Una cosa alla quale noi animali-umani dovremmo assolutamente ambire

Credo che una delle cose fondamentali che noi esseri umani – noi cosiddetti Sapiensdobbiamo perseguire per poterci dire realmente tali e giustificare quell’attributo auto-assegnatoci, è il più alto livello possibile di empatia nei confronti delle altre creature viventi, in primis degli animalitutti gli animali, non soltanto quelli più vicini a noi e graditi.

D’altro canto la parola “empatia” viene dal greco en-páthos, «sentire dentro», principalmente in riferimento alle emozioni altrui, ma che si potrebbe riferire anche al fatto che siamo animali pure noi umani, sebbene ce lo dimentichiamo spesso (strano per la creatura più “evoluta” sul pianeta!), dunque ciò che si sentiamo dentro ha un’origine simile a quello che ogni altro animale elabora dentro di sé.

Una relazione compiutamente empatica con le altre razze animali che insieme a noi vivono su questo pianeta non è solo una manifestazione di sensibilità e rispetto verso la Natura – della quale siamo pienamente parte, ribadisco – ma è anche un esercizio di considerazione e consapevolezza verso noi stessi: perché poche altre cose (forse nessun’altra?) può darci tanto e insegnarci moltissimo come un rapporto di autentica empatia con gli animali.

[Immagine tratta da www.compassion-contagion.com/fieldnotes/animalspeople.]
Solitamente si disserta su quanto gli animali, in particolar modo quelli domestici ovviamente, sappiano essere empatici con noi umani. Ma viceversa? Quanto sappiamo esserlo noi con loro? In maniera autentica e complessa, s’intende, non in forza dei semplici comandi grazie ai quali interagiamo con essi o dell’affetto che ci lega.

Be’, lo ribadisco: credo sia una delle massime aspirazioni alla quale noi umani dovremmo ambire, una condizione la cui comprensione dell’importanza fondamentale dovrebbe essere di default nella nostra intelligenza. Quelli più edotti al riguardo forse la definirebbero un esercizio di ecosofia; gli altri, tra i quali me, la possono pure indicare come una manifestazione della più nobile, compiuta e olistica umanità.

Bisogna imparare a riconoscere e a rispettare negli altri animali i sentimenti che vibrano in noi stessi.

[John Oswald, The Cry of Nature; or, An Appeal to Mercy and to Justice, on Behalf of the Persecuted Animals, 1791.]

Il clima è «impazzito»?

[Foto di Dieter Ludwig Scharnagl da Pixabay]
Dunque, facciamo il punto della situazione.

Lo scorso autunno era estate.
Lo scorso inverno era autunno, e pure di quelli miti.
Questa primavera sembra inverno ma con temperature autunnali.
Infine ci sono buone probabilità che se la primavera – quella propriamente detta – arriverà, sembrerà già estate, la quale quando poi giungerà veramente porterà temperature viepiù africane, altro che europee.

Molti lo definiscono «clima impazzito» ma è la definizione più stupida che si possa utilizzare, buona per i titoli dei TG e dei media generalisti e in realtà funzionale a non andare oltre con la comprensione della realtà in corso. «Il clima? È impazzito, che ci possiamo fare?» Eh, infatti: che facciamo? Nulla?

Già, probabilmente la pazzia è altrove, non nel clima.

Nella natura non “abbiamo” ma “siamo”

[Foto di Joe da Pixabay.]

Diciamo che andiamo “fuori” nella natura, ma io direi che andiamo “nella” natura. Quando vai nella natura selvaggia hai l’opportunità di ascoltare te stesso, di ascoltare la tua anima più profonda: Cosa voglio? Cosa mi piace? Cosa non mi piace? Come può la mia… chiamiamola “qualità della vita” essere mantenuta o migliorata? Non si tratta di beni o di qualità ma di ciò che senti di essere, di come percepisci la vita. Che cosa ci rende felici? E come possiamo averne di più?
Esistono delle forze molto potenti nella società che ci vorrebbero indurre a consumare sempre di più, a scoprire cose di cui pensiamo di aver bisogno.
Si crea uno stile di vita che non potrà mai appartenere a tutti semplicemente perché in tal modo il mondo andrebbe a rotoli.
Invece dovremmo seguire un nostro personale stile di vita in cui cercare di capire di cosa abbiamo veramente bisogno, anziché aspirare a ciò che ci propinano la società o l’economia. Quindi l’essere è molto più importante dell’avere.

[Arne Næss, dal film Loop (“Ciclo infinito”, 2005, regia di Sjur Paulsen), citato in Alessandro Gogna, Il loop di Arne Næss, pubblicato su “Gogna Blog” il 18 novembre 2015.]

Di Næss, uno dei più grandi filosofi europei del Novecento, padre dell’ecologia profonda nonché valente alpinista, la scorsa domenica 14 gennaio si è ricordato il quindicennale dalla scomparsa.

Una cosa che non ho capito

Non ho ancora capito, dopo che sono passati ormai più di quattro anni dell’entrata in servizio di Loki in qualità di segretario personale (a forma di cane), se la quotidiana passeggiata serale – be’, è più una corsa sincopata e un po’ isterica, a dire il vero – per i boschi intorno casa sia un obbligo che sento di dovere (appunto) a Loki, oppure se sia il contrario, che Loki richieda di uscire quotidianamente intuendo in qualche modo che la passeggiata di corsa faccia bene anche a me.

Oppure se sia una sorta di reciproca “premura”, funzionale a rivitalizzare – ciascuno a modo suo – la nostra parte più selvatica nel rinnovato contatto con l’ambiente naturale, almeno per quell’oretta serale di vagabondaggio silvestre (anche invernale, con consone torce e luci al seguito).

Chissà se lo capirò, prima o poi.

(Foto: Prato nel bosco con cane, autunno 2022.)

Una cosa forse troppo difficile, per il Sapiens

L’imperitura e invariabile costanza che noi Sapiens (per semplicità comprensiva uso il termine al plurale, anche se so che è un errore) mettiamo nel cercare di ricondurre e interpretare ogni cosa che esiste al mondo intorno a noi, animata o no, a una visione rigidamente antropica quando non antropocentrica, seppur per alcuni versi è qualcosa di comprensibile temo che per tutti gli altri versi sia la riprova di come la cultura che anima la civiltà umana sia tanto funzionale ai suoi interessi evolutivi – e fin qui ci sta – quanto disfunzionale ai bisogni di tutto quello che vi sta intorno ovvero al mondo e a ciò che contiene, animato o no. In altri termini, è il principio di fondo in base al quale e sempre più nel tempo noi Sapiens siamo diventati disarmonici rispetto alla sfera vitale nella quale stiamo, disconnessi da essa, decontestuali, per molti aspetti antitetici al suo ordine naturale, nonché uno dei motivi per i quali siamo incapaci di comprenderne la realtà.

D’altro canto, come possiamo pretendere di capire il mondo che umanizziamo, antropomorfizziamo, che pensiamo in grado di esistere solo se sottoposto alle leggi e alle regole (o alle fregole) con le quali abbiamo organizzato la nostra civiltà, se a ben vedere – historia docetnon siamo nemmeno in grado di capire noi stessi e i nostri comportamenti? E di conseguenza come possiamo pensare di salvaguardare il mondo in cui viviamo se formalmente diciamo di volerlo fare ma sostanzialmente miriamo sempre e solo a salvaguardare noi stessi? Ma, appunto: sul serio pensiamo di saper salvaguardare noi stessi quando facciamo di tutto per rovinarci vicendevolmente?

Siamo in un cul-de-sac, chiaramente. Dal quale possiamo uscire solo nel momento in cui sappiamo – sapremo – riconnetterci e riarmonizzarci con tutto quanto abbiamo intorno riuscendo a comprenderne la realtà effettiva e peculiare. Che in parole povere si può riassumere con: ne usciremo quando ci toglieremo di mezzo dal centro del mondo nel quale ci siamo prepotentemente piazzati e dal quale sprezzanti di tutto non vogliamo spostarci. Senza per ciò metterci un passo indietro da ogni altra cosa dopo che abbiamo voluto stare per troppo tempo svariati passi avanti, ma ben più semplicemente e equamente, mettendoci a fianco di ogni altra cosa, di ogni altra creatura, entità, elemento, camminando nel tempo lungo vie diverse l’una dall’altra ma che puntano tutte nella stessa direzione, verso una medesima meta.

Ecco.

Troppo difficile, dite?

Uhm… Forse sì, troppo difficile per noi “Sapiens”. Già.