(Articolo pubblicato il 17 novembre 2024 su “L’AltraMontagna”, cliccate qui sotto per leggerlo in originale.)
La scorsa estate è iniziata la costruzione del primo grande parco solare sulle Alpi svizzere, a Sedrun nel Cantone Grigioni. L’impianto sarà composto da 5.700 pannelli solari su una superficie di circa 300mila metri quadrati e avrà una capacità di produzione di 19,3 Megawatt, sufficiente a coprire il fabbisogno di 6.500 famiglie. Il progetto, dal costo previsto di 85 milioni di Franchi (poco più di 90 milioni di Euro), è stato approvato in votazione pubblica dalla comunità locale e ha ottenuto anche il benestare delle associazioni ambientaliste, che hanno valutato positivamente l’attenzione al contenimento dell’impatto visivo del parco solare e la sua ubicazione su un versante già antropizzato, sul quale già si trovano piste e impianti sciistici, strade di servizio, barriere paravalanghe.
[Un rendering panoramico del parco solare di Sedrun.]Quello grigionese è il primo progetto avviato di una serie di altri cinquanta presentati a seguito della modifica urgente della legge sull’energia grazie alla quale il Parlamento svizzero ha deciso di favorire la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici sulle Alpi. Impianti che, nelle intenzioni, dovrebbero essere in grado di generare almeno 2 dei 45 terawatt/ora all’anno di cui il Paese avrà bisogno nei prossimi decenni, nell’ottica delle proprie politiche di contenimento dell’uso dei combustibili fossili e di transizione alle energie rinnovabili. Per arrivare a una produzione complessiva in Svizzera di 2 terawatt la Confederazione garantirà un finanziamento pubblico del 60% agli impianti che generano almeno 500 chilowattora e una produzione annua minima pari a 10 gigawattora. La condizione è che i progetti vengano depositati entro il 2025 e sino a raggiungimento dell’obiettivo. Bisogna denotare che ad oggi solo quattro di quei cinquanta progetti presentati hanno ottenuto i necessari permessi di realizzazione.
[I primi pannelli solari dell’impianto installato sulla diga di Muttsee. Immagine tratta da https://www.axpo.com.]Altrove le proposte di parchi solari nei territori montani svizzeri non sono state accolte con pari consenso come a Sedrun: molte sono state respinte dalle comunità locali, mentre altri progetti, ad esempio quello previsto sul Passo del Bernina a poca distanza dal confine italiano, è stato ridimensionato a seguito delle resistenze delle organizzazioni ambientaliste. In ogni caso da uno sguardo complessivo a tali progetti pare intuibile la strategia attraverso la quale la Svizzera intende muoversi al riguardo: impianti in zone già antropizzate e prive di particolari valenze naturalistiche, ad esempio come quelle sulle quali già insistono comprensori sciistici, e con la produzione energetica destinata innanzi tutto al fabbisogno delle comunità locali, il che dovrebbe anche servire a limitarne l’estensione e di conseguenza l’impatto ambientale. A tutto ciò si aggiunge l’altro ambito della produzione energetica fotovoltaica nel quale la Svizzera già da tempo sta realizzando numerosi progetti, quello dell’installazione di pannelli solari sui muri di alcune grandi dighe alpine da parte delle stesse società dell’energia idroelettrica: si tratta di impianti relativamente piccoli (il più grande, quello della diga di Muttsee, produce 2,2 MW, quasi nove volte meno del parco solare di Sedrun; lo vedete nell’immagine qui sopra) ma virtualmente replicabili su quasi ogni sbarramento montano e con l’evidente vantaggio di utilizzare manufatti già esistenti senza occupare terreno naturale libero in quota.
Perché è interessante valutare come la Svizzera si stia muovendo su tale questione? [continua su “L’AltraMontagna”, qui.]
In tema di clima, la verità è solo una e ormai palese:siamo nella merda.
Scusate la franchezza lessicale, ma è figlia inevitabile della franchezza intellettuale che è necessaria, nella realtà in cui stiamo.
Posto ciò, i casi conseguenti sono invece due: o ci impegniamo a spalarla via il più possibile, seppur al punto in cui siamo sarà inevitabile sporcarsi almeno un po’, oppure impariamo a galleggiarci dentro, ovviamente con mute, respiratori, filtri eccetera ma tant’è.
In entrambi i casi ci dovremo avere a che fare, con la sostanza citata, e vedremo se “sopravvivremo” (virgolette necessarie) perché non ci sapremo abituare alla sua puzza e dunque la contrasteremo oppure perché ci faremo l’abitudine.
Intanto a Baku, in Azerbaigian, è in corso l’ennesima COP, la numero 29. Per quanto se ne legge al riguardo sui media – un evento importante, necessario, imprescindibile, bla bla bla… – sarà una conferenza nella quale si prenderanno importanti decisioni: sì, su come distribuire mute e respiratori ai pochi che se li potranno permettere per galleggiare senza troppi problemi nel mondo (di m…) che ci aspetta.
Per tutti gli altri invece, ribadisco: o ci attrezziamo di una bella e robusta pala, oppure proviamo a convincerci che, tutto sommato, la puzza di merda non è poi così sgradevole.
Io, se posso dire, preferisco la prima. Che poi il movimento fisico fa sempre bene, ecco.
[Valencia, qualche giorno fa. Immagine tratta da europa.today.it.]In ogni caso: sursum corda e coraggio, che ne avremo molto ma molto bisogno. Ma proprio tanto.
Qualche tempo fa il quotidiano svizzero Tages-Anzeiger ha pubblicato in un articolo alquanto eloquente i rilievi e le simulazioni grafiche con le quali il Politecnico Federale di Zurigo e l’Università di Friburgo mostrano l’evoluzione da oggi al 2100 di cinque tra i più noti ghiacciai svizzeri, che ad oggi rappresentano forse la più efficace raffigurazione visiva di ciò che sta accadendo a quegli apparati glaciali e, in generale, a tutti ghiacciai delle Alpi. Gli autori dello studio sono Matthias Huss e Enrico Mattea, tra i maggiori studiosi accademici ed esperti elvetici di glaciologia, con ideazione e progettazione di Mathias Lutz e Marc Brupbacher.
Le simulazioni mostrano quanto i ghiacciai potrebbero fondere entro la fine del secolo in corso nel caso in cui non verranno attuate politiche di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e nel caso che invece tali politiche saranno attuate, e in ogni caso l’animazione le rende particolarmente impressionanti, mostrando anche come le montagne che ospitano i ghiacciai analizzati cambieranno d’aspetto e nel proprio paesaggio. I testi a corredo sono in tedesco, ma la traduzione automatica in italiano offerta da Google è decente e li rende ben comprensibili.
I cinque ghiacciai analizzati sono quelli del Rodano, del Morteratsch, dell’Aletsch, del Gorner (questi due rispettivamente il primo e il secondo più grande ghiacciaio delle Alpi) e del Silvretta. Qui sotto vedete alcune immagini della simulazione animata riguardante il Ghiacciaio del Morteratsch, il più grande del massiccio del Bernina in Engadina, a poca distanza dal confine con l’Italia (lo vedete com’è oggi nell’immagine in testa al post); cliccateci sopra per vederle animate.
A compendio delle simulazioni presentate, gli autori dello studio così riassumono la realtà attuale dei ghiacciai svizzeri e alpini:
Ad eccezione di pochissimi ghiacciai che hanno origine oltre i 4.000 metri, nel peggiore dei casi tutto il ghiaccio che li forma scomparirà. Con il peggiore sviluppo climatico ipotizzabile (quello senza efficaci politiche di protezione del clima) non solo i ghiacciai ma anche l’intera popolazione soffrirebbero di gravi disagi: l’aumento della temperatura in Svizzera sarebbe ben al di sopra della media mondiale di 4,4 gradi, il che porterebbe a tutta una serie di altri effetti e di problemi come temperature estreme, caldo, siccità e forti piogge. La reazione dei ghiacciai al raggiungimento dell’obiettivo di 1,5 °C (dunque con la messa in atto di efficaci politiche di protezione del clima) è molto diversa: mentre alcuni ghiacciai (Unteraar, Plaine Morte, Forno) scompariranno quasi completamente entro il 2100, altri riusciranno a conservare più della metà del loro volume attuale (Gorner, Fiescher, Allalin).
Risalta con tutta evidenza, nello studio, la necessità di svincolare il nostro modello economico dall’utilizzo dei combustibili fossili per cercare di ridurre il più possibile le emissioni di CO2 entro il 2050 secondo quanto stabilito dall’Accordo di Parigi del 2015, con il quale si è stabilito di non superare il limite di 1.5°C rispetto alle temperature pre-industriali. Per tale motivo lo studio mostra di contro gli effetti cagionati anche dallo scenario climatico peggiore, quello che non vedrà sostanziali decrementi a livello mondiale nell’uso di carbone, gas e petrolio, per il quale si prevede un aumento delle temperature nella regione alpina superiore ai 4,4°C medi globali.
[Tabelle interattive che mostrano le variazioni del volume dei maggiori ghiacciai svizzeri da qui al 2100. Cliccateci sopra per vedere tutte le tabelle pubblicate.]In ogni caso, come ho scritto più volte in diversi articoli qui sul blog e altrove, la visione delle Alpi che ci aspetta nei prossimi decenni sarà radicalmente diversa rispetto a quella attuale e che fino ad oggi ha determinato l’immaginario comune in tema di montagne e ghiacciai. Osserveremo e vivremo un paesaggio alpino diverso, in certi casi molto diverso rispetto a prima, che renderà inevitabilmente differente anche la nostra relazione culturale e antropologica con esso ma pure la quotidianità vissuta tra i monti. Posta la realtà climatica in divenire e i suoi effetti sta a noi determinare quanto migliore o peggiore sarà, la nostra vita sulle “nuove” Alpi.
N.B.: nel portale web del Glamos, la rete di monitoraggio dei ghiacciai svizzeri il cui responsabile è Matthias Huss, uno degli autori dello studio di cui avete letto, trovate le schede estremamente dettagliate di tutti i ghiacciai monitorati dalla rete nonché una gran messe di dati relativi a tutti i 1.400 apparati glaciali della Svizzera: https://glamos.ch/it/#/C14-10
[Foto di Chris Gallagher su Unsplash.]Avendo la fortuna e il privilegio di poter chiacchierare spesso con amici e conoscenti climatologi, glaciologi, biologi, naturalisti ma pure con sociologi e antropologi, nel discutere di percezione del cambiamento climatico nell’opinione pubblica c’è un aspetto che appare drammatico anche più degli altri. Non è la presa d’atto che realmente il clima sta cambiando, ormai dubitata e negata solo da qualche mentecatto e dai pochi che mentono sapendo di mentire e facendolo per mera ideologia – e d’altro canto ciò che sta accadendo al clima è palesemente sotto gli occhi di tutti. Semmai il vero dramma è che la grandissima parte di noi opinione pubblica e società civile, pur sapendo del cambiamento climatico, non si sta rendendo conto delle conseguenze che comporterà a chiunque. Conseguenze importanti e sovente gravi le cui cause sono in corso da tempo così che quelle che constatiamo oggi – fenomeni meteo estremi, cicli biologici alterati, situazioni di carenza idrica, eccetera – sono solo l’inizio di una catena di eventi che contraddistinguerà sempre di più gli anni futuri, coinvolgendoci in modo crescente e collettivo con effetti formalmente ipotizzabili ma in sostanza largamente imprevedibili.
Al momento, nonostante siamo in un periodo dell’anno nel quale dovremmo rabbrividire dal freddo e invece ci basta avere indosso una felpa e le stazioni sciistiche appaiono coi prati accanto alle piste come fosse primavera inoltrata, la grandissima parte di noi continua a rimuovere dalla propria mente i pensieri e la considerazione del problema, trascurandolo, ignorandolo o minimizzandolo nella convinzione che il peggio accadrà sempre a qualcun altro e che comunque, in un modo o nell’altro, ce la caveremo come ce la siamo sempre cavata fino a oggi. Tanto, cosa volete che sia una differenza di mezzo grado in più o in meno! Poca roba, vero?
No, falso:
E se l’aumento delle temperature globali andasse oltre il mezzo grado preso ad esempio nella tabella soprastante (tratta da questo articolo di “Swissinfo.ch”), come peraltro tutti i report scientifici danno per praticamente certo da qui a pochi anni?
Cioè, per dirla in altro e più comprensibile modo: e se invece stavolta non ce la cavassimo? Se, come detto, il peggio dovesse ancora accadere e per questo non riuscissimo a renderci conto di quanto ci potrebbe aspettare e non tra un secolo ma già nei prossimi anni?
[Il Po in secca, la scorsa estate 2022. Immagine tratta da qui.]Durante una delle chiacchierate suddette un amico ha chiesto a un entomologo e ricercatore universitario con il quale si parlava degli effetti del riscaldamento globale sugli ecosistemi agrari, in base alla sua esperienza accademica e professionale quanto l’umanità (passatemi la scurrilità, ma è per rendere letteralmente il dialogo) sia «nella merda», da uno a dieci. L’entomologo, sorridendo amaramente e senza esitare, ha risposto: «dieci». Ed è la stessa risposta ricevuta per domande analoghe da molti altri scienziati di varia specializzazione.
Tutto ciò è “catastrofismo”? Be’, è il termine più in voga tra quelli che capiscono meno, o non vogliono capire, la questione.
Ecoansia? È un atteggiamento opposto al primo nella forma ma pressoché identico nella sostanza delle conseguenze.
In verità, siamo tutti quanti – catastrofisti e ecoansiosi tanto quanto assennati e raziocinanti – a bordo di una nave il cui scafo presenta numerose falle e imbarca acqua ma che si può ancora rassettare e rimettere in linea di galleggiamento. Quelli che negano che la nave abbia problemi e quegli altri che si mettono a urlare disperati sono parimenti dannosi e inutili all’obiettivo prefissato, cioè aggiustare tutti insieme la nave affinché si possa continuare la navigazione comune nel mare dello spazio e del tempo. Ma è necessario sforzarsi riguardo la necessaria comprensione di quanto sta accadendo e delle sue conseguenze certe, potenziali e possibili: è la consapevolezza fondamentale non solo per resistere alla realtà in divenire e elaborare la più consona resilienza – oltre che per mettere al bando negazionisti, catastrofisti, ecoansiosi et similia – ma ancor più, come ripeto, per rimettere a posto le cose nel loro giusto equilibrio, su questo nostro piccolo e insostituibile pianeta. Viceversa sì, la nostra nave è e sarà inesorabilmente spacciata: siamo veramente così ottusi da dover finire in ammollo, per giunta senza nemmeno una scialuppa di salvataggio, per capire finalmente ma ormai inutilmente che i buchi nello scafo c’erano eccome e andavano riparati a tempo debito, prima che il danno fosse irreversibile?
Oppure, possiamo continuare ad andare avanti speranzosi che «ce la caveremo anche questa volta», appunto. O, per usare uno slogan coniato per un’altra recente emergenza planetaria, «Andrà tutto bene!» (in Italia 196.348 morti, dato aggiornato al 01 marzo 2024). Tanto la speranza è sempre l’ultima a morire, come recita il noto adagio popolare. L’ultima, già.
[Veduta prealpina della pianura lombarda intorno a Milano completamente avvolta da una densa cappa di smog, sabato 17 febbraio 2024.]Posta la situazione dell’inquinamento nella Pianura Padana, cronica da decenni, e di contro le numerose e deprecabili criticità che stanno caratterizzando l’organizzazione delle prossime Olimpiadi invernali di Milano-Cortina – e Milano della Pianura Padana è il centro principale, inutile rimarcarlo – mi pare sia il caso di disdire quei Giochi Olimpici tanto opinabili e farsi assegnare le Olimpiadi dell’inquinamento “Milano-cortina (di smog)”. E non per una sola edizione: in via definitiva, vista la situazione da decenni irrisolta. Questa sì sarebbe un’assegnazione meritatissima.
D’altro canto, ci dicono di preferire la bicicletta e il trasporto pubblico alle auto ma le piste ciclabili sono poche e pericolose mentre bus e treni regionali sono ampiamente inefficienti, anche per colpa dei continui tagli. Ci dicono che gli allevamenti industriali sono tra gli elementi più inquinanti ma poi gli agricoltori scendono in piazza coi loro trattori mentre i supermercati traboccano di carni d’ogni sorta per la gioia di tanti consumatori. Ci dicono di tenere il riscaldamento domestico non oltre i 19° ma sai che bello starsene a casa in maglietta anche d’inverno, adesso che col cambiamento climatico puoi stare fuori a fine gennaio con solo una felpa addosso?
Eppoi la politica ci dice che si sta “impegnando” per risolvere il problema ma poi non fa nulla per limitare la cementificazione e il consumo di suolo perché la lobby degli impresari s’incazza, per non costruire più strade che accrescono il traffico veicolare perché la lobby dei costruttori di auto s’incazza, per agevolare il trasporto merce su rotaia togliendo dalle strade i mezzi pesanti perché la lobby degli autotrasportatori s’incazza, per spingere sulla transizione energetica eliminando i combustibili fossili perché la lobby dei petrolieri s’incazza.
La legge – italiana basata su direttive europee – prevede che per il PM10 non si superino i 50 microgrammi per metro cubo in media in una giornata. A Milano nei giorni scorsi si sono superati i 100 microgrammi per metro cubo, ad Asti 91, Brescia 87, Bergamo 83 e Piacenza 96. Secondo dati del Ministero della Salute di qualche tempo fa, l’inquinamento atmosferico è responsabile ogni anno in Italia di circa 30mila decessi solo per il particolato fine (PM 2.5), pari al 7% di tutte le morti (esclusi gli incidenti). In termini di mesi di vita persi, questo significa che l’inquinamento accorcia mediamente la vita di ciascun italiano di 10 mesi; 14 per chi vive al Nord, 6,6 per gli abitanti del Centro e 5,7 al Sud e isole. Gli effetti sono maggiori al Nord e il solo rispetto dei limiti di legge salverebbe 11.000 vite all’anno.
Ecco. Ma lo sappiamo bene che il cittadino comune, in Italia, di lobby a disposizione non ne ha.
N.B.: la fonte dell’immagine e dell’animazione satellitare è qui.