salvo tre o quattro e non di più, le trovo insipienti e noiose. I Rolling Stones tutta la vita, semmai.
  • AC/DC: una delle più celebri rock band di sempre ma, a mio modo di vedere, è più di quarant’anni che “fanno” sempre e solo Highway to Hell. Nel senso che hanno pubblicato quel loro brano nel 1979 e da allora si sono limitati a riprodurlo mille e mille volte, con altri titoli e accordi un filo differenti ma, nella sostanza, il pezzo è sempre quello. Ma anche basta, porca miseria!
  • Jim Morrison: il “carismatico leader” dei Doors è un personaggio che nel complesso mi irrita irrefrenabilmente fin dai primi istanti di visione. Dicono fosse un poeta – “il poeta maledetto” anzi; a mio modo di vedere il vero “poeta” (tramite le sue tastiere) e personaggio da ricordare nei Doors fu Ray Manzarek, non l’altro.
  • Alda Merini: con il massimo rispetto per la personale vicenda umana, trovo la sua poesia ben poco “poetica” ovvero in gran parte banale e scontata.
  • Alberto Tomba: (sempre che possa essere considerato un “mito”, ma ai suoi tempi lo era, probabilmente) grandissimo sciatore ma non ho mai sopportato i suoi atteggiamenti da “simpatico” (per gli altri) spaccone; infatti all’epoca ero un grande fan del suo acerrimo rivale nella Coppa del Mondo di Sci, lo svizzero Pirmin Zurbriggen.
  • Gianni Agnelli: l’Avvocato, mito capitalistico italiano per eccellenza, è a mio parere colui che ha gettato alle ortiche (ovvero ha permesso che accadesse) un’azienda tra le più avanzate – sia dal punto di vista tecnologico che del design – al mondo, producendo auto pessime e per di più parassitando ingenti fondi pubblici al fine di riempire i buchi di bilancio.
  • Vasco Rossi: personaggio di grande simpatia tanto quanto di insopportabile banalità musicale – salvo la prima parte di carriera, quando non era ancora così mitizzato e produceva spesso canzoni notevoli. Poi, appunto, il gran successo gli ha spento la carica innovativa rendendolo non di rado una parodia del se stesso giovane.
  • La Ferrari: il mito automobilistico per eccellenza, tuttavia per il team di Formula Uno non ho mai fatto il tifo perché mi ha sempre infastidito quella strumentalizzazione mediatica a fini patriottico-nazionalisti (“la nazionale rossa”) della quale – suo malgrado, anche – è sempre stata oggetto, mentre come costruttore di automobili, per carità, gran belle vetture ma, avessi i soldi, sceglierei senza alcuna esitazione una Aston Martin. Dal fascino inarrivabile, per una Ferrari.
  • Il Brunello di Montalcino: datemi una bottiglia di questo nobile “mito enologico” assoluto, e datemene una di proletarissimo Lambrusco oppure di Bonarda… be’, scelgo mille volte questi due, altro che il primo, il quale mi entusiasma come un surfista in una giornata di mare piatto e senza un filo di vento!
  • Il Capodanno: un giorno “mitico” per tutti i festaioli, io invece non ho mai capito che ci sia concretamente da festeggiare e poi, nello specifico, il solito countdown della mezzanotte, «meno dieci… nove… otto… sette…» scandito in coro dai festanti, se devo proprio essere sincero, mi ha sempre suscitato notevoli istinti omicidi, ecco.

E voi? Avete qualche “mito degli altri”, osannato da tanti e invece da voi francamente ignorato o disdegnato? “Miti” considerabilmente tali, sia chiaro: non la Ferragni (che magari “mito” lo sarà tra quarant’anni, chissà, glielo auguro) oppure Jovanotti (nota bene: a chi lo ritenga un “mito” sarà tolto il saluto immantinente) o altre figure di simil sorta, eh!