Shackleton, una leggenda imperitura

[Shackleton durante la Spedizione Nimrod in Antartide del 1908.]
Leggo su “Il Post” che è stato trovato il relitto della Quest, la nave sulla quale il 5 gennaio 1922 morì il celebre esploratore Ernest Shackleton. La Quest affondò nel 1962 durante una battuta di caccia alla foca mentre navigava al largo delle coste del Labrador, in Canada, dopo essere rimasta intrappolata e schiacciata dal ghiaccio marino, subendo così una sorte simile all’altra celebre nave di Shackleton, la leggendaria Endurance (ritrovata nel 2022 a cento anni esatti dalla morte dell’esploratore).

[La “Quest” nel 1921.]
Ogni volta che si legge da qualche parte il nome Shackleton vengono alla mente non solo paesaggi polari di infinita vastità, ghiacci a perdita d’occhio e un’idea che si associa al termine “avventura” come pochissime altre, ma è lo stesso Shackleton a illuminarsi di nuovo della propria leggenda, e sempre vividamente, nel pensiero di tanti. Fu uno degli ultimi grandi esploratori nel senso originario del termine, quelli che ancora ebbero da esplorare parti della Terra dove mai nessuno prima era giunto, e fu un uomo dalla tempra e dalla volontà d’acciaio ma pure un sognatore, un genio, per certi aspetti un pazzo e comunque una figura il cui carisma ancora oggi è assai fulgido, al punto che ogni cosa riguardi la sua vita e le imprese compiute fa notizia in giro per il mondo.

[La nave “Endurance” in Antartide nel 1915.]
Poi, a me, viene anche in mente un libro dei tanti scritti sul grande esploratore britannico, che spiega in modo mirabile com’è nata la leggenda attorno alla sua figura, e questa è l’occasione buona per consigliarvelo: La lunga notte di Shackleton di Mirella Tenderini, che racconta innanzi tutto la famosa e famigerata spedizione della nave Endurance in Antartide del 1914-1916 ma pure molte significative vicende della vita di Shackleton che rivelano molto dell’uomo, del suo carattere, del pensiero e delle visioni che lo hanno reso così influente e indimenticabile. Leggetelo: sono certo che vi piacerà parecchio.

L’Antartide, la “speranza di ghiaccio” del pianeta

Sulle nostre Alpi i ghiacciai probabilmente (ma speriamo di no) spariranno quasi del tutto entro la fine di questo secolo, quelli dell’Himalaya e delle Ande non sono messi molto meglio e pure le ampie masse di ghiaccio iperboree, quelli delle terre intorno al Polo Nord, continuano a diminuire.

Per noi terrestri l’ultima “speranza glaciale” resta l’Antartide, anch’essa in sofferenza ma che, posta la sua vastità, permarrà ancora a lungo la più grande zona glaciale della Terra. Tuttavia di tale inestimabile tesoro di ghiaccio ne dobbiamo avere cura, tutti quanti, e altrettanto curare in noi la consapevolezza della sua delicatezza: sotto qualsiasi punto di vista ecologico, climatico, ambientale nonché perché l’Antartide è una sorta di mondo nel mondo, di pianeta alieno sulla Terra, il luogo che più si avvicina alle sembianze di un altro mondo. Lo dimostra bene l’immagine satellitare che vedete lì sopra, in realtà una composizione di più immagini ottenute dal satellite Aqua e dai suoi vari strumenti e poi elaborata dalla NASA il 21 settembre del 2005, in un periodo – che corrisponde alla fine dell’inverno australe – nel quale l’estensione e la concentrazione del ghiaccio raggiungono il massimo stagionale. A questo link potete anche vedere, navigare e scaricare l’immagine ad alta risoluzione (c’è anche quella dei ghiacci boreali, peraltro).

Purtroppo, se l’evoluzione del cambiamento climatico in corso continua come i report scientifici prevedono, c’è il rischio nel prossimo futuro che l’idea e la nozione più consone ai termini “ghiaccio” e “ghiacciaio” saranno solo quelle provenienti dall’Antartide. Per questo il continente antartico è e deve restare un luogo speciale, da preservare in ogni modo da qualsiasi intervento antropico non scientifico e troppo impattante. Una cura e un’attenzione che per certi versi e almeno in alcune circostanze avremmo dovuto – e dovremmo ancora – manifestare anche sulle nostre montagne ma, per inconsapevolezza o per negligenza, non abbiamo saputo – e non sappiamo ancora – palesare.

[Veduta del plateau antartico, la regione più fredda e inospitale della Terra. Foto di Stephen Hudson, opera propria, CC BY 2.5, fonte commons.wikimedia.org.]

La “conquista” definitiva degli Ottomila

È sconfortante vedere l’accumulo di rifiuti al Campo IV del monte Everest. Bombole di ossigeno vuote, cucchiai, scarpe e tende abbandonate sono soltanto alcuni degli oggetti che si trovano lungo il percorso verso la vetta. Una quantità tale da rendere la pulizia impossibile, nonostante quest’anno le autorità abbiano raccolto 13 tonnellate di rifiuti sull’Everest e sul vicino Lhotse.

Ecco: come potete vedere nel video qui sopra e leggere qui (un articolo tra i tanti al riguardo, dal quale ho tratto la citazione), si può dire che oggi, dopo 83 anni ovvero dalla salita dell’Annapurna nel 1950, la conquista degli “Ottomila”, le vette più elevate della Terra, si sia definitivamente compiuta. Infatti, dopo i primi grandi alpinisti, quelli venuti dopo, le spedizioni commerciali, i turisti, ecco che anche la civiltà umana ha salito le montagne più alte della Terra e vi ha lasciato il segno inequivocabile, e inesorabile, della sua “conquista”, la propria riconoscibilissima firma. Esattamente come già successo da tempo sulle Alpi, essendo più accessibili e facilmente conquistabili.

Dunque, a quando panchine giganti, passerelle panoramiche, lounge bar e fast food anche ai campi alti dei colossi himalayani? Magari con tanto di palme all’ingresso e spa a disposizione dei clienti… D’altronde sembra che la strada verso ciò sia stata ben imboccata anche laggiù, no?

O forse sarebbe finalmente il caso di regolamentare a fondo la salita degli Ottomila, decommercializzandola e al contempo attivando un’economia locale non più così ostaggio del turismo d’alta quota e delle sue consumistiche nefandezze? Magari cominciando dalle Alpi, così da farne un modello virtuoso per ogni territorio montano turistificato.

O forse il problema originale sta proprio qui, in questa mancanza nostrana ovvero nell’imposizione ormai secolare di certi modelli di fruizione turistica predante delle montagne, qui, che poi sono stati esportati anche laggiù e altrove. Già.

Alieni e antonomàsia

Credo che una civiltà aliena che non sia mai passata dalle parti della Terra e volesse saperne di più sulle creature che “dominano” il pianeta (peraltro solo in tal caso, in quanto civiltà che non conosca gli umani, potrebbe pensare di approcciarli: le altre civiltà aliene che ormai ne hanno buona conoscenza li evitano accuratamente!) e per tale motivo indagasse riguardo a quale oggetto, manufatto, simbolo o segno possa identificare in modo definito e antonomastico la suddetta razza terrestre e la presenza delle relative creature, alla fine converrebbe che l’oggetto umano in questione non potrebbe che essere questo:

Un oggetto ormai rintracciabile fuori da ogni dimora degli esseri umani e globalmente, sul pianeta – soprattutto nelle zone in cui sia attiva quella che gli umani chiamano “raccolta differenziata dei rifiuti domestici”. Già.

Il luogo “supremo”

[Nikolaj Konstantinovič Rerich, Kanchenjunga, 1938.]

Tutti i maestri soggiornarono nelle montagne. La conoscenza più alta, le canzoni più ispirate, i suoni e colori maggiormente superbi vengono creati sulle montagne. Sulle montagne più elevate risiede il Supremo. Le alte montagne si ergono a testimonianza della grandiosa realtà.

(Nikolaj Rerich, Himalayas. Abode of Light, Nicholas Roerich Museum Ed., New York, 2017.)

Non poteva che essere uno dei migliori pittori di montagne in assoluto (cliccate qui per conoscerlo meglio, grazie al sito dell’omonimo museo sito a New York) a condensare, in poche sentite parole, il simbolismo dal valore eterno che possiede la montagna, archetipo assoluto che fin dalla notte dei tempi rappresenta un luogo fondamentale per la cultura umana. Ed è così anche oggi come millenni fa, quando i primi umani presero a salire verso l’alto lungo i fianchi dei monti per sentirsi più vicino al cielo, sede del “divino”, dunque per sentire in sé un po’ di quella sacralità celeste. Anche oggi, nonostante le banalizzazioni materiali e immateriali – a volte comprensibili, altre volte inaccettabili – alle quali vengono sottoposte le montagne, che abbiano la forma di infrastrutture invadenti o di immaginari devianti ovvero, d’altro canto, di interventi minimi ma comunque marcanti, la montagna è il luogo terreno (del) supremo per antonomasia. E lo sarà sempre, anche nel caso in cui l’uomo dimenticherà definitivamente questa ancestrale verità.