Morterone, il (più) piccolo paese che racconta grandi storie

[Scorcio di Morterone nella stagione estiva, con alcuni dei suoi nuclei sparsi. Foto di Emibuzz, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Qualche settimana fa l’Istat ha certificato che Morterone, il minuscolo paese disteso sulle bellissime ondulazioni montane del versante orientale del Resegone – in provincia di Lecco ma idrograficamente già bergamasco – resta ancora il comune più piccolo d’Italia, con soli 31 abitanti. Questa è in effetti la principale peculiarità per la quale Morterone risulta conosciuto ai più, oltre al fatto di esserlo tra gli escursionisti che vi giungono per affrontare i sentieri che portano alla vetta del Resegone, su questo versante più semplici che dal lato lecchese. Percorrerli è anche un modo per godere della bellezza del paesaggio locale, come ho già accennato, nonché dei tanti elementi di interesse – naturalistici, ambientali, storici, culturali – che offre e che in qualche modo acuiscono la preziosità del luogo, già sancita e “salvaguardata” dall’isolamento del paese, raggiunto da una strada parecchio impervia che richiede almeno quaranta minuti d’auto da Ballabio, comune dal quale si origina. Una strada che negli inverni passati maggiormente nevosi di quelli attuali sovente restava chiusa per giorni in forza del pericolo di valanghe, rendendo totale l’isolamento del comune e la sua “distanza” dal resto del mondo.

Morterone possiede tuttavia un’altra caratteristica peculiare e assai affascinante, che forse alcuni intuiscono ma non comprendono fino in fondo – non per colpa, semmai per carenza di informazioni al riguardo. Una peculiarità della quale ad esempio ha scritto Franco Faggiani nel suo recente libro Le meraviglie delle Alpi, un capitolo del quale è dedicato all’itinerario montano della Dol dei Tre Signori – o Dorsale Orobica Lecchese – il quale da Bergamo porta alla Valtellina transitando proprio da Morterone, che rappresenta una delle possibili tappe del relativo trekking – ed è stato un grande onore e un piacere per me accompagnare Faggiani lungo questi sentieri per me domestici – o quasi – proprio in occasione della scrittura del libro (cliccate sulla copertina qui sopra per leggere la mia “recensione”).

Quello di cui alcuni probabilmente si sono resi conto, visitando Morterone, è che il paese è un non paese. Ovvero, non ha un centro come lo si può intendere ordinariamente per quasi ogni altro nucleo abitato, cioè un gruppo di case abitate più consistente di altri – che vi fanno da frazioni – presso il quale si trovano gli edifici di servizio alla comunità, la sede dell’amministrazione comunale, probabilmente la chiesa e altro di similare. Invece, il “centro” di Morterone, per come l’ho appena descritto, è (potrebbe essere) quello che vede nell’immagine qui sotto, nucleo identificato con il toponimo Morterone Chiesa perché c’è questa e, di fronte, il Municipio (potere spirituale e potere temporale significativamente dirimpettai, in pratica):

Per la cronaca, quel gruppo di case poste poche decine di metri sopra la chiesa e il Municipio formano un altro e diverso nucleo, dal toponimo Medalunga Mistica.
Poco distante c’è invece un ulteriore nucleo di case, appena più consistente (ma si tratta sempre di una decina di stabili, non di più) che le mappe denominano “Morterone”, come se questo fosse identificabile quale “centro topografico” del paese ma solo perché, ribadisco, formato da più case di altri; tuttavia anche questo “centro” nella sostanza non lo è affatto.

In realtà – e qui vengo al dunque svelando la peculiarità citata – Morterone è così perché si tratta di un tipico insediamento abitativo bergamino, fondato dalla celebre stirpe di pastori transumanti – i Bergamini, appunto – che originava da queste montagne e le cui vie rurali essi percorrevano con le loro grandi mandrie durante le transumanze stagionali tra gli alpeggi alpini e prealpini e la pianura lombarda. Lo scopo essenziale dei loro villaggi, a parte quello meramente abitativo e sussistenziale, era di divenire presidi di controllo e gestione efficienti dei pascoli sui quali sostavano le loro mandrie: non abbisognavano di fondare un paese urbanisticamente ordinario, con un centro principale e eventuali frazioni d’intorno, ma di spargersi per l’intero territorio funzionale ai loro allevamenti e ai lavori rurali correlati con tanti piccoli nuclei composti per la maggior parte delle volte da due o tre edifici – solitamente la dimora abitativa la stalla/fienile e la casera – ciascuno occupati da una delle famiglie che componevano il gruppo locale. Poi, in posizione più o meno centrale o comunque logisticamente comoda rispetto a tutti questi nuclei sparsi, veniva edificata la chiesa, luogo di culto al quale i Bergamini tenevano molto nonostante la loro fede cattolica presentasse spesso un mix di grande devozione religiosa e di molteplici credenze di natura mitologica e non di rado paganeggiante, funzionale alla particolare dimensione culturale rural-alpina che hanno elaborato nei secoli.

Questo estratto di una mappa dal web vi può dare un’idea della quantità e della frammentazione nel territorio del comune di Morterone (anche se alcuni altri toponimi secondari, o ancora meno, mancano):

[Per ingrandire l’immagine cliccateci sopra.]
Per tale motivo Morterone è un “non paese” senza un vero e proprio centro urbano, e parimenti per ciò il fascino peculiare del luogo risulta ancora più esclusivo. È come se nella particolare disposizione urbanistica del comune si sia impressa nel suo territorio la storia secolare delle genti che lo hanno abitato, vissuto, modificato e dal quale hanno tratto la propria sussistenza. Un imprinting antropologico che oggi si può perfettamente cogliere da qualsiasi mappa o carta geografica si voglia consultare (vedi lì sopra) e per molti versi si può vivere allo stesso modo di secoli fa, diventando con la nostra presenza elementi in relazione con un paesaggio “supertemporale” – o, se si preferisce, fuori dal tempo – che sa ancora raccontare molte storie e rappresenta, insieme a ogni altra cosa che caratterizza Morterone, un patrimonio culturale di grande bellezza, fascino e attrattiva.

Fateci caso, dunque, la prossima volta che visiterete Morterone: forse, così, riuscirete a sentirvi parte integrante della sua particolare, affascinante, speciale storia alpestre, e lo apprezzerete ancor più di prima.

Su certi monti ci son più case che persone

Il nostro paese è costruito secondo le abitudini dei montanari di un tempo, con le case in gruppo serrato: sceglievano il posto fuori dei canali, al riparo del bosco, e lì costruivano fitto. Un tempo, ci dovevano vivere fino a cinquecento persone, divise nelle quaranta case che ci sono, le case piene di gente, specialmente nella stagione che si esce volentieri sulla scala di pietra, dopo i lavori del giorno, dovevano ancora sembrare più vicine, e anche più allegre. Ora siamo rimasti in pochi, forse un mio coetaneo fuori nella California discende da uno che andò via dalla casa in faccia alla nostra, e del nostro paese non sa magari nemmeno più l’esistenza: siamo in sessanta, poco più del numero delle case. Così, la maggior parte delle case restano vuote.

(Giovanni Orelli, L’anno della valanga, Edizioni Casagrande, 1991-2017, pag.26; 1a ed. Mondadori 1965.)

Antichi sentieri e viabilità storica: la “scrittura” dell’uomo sul “libro” che è il territorio in cui vive

mulattiereOra che finalmente un po’ di neve è caduta oltre una certa quota, dedico spesso le mie uscite di corsa in montagna all’esplorazione di vecchie mulattiere e percorsi storici della zona, ormai scarsamente frequentati se non da qualche rado locale – quasi sempre cacciatori che raggiungono i propri capanni di caccia durante la stagione venatoria – o, ancor più raramente, da qualche escursionista amante della solitudine, anche perché comode strade carrozzabili hanno ormai sopperito ai loro scopi originari di collegamento tra i centri di fondovalle e gli abitati rurali in quota, a loro volta spesso abbandonati.
È un peccato che tali antichi tragitti siano ormai sostanzialmente dimenticati e, di conseguenza, spesso soggetti all’usura del tempo e in cattive condizioni: personalmente trovo a dir poco affascinante la loro percorrenza, perché è un po’ come muoversi lungo la storia di quelle zone e delle genti che le hanno vissute e abitate fin dall’antichità. Sono solito dire che il territorio in cui vive l’uomo è una sorta di libro le cui pagine sono le diverse zone che lo caratterizzano – il piano, i campi, la montagna, i boschi, gli alpeggi, eccetera – e sulle quali l’uomo scrive la propria storia comune col territorio stesso: la “scrittura” che ne consegue, il segno umano lasciato su quelle pagine naturali, è proprio la rete di strade, carrarecce, mulattiere e sentieri che letteralmente “racconta” quella storia comune, ovvero l’interazione con il territorio delle genti che lo hanno abitato.
Lungo i percorsi sui quali corro per allenamento e puro divertimento, sono transitati pastori con le proprie greggi, contadini, boscaioli, cacciatori, commercianti, pellegrini, forse anche antichi guerrieri di eserciti di conquista eppoi, in tempi più recenti, i primi escursionisti in senso moderno, i primigeni turisti di quei monti oppure i lavoratori che scendevano alle fabbriche del fondovalle – quando non per emigrare chissà dove in cerca di una vita migliore – e i bambini che vi si recavano a scuola ma pure, in circostanze ben più infauste, soldati di schieramenti opposti, combattenti, partigiani… Un vero e proprio libro di storia, insomma, scorre lungo quei percorsi, portando con sé le infinite storie di tutte quelle genti e l’essenza del tempo in cui sono vissute e durante il quale hanno sfruttato gli antichi tragitti.
In fondo, percorrerli oggi, pur con fini meramente ludico-sportivi come faccio io, è quasi come viaggiare grazie ad essi attraverso il tempo: si ha l’occasione di osservare il mondo d’intorno (quantunque cambiato e certamente più antropizzato d’un tempo) con lo stesso sguardo ovvero lo stesso punto di vista di quei progenitori, si transita dai boschi e dai pascoli che garantivano loro la pur scarsa sussistenza vitale, si attraversano antichissimi nuclei rurali in cui hanno vissuto intere generazioni non di rado senza mai allontanarsi, dunque facendo di quelle poche case il proprio mondo – una sorta di minuscola ma preziosa sfera vitale sospesa nello spazio-tempo -, si scoprono lungo i sentieri i segni del tentativo di rendere meno dura quella vita: stalle ormai diroccate, muri a secco di sostegno a terrazzamenti, fonti, lavatoi e abbeveratoi, piccole cave e calchere, a volte ingressi di anguste miniere oltre ai vari manufatti devozionali, non di rado posti in luoghi legati a ben più antiche suggestioni pagane.
Lo ribadisco: è un peccato che queste antiche vie rurali siano state dimenticate, e non solo dagli uomini contemporanei ma, sovente, anche dai loro amministratori locali. Certamente la manutenzione di esse non costa poco e abbisogna pure di personale preparato all’uopo (prima che inaudite gettate di cemento o d’asfalto, credendo di sistemare le cose, in realtà le rovinino del tutto: cosa che più volte mi è toccato constatare), ma mantenerle in buono stato è veramente come mantenere in altrettanto buono e vivo stato la storia e la memoria che conservano, e che è imprescindibile elemento identificante – oltre che valorizzante – il territorio stesso che ne è percorso e la gente che lo abita. Non serve ricordare come la conoscenza quanto più approfondita del paesaggio, da parte delle persone che lo abitano, è peculiarità fondamentale per l’identità di esse oltre che – per certi versi soprattutto – per la cura e la salvaguardia del territorio dal degrado e dal dissesto (il che significa pure da eventuali scempi cementizi imposti da spregiudicati speculatori a cui, palesemente, nulla interessa della storia e della bellezza di un territorio, peraltro nemmeno “loro”). Dunque, mi auguro che gli amministratori interessati comprendano l’importanza di mantenere vive quelle antiche vie di transito, ma ugualmente spero anche che le stesse possano tornare ad essere frequentate come meritano: e non solo per il retaggio culturale e antropologico che conservano, ma anche per la grande bellezza naturale e paesaggistica che regalano nel percorrerle. Un tesoro grande e prezioso che sovente abbiamo appena fuori dall’uscio di casa, e che dovremmo conoscere e saper apprezzare: faremmo così un favore a noi stessi, innanzi tutto.