I panorami, le panchine giganti e noi poveri scemi

[Una escursionista primitiva che osserva il paesaggio indegnamente seduta per terra. Vergogna!]
Certo che dovevamo essere ben scemi noi che siamo andati per decenni sulle montagne o in altri posti notevoli e, giunti in qualche punto panoramico, non abbiamo mai capito che per goderne sul serio la bellezza c’era bisogno di una panchina gigante, di una passerella a sbalzo, un ponte tibetano o altre cose simili! E per questo quante buone occasioni per scattarci un selfie da postare sui social ci siamo persi, poi!?

Assurdo, vero?

Gli escursionisti di oggi invece sì che si sono fatti intelligenti e hanno capito che senza di quelle cose i posti e i panorami belli mica si possono vedere veramente! Così, coi loro smartphone di ultimissima generazione, arrivano lassù, salgono sulla panchinona (occhio a non cadere!) o sulla passerella a sbalzo (wow, che brividi!) scattano un paio di selfies, li postano all’istante sui social e via, al prossimo panorama!

[Oggi il paesaggio è superfigo osservarlo da una panchina gigante così! Wow!]
Ah, ma com’è che si chiamava il posto? Vabbé, chi se ne importa: il selfie è on line e sta facendo un botto di like, questo conta!

Già.

Scemi noi a non aver mai capito come funzionavano le cose, ad arrivare lassù e a osservare il paesaggio seduti per terra, su un tronco o, quando ci andava bene, su una ordinaria panchina di legno, e magari restando lì per delle mezz’ore a cercare di riconoscere le montagne, le valli, i paesi, e ogni altra cosa che vedevamo oppure, semplicemente, a perdere lo sguardo (scemi e pure svampiti, noi) nella bellezza che avevamo di fronte. Che primitivi!

Un’immagine che dice più di mille parole

Come spesso accade, più di mille parole basta una sola immagine a far capire senza alcun dubbio certe realtà (in verità palesi ma, evidentemente, non per tutti).

Ecco: ad esempio la fotografia qui sopra – postata dall’amico Toni Farina sulla propria pagina Facebook – della panchina gigante di Piamprato, sopra Valprato Soana, credo renda perfettamente l’idea di quanto tali manufatti turistici siano brutti, fuori contesto, insulsi, degradanti rispetto ai luoghi ai quali vengono imposti. Potete cliccarci sopra per ingrandirla e capire ancora meglio quanto vi sto rimarcando.

Un oggetto totalmente fuori posto in un contesto palesemente differente in tutto – nei suoi elementi naturali, nei colori, nei profili morfologici, nell’estetica del paesaggio ma pure nel senso culturale che chi lo visita dovrebbe saper cogliere. Come una mosca che dia insistentemente fastidio quando ci si vuole rilassare sul divano, come un tizio che urli e parli sguaiatamente in una galleria d’arte oppure come una pizza surgelata e riscaldata offerta in un ristorante gourmet.

Orribile, senza se e senza ma.

Per di più, la panchinona ritratta nell’immagine, in quanto posta a poca distanza da quel Monveso di Forzo che è stato reso “Montagna Sacra” ovvero simbolo naturale di quel necessario e consapevole senso del limite che dovrebbe guidare ogni iniziativa messa in atto in territori tanto pregiati quanto delicati come quelli montani, e che con tutta evidenza i manufatti come le panchine giganti calpestano cinicamente.

Chiedo dunque agli amici della Val Soana – territorio meraviglioso, tra i più belli di questo settore delle Alpi occidentali: non sarebbe il caso di farla sparire, quell’orribile panchina gigante? La bellezza, il valore e la considerazione diffusa della valle e della sua bellezza ne trarrebbe un grande guadagno, poco ma sicuro.

La panchina gigante più “coerente”?

Ormai credo lo sappiate benissimo – voi che leggete con una certa abitudine questo blog o le mie pagine social – cosa ne penso delle “panchine giganti” o Big Bench le quali, pur nella loro apparente (per alcuni) “simpatia”, ritengo rappresentino uno dei punti più bassi della turistificazione del paesaggio e della banalizzazione della sua frequentazione – nonché, in fondo, una sostanziale e nemmeno troppo sottintesa presa in giro dello stesso turista e della sua esperienza di visita.

In ogni caso, tra le tante serialmente piazzate un po’ ovunque, ce n’è una che appare (per quanto possibile) ancora più incongrua delle altre: è a Santa Maria Hoè, nella Brianza lecchese, e offre un bellissimo panorama… sul tornante di una strada asfaltata (si veda qui sotto)! «Bel panorama anche se non si vede direttamente dalla seduta» infatti si legge in una recensione su Google Maps, e d’altronde per godere della vastissima veduta della Brianza visibile da lassù basta andare da qualche altra parte nella località lecchese, senza bisogno di nessun “simpatico” giocattolone per adulti poco sensibili al paesaggio e alla sua autentica percezione. Come dovrebbe essere logico, peraltro.

A ben vedere, tuttavia, si potrebbe pure pensare che la panchinona di Santa Maria Hoè sia viceversa ben più coerente di tante altre con la sua stessa natura: cioè un manufatto così vuoto di senso e di valore culturale, in sé e rispetto al luogo in cui si trova – ovunque sia piazzata – ovvero così banalizzante da non potersi che affacciare su una veduta altrettanto banale e desolata come quella d’una strada asfaltata!

Dunque, forse, non c’è da biasimare i promotori della panchinona di Santa Maria Hoé ma bisogna complimentarsi con essi: hanno saputo palesare il senso effettivo e la reale sostanza di tali opere turistiche meglio di centinaia di altri siti, ben più banalizzati e degradati dalla loro presenza! Bravi!

P.S.: ringrazio l’amico Paolo Canton che mi ha ricordato l’esistenza (e l’essenza) di tale panchinona alto-brianzola.

Le panchine giganti e la maionese

Marcare il territorio, imprimere un segno che duri oltre il nostro passaggio è più che un’abitudine: piuttosto una necessità che condividiamo con buona parte del regno animale. Ma a differenza delle fatte e delle secrezioni ghiandolari, alcuni dei segni che ci lasciamo alle spalle sono più permanenti, differenziati e controversi nel messaggio. Sono due in particolare i modi – individuali o collettivi – di marcare il territorio in montagna su cui merita soffermarsi.
Il primo potremmo chiamarlo la sindrome della maionese sui tajarìn al tartufo (o del Parmigiano sul pesce o della panna nella carbonara…). Consiste nell’installare in ambienti montani remoti e ancora relativamente integri (i tajarìn al tartufo) degli elementi di per sé validi (come la maionese, verso la quale non ho alcun pregiudizio), che avrebbero lo scopo di esaltare il contesto, ma che di fatto lo peggiorano perché sono di troppo.
Oltre all’italianissimo fenomeno delle panchine giganti che ormai fa categoria a sé, appartengono a questa famiglia le targhe, le installazioni artistiche o i pannelli dai contenuti scientifici o poetici che dovrebbero elevare il nostro spirito e aiutarci a interpretare il paesaggio. Tuttavia questi elementi, se troppo numerosi o invadenti finiscono per diventare inopportuni: impedendo di restare da soli con la montagna, di fatto impoveriscono la nostra esperienza. Due cose buone male assortite non ne fanno una ottima.

[Tratto da Irene Borgna, Note di antropologia alpina. Lasciare traccia, su “La Rivista del Club Alpino Italiano” n°1, marzo 2023.]

Non posso che condividere convintamente le osservazioni della mirabile Irene Borgna – ancor più sviluppate poi nel resto dell’articolo sul bimensile del CAI (al quale vi rimando per la lettura integrale): peraltro, l’impressione ulteriore che da sempre ricavo dalle fenomenologie citate, quand’esse diventano eccessive, è quella di trattare i frequentatori dei luoghi montani adornati da quegli elementi come dei bambini un po’ stupidotti che hanno bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare, lì dove sono. Se il pannello con le nozioni culturali su un certo luogo altrimenti ignorate dai più è importante e certamente utile, molti altri che sostanzialmente impongono una determinata interpretazione del paesaggio finiscono per uniformarne inesorabilmente la visione, mentre il paesaggio, essendo un costrutto che potenzialmente viene elaborato da ciascun individuo in modo singolare, al netto degli immaginari convenzionali in uso, potrebbe essere uno oppure potrebbero essere innumerevoli – e di certo tali sono nella componente mentale e emozionale del costrutto che il paesaggio rappresenta. Per non parlare poi delle panchine giganti, a mio modo di vedere uno dei punti più bassi della fenomenologia pseudo-turistica in questione, senza la cui presenza si direbbe che a molti non verrebbe in mente di visitare il luogo nel quale sono installate ma, nel momento in cui lo visitano, il valore principale di esso diventa la stessa megapanchina e non il luogo, mera scenografia che fa da sfondo al manufatto (e ai selfies di circostanza) nonché alla sua fruizione ludica. Tutto ciò senza che alcuna nozione culturale sul luogo venga trasmessa e, soprattutto, possa essere appresa, non essendoci le condizioni affinché ciò avvenga e non essendo questo lo scopo dei suoi fruitori, trattati (e portati a comportarsi) come bambinoni a cui venga offerto un giocattolo con il quale sollazzarsi e così attrarli in loco ma, come dice Borgna, offrendo loro un’esperienza impoverita e banalizzata ovvero una relazione futile, mediata e deviata con il luogo, a sua volta trattato come fosse poco interessante e carente di bellezza tanto da dover essere “agghindato” dalla panchinona.

D’altro canto, se due cose buone male assortite non ne fanno una ottima, figuriamoci se una delle due è pure brutta, oltre che fuori contesto. Il danno al territorio e al suo paesaggio è bell’e servito, inevitabilmente.

Montagne “valorizzate”, cioè degradate

Come anticipavo nel post dello scorso 30 dicembre, voglio tornare ad approfondire l’emblematica questione relativa a certe opere a fini presuntamente turistici piazzate in luoghi di particolare pregio ambientale e paesaggistico, questione dalla quale sorgono spontaneamente domande che non si possono evitare, se realmente si tiene a quei luoghi e al loro grande valore.

La prima e principale di queste domande è: ma la montagna, ambito unanimemente riconosciuto come fonte di bellezza e di fascino naturali – a prescindere che la si frequenti o meno – veramente deve avere bisogno di manufatti ludici così simili a giostre per adulti come panchinone giganti, ponti tibetani, passerelle panoramiche, certi impianti di risalita o quant’altro di simile affinché quella sua bellezza possa essere riconosciuta? Cioè, senza questi manufatti non si è in grado di riconoscere quant’è bella la montagna e apprezzarne il fascino? Veramente senza quelle cose non si sale sui monti per goderne lo spettacolo, veramente sono necessarie per portarci così tante persone?

Ma se la bellezza delle montagne così evidente da diventare metro di paragone nell’immaginario estetico condiviso da tutti non viene riconosciuta, il problema non è certo delle montagne ma di chi non le sa riconoscere! E dunque perché bisogna imporre ai territori montani quelle opere quasi sempre decontestuali, banalizzanti, impattanti, tanto più che di frequente vengono piazzate in luoghi particolarmente ameni tanto quanto preziosi e delicati, se la colpa non è loro? Se io non sono in grado di riconoscere il valore artistico di un capolavoro riconosciuto di Raffaello (un nome tra tanti), è forse colpa del quadro? E quindi bisogna modificarlo affinché diventi più “comprensibile” a quelli come me?

Capite bene, dunque, che tutti quei manufatti ludico-turistici con i quali si pretende di “valorizzare” la montagna in realtà la degradano sotto ogni punto di vista. Parimenti capirete bene che il problema non è nella montagna ma è in chi la frequenta senza saper maturare una consona consapevolezza culturale circa il valore del luogo e circa la sua autentica bellezza, nonché verso la fortuna e il godimento dello starci generando di conseguenza una relazione genuina con esso, non imposta da qualcuno e mediata da qualcosa. Come se molte persone senza panchinone giganti o altre simili “amenità” non siano in grado di poter apprezzare la montagna, come se fossero talmente “stupide” da non saper fare ciò. Cosa che mi rifiuto totalmente di poter sostenere, nonostante tutto.

D’altro canto, c’è assolutamente bisogno di sovvertire quanto prima certi immaginari turistici così profondamente deleteri e pericolosi, certe idee di fruizione dei territori montani totalmente basate sul più bieco marketing, su slogan privi di qualsiasi rispetto per i monti e certi modus operandi della politica locale che pur di ottenere tornaconti più o meno elettorali accetta di svendere le proprie montagne come fossero beni di consumo da ipermercato, creando dove ciò succede dei “non luoghi” quando ovunque la montagna è luogo nel senso più pieno e potente del termine. Ove questo accade, e si è tanto scellerati da farlo accadere e da non capire il danno che si sta perpetrando, è mille volte meglio che in un “non luogo montano” del genere – lo dico molto rudemente ma francamente – nessuno più di non capisce ci possa andare. A tal punto è molto meglio il silenzio, il vuoto, i soli suoni naturali, il “nulla” che in realtà è il “tutto” che certuni non sanno più riconoscere, la piena bellezza che così non viene più identificata.

Dove invece si capisce quanto sia fondamentale ricostruire un’autentica relazione consapevole con le montagne, e su tale base ineluttabile si costruisca una frequentazione di esse del tutto armonica ai loro territori e ai relativi meravigliosi paesaggi, ben venga chiunque: tutto comporrà quella bellezza inestimabile che la montagna sa naturalmente offrire e che rappresenta il presente più appagante da vivere e il futuro migliore da costruire, per i monti e per tutti noi.