Jovanotti, Messner, Plan de Corones, e alcune domande che bisogna porsi

Occupandomi di frequente di progetti culturali riguardanti i territori di montagna, ho seguito con divertita curiosità la querelle tra Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, e Reinhold Messner in relazione al concerto che il primo terrà – salvo decisioni future – agli oltre 2200 metri di quota di Plan de Corones, in Sud Tirolo (qui, nel sito MountCity.it, trovate un buon riassunto della questione, con ulteriori approfondimenti.) Per lo stesso motivo suddetto, mi sono fatto una personale opinione in merito, che mi permetto di proporvi dacché, credo, mette in gioco un elemento che non mi pare sia stato presente del dibattito, almeno non in modo importante come ritengo possa essere.

L’elemento si chiama contestualizzazione. Ovvero: quella riguardante tali “grandi eventi” in quota non è tanto e non solo una questione di impatto e di sostenibilità ambientale, di salvaguardia dell’ambiente naturale, di rumore o di silenzio eccetera ma, io penso, di valutare se un certo “evento” (ovvero fatto, azione, intervento, attività, progetto…) sia contestuale al luogo in cui viene realizzato, in senso materiale (dunque ciò che offre concretamente tale evento) e immateriale (ciò che genera e lascia sul posto, soprattutto culturalmente).

Mi spiego meglio: da che la montagna è diventata un ambito turistico, prima d’elite e poi sempre più di massa, è stata sottoposta troppe volte a strategie e interventi che nulla hanno avuto (e tutt’oggi hanno) a che fare con l’ambiente montano e la sua cultura peculiare – intendendo col termine “cultura” il compendio dei significati che i monti offrono – i loro Genius Loci, in pratica. Oggi, la gran parte dell’immaginario comune legato ai monti, e alla catena alpina in particolare, è composto da elementi importati nelle terre alte da altrove, solitamente dalle città e dal pensiero urbano e attuati da centri di potere lontani (non solo come distanza geografica) dai monti: elementi che nel tempo hanno imposto modelli di sviluppo adeguati per i territori urbanizzati ma totalmente avulsi, quando non perniciosi, per i territori naturali ovvero dove l’equilibrio tra genti e ambienti fosse determinato da ben altre relazioni – antiche, tradizionali, rozze quanto si vuole ma assolutamente espressive della cultura ivi presente, dunque semmai da modernizzare e adeguare ai tempi, non certo da stravolgere oppure da cancellare e sostituire con tutt’altro. Da questo immaginario alpino comune, artificioso e deviato, scaturisce un concetto di “paesaggio” che troppe volte fa della montagna la rappresentazione di una succursale in quota della città, con infrastrutture, emergenze architettoniche, regolamentazioni urbanistiche, modifiche ambientali e del territorio, suoni, rumori, pratiche di fruizione dei luoghi, monetizzazione e patrimonializzazione delle loro peculiarità che oggi vengono considerate “normali” (spesso dagli stessi montanari, purtroppo) e che invece non c’azzeccano nulla di nulla con il contesto montano. Ciò chiaramente non vuol dire che la montagna debba essere mantenuta allo stato brado, selvaggio, che su di essa non si possa fare nulla e che ci si debba vivere ancora in anguste baite di pietra muovendosi solo a piedi e trasportando le merci a dorso di mulo. No: significa che in montagna si può fare tutto ma tutto, in un territorio così fragile (materialmente e immaterialmente) va fatto con buon senso, cioè facendo che ogni intervento sia in tutto e per tutto consono con il luogo, il suo valore, il suo ambiente e la cultura ivi presente. Il che significa pure che ogni intervento deve e dovrà sempre contribuire a salvaguardare questa cultura fondamentale (senza la quale, è bene osservarlo, la montagna muore immantinente, diventa una sorta di deserto in quota – ma come ogni altra cosa privata della propria cultura peculiare, d’altro canto) ovvero, ancora meglio, deve e dovrà contribuire a svilupparla e a farla progredire in modo da assicurarle un buon futuro – buono per se stessa, per i luoghi dai quali tale cultura scaturisce e per qualsiasi individuo che vi si relaziona, sia esso un abitante o un visitatore/ospite.

Questo, a mio modo di vedere, significa contestualizzazione, questo vuol dire contestualizzare un evento – cioè qualsiasi intervento – al luogo in cui viene realizzato e alla sua dimensione vitale. Una pratica tanto di importanza basilare (soprattutto in ambiti “delicati” come la montagna) quanto disattesa e trascurata fin troppe volte (soprattutto in montagna, già).

In base a tutto ciò, e prima di chiedermi se il concerto di Jovanotti (e qualsiasi altra iniziativa similare) sia più o meno ecosostenibile, io mi chiedo: è consono al luogo in cui viene realizzato? Vi si relaziona, lo narra, ne fornisce una rappresentazione più o meno virtuosa, o è meramente autoreferenziale e mirato a scopi e fini di tutt’altra natura? Cosa lascia, poi, sul/nel/al luogo in cui viene realizzato? Contribuisce autenticamente ad accrescerne il valore – non solo turistico ed economico ma ambientale, culturale, sociale? Sviluppa il luogo, insomma, o “sviluppa” solo se stesso e chi ne è fautore?

Ecco: questo io mi chiedo – e chiedo a chiunque si sia interessato della questione – prima di ogni altra cosa. Altrimenti il dibattito rischia di essere un mero pourparler basato senza dubbio su questioni concrete e importanti ma, alla fine, piuttosto ridondante, sterile e soprattutto superfluo per la montagna e la sua realtà concreta, presente e futura.

Io, per la cronaca, una mia risposta alle domande sopra esposte ce l’ho. Ed è piuttosto netta e incontrastabile.

Gli alieni e i terrestri

Mmm… così di recente ci sarebbe stata “un’ondata di avvistamenti UFO”, a quanto raccontano i media.

Eh! Come no!
Ma veramente i terrestri credono – quelli che avvistano i dischi volanti e gli altri che vi danno credito – che razze aliene infinitamente più intelligenti e tecnologicamente tanto avanzate da saper costruire astronavi in grado di superare distanze intergalattiche ovvero superdimensionali – veramente credono che civiltà aliene del genere siano di contro talmente idiote da prendere contatto con una razza così primitiva, rozza e tremendamente perniciosa (per sé e per ogni cosa abbia intorno) come quella umana qui sulla Terra?

Con tutte le civiltà ben più meritevoli di considerazione e più umane (!) che vivono un po’ ovunque tra le galassie?

Veramente credete a una tale possibilità?

Caspita, certo che ce ne vuole di vanagloria e tracotanza per credere a ciò!

Piuttosto, meno male che le razze aliene che transitano dalle parti della Terra sono talmente intelligenti da non “ragionare” come i terrestri e comportarsi di conseguenza. Altrimenti la “civiltà” umana sarebbe stata eliminata già da un pezzo.
Ecco.

Roy Paci

A volte capita che i “sentieri” che ciascuno di noi percorre vivendo la propria più o meno ordinaria esistenza nei territori del tempo e della quotidianità s’incrocino in modi sorprendenti, offrendo opportunità di conoscenze e dialoghi tanto imprevedibili quanto illuminanti.
Così a me è capitato, durante l’ultimo Salone del Libro di Torino, di bere un caffè in un bar del Lingotto e trovarmi fianco a fianco con uno dei migliori musicisti italiani in assoluto, Roy Paci.

Musicista autentico, intendo dire (chi mi conosce o segue in radio lo sa e chi non mi conosce lo sappia, che io la gran parte dei “musicisti” nostrani la manderei seduta stante a lavorare nei campi!), virtuoso notevole e artista del suono dal fascino tout court. Pur da inguaribile estremista sonoro quale sono, dunque formalmente non così vicino alla produzione artistica che l’ha reso maggiormente noto, ho sempre visto in Roy Paci un musicista di quelli di cui riesci rapidamente a percepire la grande cultura che sta alla base della mirabile preparazione tecnica e l’altrettanta profonda passione che mette nel suo far musica, costantemente aperto a ogni altra esperienza musicale rintracciabile per il mondo da cui poter attingere nuova e ulteriore energia e, al contempo, con la quale dialogare e intessere sul pentagramma infinite narrazioni armoniche che poi, per chi ascolta, diventano veri e propri viaggi sonori, divertenti, coinvolgenti, affascinanti, stimolanti – nonché, ribadisco, di gran peso culturale. Riflettendo peraltro pure il sentiero della vita – non solo artistica – di Paci: siciliano verace ma pure – anzi, proprio per questo, cittadino del mondo.

Avere poi l’opportunità di conoscere Roy Paci di persona, e scoprire che tutto ciò si può vedere e percepire nel musicista e nell’artista lo si ritrova pure nell’uomo comune, per di più con simpatia, disponibilità e affabilità più uniche che rare, rende incontri del genere piccoli/grandi momenti di “storia” – ovvio, personale, privata, della quale magari ad altri non frega nulla ma a me sì, e molto.

Anche se, confesso – e l’ho dovuto confessare pure a lui – ad accrescere ancor più l’importanza di Roy Paci per lo scrivente c’era (e c’è) pure un motivo molto più… bizzarro: in base alla celebre teoria dei sei gradi di separazione, Paci è il collegamento necessario per unirmi a uno dei personali miti assoluti, John Zorn, quello che considero IL genio musicale contemporaneo par excellence (ne ho scritto spesso, qui sul blog), con il quale Roy Paci ha collaborato; ma Paci ha collaborato pure con Claudio Parodi, sperimentatore sonoro tra i più apprezzati in Italia, che conosco e che è stato anche ospite nel mio programma radio in una memorabile chiacchierata-fiume che durò qualche ora. Ecco, tre passaggi ovvero solo tre gradi di separazione!

Beh, ok, metto da parte queste mie bizzarrie pseudosociologiche, vado ad ascoltarmi qualche brano degli Aretuska e nel frattempo recupero la “causa” principale della presenza di Paci al Salone: Fight for Freedom, la colonna sonora, firmata insieme a Remo Anzovino, del film di Emanuela Audisio Da Clay ad Alì, la metamorfosi sulla vita del grande Muhammad Alì, presentata appunto a Torino.

Baciamo le mani, eh!