Anche questa sera, come è stato per l’intera giornata, veli di tulle nebuloso giacciono sui fianchi dei monti nascondendone le forme, impigliati tra i rami degli alberi, avvoltolati nelle vallette, ammassati nelle conche.
I panorami sono invisibili ma l’atmosfera è magica, potrei dire fiabesca se pensassi che le fiabe esistano nella realtà. Ha ragione l’amico Franco Michieli quando dice che «col bel tempo c’è meno verità», che «la bellezza assoluta è amante del nascondimento»[1] e che certe condizioni meteorologiche che abitualmente definiamo “brutte” in realtà acuiscono e esaltano il mistero insito nel paesaggio naturale, quello che noi a volte non sappiamo più cogliere e comprendere.
Anche ai Piani Resinelli, dove siamo stati oggi a passeggiare (i miei acciacchi fisici al momento mi impediscono di fare di più), l’intera zona era avviluppata dai veli nebbiosi, impigliati alle guglie della Grignetta e da lì distesi sulle faggete, le abetaie, le case, i prati, le strade e i viottoli campestri… una dimensione straordinariamente affascinante dalla quale ogni tanto, quando le velature nebbiose si sfilacciavano per pochi attimi, la mole della Grignetta appariva come un miraggio, dando l’impressione di una montagna ciclopica la cui vetta era così elevata da sparire a quote himalayane nel cielo, in alto terso e azzurrissimo.
E, devo ammetterlo (non me ne vogliano i ristoratori locali), l’atmosfera era affascinante anche perché il tempo apparentemente incerto ha fatto sì che non ci fosse troppa gente in giro, troppe macchine a ingolfare i parcheggi, troppo rumore, troppi schiamazzi. Un tale fascino così peculiare non ammette fracassi: esalta l’amenità del luogo perché smorza ciò che lo disturba.
D’altro canto i Piani Resinelli sono un luogo di bellezza veramente emozionante. A pochi passi dal caos di Lecco, e in vista dei grattacieli di Milano, condensano e fondono diverse nature tipicamente alpestri generandone un paesaggio armonioso, speciale come pochi altri. C’è la Grignetta, una vetta alpina fatta di “pezzi” di Dolomiti, ci sono le abetaie e le faggete maestose, le radure prative punteggiate di case e baite, le pareti verticali e i sentieri placidi, c’è la storia del turismo, dell’alpinismo, dello sci, c’è un’anima vibrante, un Genius Loci che racconta la propria vita su un palcoscenico di raro prestigio.
I Resinelli sono un luogo che deve essere conosciuto e visitato da tanti ma non da troppi, che merita di essere scoperto, esplorato, compreso, amato, non semplicemente fruito e tanto meno goduto, consumato, sperperato. Non come alcuni di quelli che hanno in gestione le sorti politiche dei Piani vorrebbero, per i quali ciò che conta del luogo sembra siano solo i posti auto a disposizione.
No, non sono i posti auto a disposizione che contano, ai Resinelli, ma la pre-disposizione di chi vi sale a coglierne tutta la bellezza peculiare. È un luogo nel quale non si sta ma si è perché genera ben-essere in chi sa percepirlo e farlo proprio.
Sarebbe un peccato, anzi, un disastro lasciarlo in mano al turismo più becero e fracassone. Anche se ci fosse il più bel “bel tempo” immaginabile, ecco.
Intanto il segretario Loki ci sta mettendo un sacco a espletare il suo ultimo bisognino quotidiano. È stanchissimo, ci siamo fatti due passeggiate in due giorni sulla neve e Loki quando vede la neve si entusiasma (e di conseguenza corre e zompa pazzamente) come farebbe un alcolista indefesso se trovasse per strada una chiave sulla cui etichetta ci fosse scritto “Ingresso enoteca”. Già.
Buonanotte.
[1]Le Vie invisibili, pagina 86. Trovate la mia “recensione” qui.
Ultima domenica prima di Natale, tutti o quasi sciamano verso le città, le vie pedonali, le zone dello shopping, i centri commerciali: per recuperare i regali non c’è più molto tempo e per giunta la giornata grigia, con nubi basse e pioggia incombente, convince al riguardo anche i più restii.
Tutti o quasi, dicevo: ecco, tra i “quasi” ci siamo io e il segretario personale (a forma di cane) Loki, che invece risaliamo la corrente veicolare fluente a valle al contrario, verso monte, con l’intenzione di esplorare la montagna più “negletta” tra quelle che fanno da cornice alla città di Lecco: il Monte Melma. Negletta inesorabilmente: la modesta quota massima, 914 metri, la fa sovrastare da tutti gli altri rilievi d’intorno, ben più alti e incombenti oltre che più celebrati – il Coltignone coi suoi satelliti, il Monte Due Mani, il Pizzo e i Piani d’Erna, il Resegone e lassù, oltre modo svettante, la Grignetta – e pure l’oronimo non appare così attrattivo, visto l’uso vernacolare sovente negativo che a volte se ne fa (in realtà il termine “melma” deriva dal longobardo malm che, prima di denominare un terreno variamente fangoso, in origine significa “sabbia”, e in effetti delle cave di sabbia c’erano, sul versante occidentale del monte, che potrebbero spiegarne la denominazione).
[Mostro a chi non fosse esperto della zona la posizione del Monte Melma. Immagine tratta da www.italia.it.]Di contro, il Melma risulta alquanto importante per il paesaggio antropico e antropologico di Lecco: sui suoi fianchi, i più dolci e accessibili tra quelli direttamente a monte del centro città, si sono addensati alcuni dei rioni più importanti e da lì nel passato si transitava per andare verso la Valsassina, la Valtellina e la Valle Brembana quando ancora la strada a lago non esisteva. Ciò spiega la presenza di numerose mulattiere selciate, tutt’oggi ben conservate – anche grazie al prezioso lavoro manutentivo recente del CAI di Lecco – che risalgono il monte, segni antropici che, con le tante baite sparse sul versante, i diffusi terrazzamenti, i pascoli certamente ricavati in boschi un tempo imperanti ovunque e le selve castanili ormai pressoché abbandonate, raccontano la secolare frequentazione del monte e la sua importanza nell’economia delle genti che ne abitavano le pendici.
Io e Loki percorriamo una di quelle mulattiere fino a Montalbano, località che i boomer appassionati di musica rock ricorderanno come sede dell’edizione del 1971 del “Re Nudo Pop Festival”, evento musicale itinerante tra i primi e più noti dell’epoca con nomi importanti della scena musicale (soprattutto progressive), che seppe radunare in questi boschi raggiungibili solo a piedi oltre diecimila persone (!). Oggi qui invece regna il silenzio: anche i rumori della città, del traffico e della sua iper vitalità prenatalizia, nel primo tratto ben presenti in forma di un indistinto rumore bianco, si sono fatti sempre più flebili ad ogni passo verso l’alto e ora sono completamente svaniti. Il bosco è piuttosto cupo, tinto delle più svariate tonalità brune e certo il cielo spento non aiuta a illuminarlo: il tentativo di farlo è completamente affidato agli ellebori che biancheggiano qui e là, unica variante cromatica presente e distinguibile.
Superata Montalbano, il sentiero per la vetta del Melma si fa deciso e erto, zigzagando sulla dorsale che separa il versante settentrionale da quello più scosceso verso sud; la fatica dell’ascesa si fa sentire, ma per alleviarla basta voltarsi verso valle e tra la vegetazione mai troppo fitta si ammirano notevoli vedute della città di Lecco, dei laghi e dell’alta Brianza lecchese, mentre dalla parte opposta si traguarda la conca ove si stende il paese di Ballabio, che per abitudine si ritiene già parte della Valsassina quando invece non lo è (geograficamente la Valsassina inizia oltre il Colle di Balisio) e la sua valle è semmai opera delle acque del torrente Grigna, che poi scendono verso Lecco a nord del Melma.
L’erta salita termina al cosiddetto Sass Quader, cumulo di massi che pare piazzato lì a mo’ di enorme cairn da un gigante piuttosto maldestro, punto panoramico assoluto del Monte Melma che anche per ciò alcune mappe (Google Maps, tanto per non far nomi) e certe descrizioni escursionistiche considerano la vetta della montagna. Ma non lo è: oltre il Sass Quader il sentiero continua lungo il filo della dorsale per ancora duecento metri circa e risale infine alla vera massima sommità del Monte Melma, contrassegnata dalla presenza di un ripetitore. Seppur qui la vista verso Lecco è occlusa dalla morfologia del monte, alzando gli occhi si possono osservare con visuale a trecentosessanta gradi quasi tutte le più elevate vette che circondano il Melma e sovrastano la città, e così rendersi conto che, per molti versi, questo piccolo monte rappresenta pure il centro del paesaggio montano lecchese che gli ruota tutt’intorno:
Il Coltignone con la sua articolata struttura, la Grigna Meridionale che veglia maestosa sul paesaggio (approfittando del fatto che il più alto e dominante Grignone qui non si vede), l’accigliato Monte Due Mani con la sua struttura a bancate rocciose sovrapposte, il massiccio Pizzo d’Erna sul quale si poggiano gli appuntiti denti del Resegone… insomma, un piccolo ma fondamentale fulcro geografico, il Monte Melma, che in qualche modo ha cercato di sopperire alla propria modesta altitudine facendosi spazio tra quei monti ben più grandi come un bambino curioso tra le gambe degli adulti e intestardendosi nel rimanere lì, al punto da respingere pure la spinta del grande ghiacciaio dell’Adda che ne circondò i fianchi meridionali senza riuscire ad andarvi oltre così invadendo la conca di Ballabio – rimasta inopinatamente libera dai ghiacci anche nel periodo della loro massima espansione, circa 20.000 anni fa, dalla parte opposta protetta dal conoide alluvionale del Pioverna che poi ha formato il colmo del citato Colle di Balisio.
Oggi la visuale dei monti è assai parziale: nubi sempre più dense nascondono le vette e più sotto si sfilacciano tra torri, canaloni e vallecole, mentre la pioggia lentamente ma inesorabilmente aumenta d’intensità – ma lo rimarco spesso, d’altro canto, che in montagne le “giornate brutte” non esistono. Io e Loki scendiamo a Ballabio, sostiamo su una panchina per mangiare qualcosa osservati con sguardo basito dagli automobilisti in transito come fossimo l’ebreo errante e il suo cane, e poi imbocchiamo la valletta dalla quale fluisce il torrente Grigna, solco ombroso chiuso a sud dallo stesso Monte Melma e a nord dai fianchi franosi del Due Mani, che rappresenta lo sbocco idrografico della conca ballabiese quando invece verrebbe da credere che lo sia la valle percorsa dalla strada provinciale che collega il paese a Lecco, la quale di contro è parte di un altro sottobacino idrografico, quello del torrente Gerenzone. Percorriamo il vecchio tracciato di servizio alla nuova strada che sale in Valsassina (tecnicamente denominata “Strada statale 36-racc Raccordo Lecco-Valsassina”, invero aperta quasi vent’anni fa, nel 2006, ma abitualmente definita “nuova” proprio per differenziarla dalla vecchia strada sopra citata) e poi per sentiero scendiamo al Passo del Lupo, proprio sotto il viadotto della statale che sorvola la forra del torrente Caldone, nel quale più a valle confluisce anche il Grigna. Chissà se quel toponimo in origine indicasse effettivamente la presenza di lupi in zona: una leggenda locale racconta che il nome deriverebbe dalla presenza di un lupo ferito che si sarebbe nascosto in una grotta nel pressi del torrente Caldone le cui rocce sarebbero rimaste macchiate del sangue della bestia. Più razionalmente verrebbe da spiegare il rossore litico con la presenza di minerale ferroso, assai diffuso nella zona; di contro l’altrettanto ampia presenza di fauna selvatica un tempo avrebbe potuto giustificare anche quella dei lupi, da cui il nome del “passo” – che in verità un passo propriamente detto non è, il termine va inteso come passaggio. In effetti proprio da qui un tempo si passava per andare a Morterone, il piccolo centro abitato (tra i comuni meno popolosi d’Italia) la cui chiesa fin dal Trecento era parte della Pieve di Lecco, con un percorso più diretto rispetto a quello che risaliva i fianchi del Monte Melma per andare a Ballabio e in Valsassina. Peraltro, volgendo lo sguardo a settentrione, mi rendo conto di come il Melma acquisisca qui il suo aspetto più alpestre, di montagna “vera”, irta, con cuspidi aguzze, speroni rocciosi ben definiti e accenni di verticalità che ogni altro suo versante non rivela.
A proposito di antropizzazione del territorio, in questa zona se ne può raccogliere una testimonianza diversa dalle precedenti di cui ho detto e piuttosto emblematica in forza della sua narrazione diacronica. Andando verso il piccolo e suggestivo nucleo rurale di Versasio, con i suoi terrazzi prativi, gli orti, le selve, la piccola chiesa sul limitare del bosco, io e Loki incrociamo più volte (tramite sottopassi) la citata nuova strada per la Valsassina col suo traffico incessante, nei giorni feriali prevalentemente industriale e nei fine settimana quasi del tutto turistico. Il tracciato stradale – veloce, comodo, per buona parte in galleria, che ha avuto il pregio di togliere quel gran traffico dai rioni alti di Lecco che stava avvelenando – qui delimita i prati di Versasio e col bastione di cemento sul quale corre li separa dal resto del versante che divalla verso Lecco. È una cesura emblematica, come detto, che dà l’impressione di aver diviso nettamente la città dalle montagne – al di sotto la parte più antropizzata e l’anima cittadina più urbanizzata, al di sopra quella mantenutasi rurale e legata alla dimensione montana: così circondata da prati e boschi, sfiorante baite e stalle vecchie di secoli oltre che le bancate rocciose che sorreggono i Piani d’Erna, la strada appare un elemento inevitabilmente alieno al luogo, una sorta di disturbo temporale, una sciabolata di contemporaneità che taglia un paesaggio che invece sembra rimasto fermo nel passato. Percezioni inevitabili, ribadisco, cagionate da elementi troppo differenti messi l’uno accanto all’altro ma privi di un vero dialogo reciproco, difficile da instaurare ma non impossibile, io credo, con un po’ di sensibilità in più per il paesaggio: fatto sta che ne esce una geografia antropica bizzarra, un po’ confusa, sicuramente significativa e per certi versi interessante – eccetto che per la fascia appena a valle della statale, trasformata in discarica da alcuni utenti della stessa… all’inciviltà non esiste mai un limite, purtroppo.
Per fortuna, poco sotto, il tracciato riprende l’aspetto di bella mulattiera selciata e in parte gradinata che, con alcuni tornanti, ci riporta sul fondo della valle del Caldone alle prime case del rione di Bonacina, un altro dei tanti che compongono la parte alta di Lecco. La pioggia s’è fatta ormai battente, le montagne sono del tutto scomparse nelle nubi e più in basso la foschia vela il resto del territorio ma, a questo punto, il paesaggio esteriore che abbiamo esplorato, con le sue tante peculiarità alcune delle quali ho cercato qui di raccontare, si è già fatto interiore: i selciati delle mulattiere, le pietre dei sentieri percorsi, i colori e gli odori del bosco, le acque fredde, i rumori umani e quelli naturali, le visioni del territorio d’intorno, il vento e la pioggia, le presenze e le assenze, le percezioni, le sensazioni e le intuizioni e ogni altra cosa più o meno còlta hanno disegnato una mappa impressa tanto nella mente quanto nell’animo che rappresenta e racconta questa minima parte di mondo attraversata con una gran messe di referenze e un dettaglio insuperabile, e ciò perché noi stessi ora siamo diventati suoi elementi, vi abbiamo lasciato la nostra traccia e con il cammino percorso abbiamo disegnato su quella mappa l’esperienza vissuta, la conoscenza ricavata e la relazione intessuta con i luoghi, intensa, genuina e incontaminata (d’altro canto, persone incrociate lungo l’intero percorso: tre, ma se considero la sola parte prettamente escursionistica: zero).
Eco, stavolta nel(la) Melma ci siamo finiti volontariamente e consapevolmente, ed è stato quanto mai piacevole e affascinante.
Il solito N.B.: le foto che trovate qui, le ho fatte da non fotografo quale sono con un cellulare ormai datato, dunque chiedo venia a chi le giudicherà di qualità carente.
Le montagne di Lecco si contraddistinguono, tra le altre cose, anche per la loro plurisecolare storia mineraria, specialmente in Valsassina e Valvarrone i cui territori sono traforati un po’ ovunque da gallerie attraverso cui furono cavati diversi tipi di minerali, in primis quelli ferrosi dai quali è dipesa poi anche la storia industriale di Lecco; è però il Resegone a vantare lo sfruttamento probabilmente più antico, con il sito siderurgico ai Piani d’Erna attivo fin dal III secolo a.C.
Sul versante meridionale del Resegone, quello che adduce alla Val San Martino, l’attività mineraria è invece rimasta ben più esigua; tuttavia proprio alla testata della Val d’Erve (già nel territorio comunale di Lecco ma idrograficamente valsanmartinese) si aprono alcune delle gallerie minerarie più belle, facilmente raggiungibili e in parte visitabili – con tutte le dovute precauzioni, ovviamente – delle montagne lecchesi, ma di contro non così conosciute: quelle delle Miniere della Passata, così denominate in forza della vicinanza del conosciuto e storico valico che unisce l’alta Val d’Erve con la Valle Imagna ma dette anche della Rolla, dal nome dell’omonimo poggio boscoso prossimo agli ingressi, che presenta i ruderi di vecchi edifici.
Il giacimento, situato a poco più di 1200 m di quota alla base dell’edificio sommitale del Pizzo Quarenghi, una delle punte “bergamasche” del Resegone, venne aperto con le prime gallerie nel 1888: vi si estraeva solfuro di piombo (galena), un minerale molto adatto alla produzione di piombo per la sua malleabilità e facilità di fusione sul carbone di legna, che rendeva agevole la prima lavorazione direttamente in loco. Fu attivo fino alla Prima Guerra Mondiale, con parziale esaurimento dei filoni: non è peraltro da escludere che parte del piombo ricavato nella miniera venne utilizzato per alimentare proprio la produzione di proiettili destinati al fronte. L’attività riprese poi alla fine degli anni Trenta per essere quindi definitivamente interrotta nel 1942, forse anche in forza degli eventi bellici ma, presumibilmente, soprattutto per l’esaurimento del giacimento ovvero per la sopraggiunta scarsa convenienza estrattiva. Vi lavoravano in gran parte uomini di Erve e di Brumano, dunque di entrambe le opposte vallate, contadini che in tal modo arrotondavano le magre entrate del lavoro nei campi con quelle dell’attività nel giacimento.
La miniera era dotata di carrelli su binari e di attrezzature per la prima cernita e l’arricchimento grossolano manuale. Il trasporto a valle avveniva poi in sacchi, a spalla. Negli ultimi anni fu realizzata una teleferica per far divallare il minerale, che tuttavia venne presto dismessa. Era presente una residenza per il guardiano, ora ristrutturata privatamente, la cabina elettrica e la polveriera. La parte sotterranea constava di tre livelli con altrettanti ingressi, posti su un dislivello complessivo di circa 16 metri e profondi qualche decina, collegati all’interno da vari “fornelli”. L’ingresso più basso è franato, mentre sono parzialmente accessibili – con ovvia prudenza, ripeto – gli altri due ingressi, grazie alla messa in sicurezza operata qualche anno fa dall’ERSAF, proprietaria della foresta demaniale del Resegone, sull’opposto versante di Morterone.
La miniera è agevolmente raggiungibile e identificabile, essendo gli ingressi principali posti sul sentiero 575 che collega il valico della Passata al Rifugio Alpinisti Monzesi; vi si accede da questo in circa venti minuti oppure, provenendo da Erve e dal fondovalle, in circa un’ora e trenta percorrendo il Sentiero San Carlo, segnavia 11, lungo il quale apposite indicazioni mostrano la corretta deviazione. Tuttavia, data la loro posizione, la miniera risulta facilmente raggiungibile da tutte le località vallive limitrofe attraverso la rete sentieristica locale nonché dall’itinerario della Dol dei Tre Signori, la dorsale orobica lecchese, che transita proprio dal valico della Passata.
Ribadisco nuovamente: se volete visitare la miniera, indossate scarponi da montagna o calzature affini, proteggete la testa con un caschetto, portatevi una torcia elettrica adeguatamente potente e non vi avventurate in cunicoli troppo scoscesi e angusti. Con le dovute precauzioni, potrete vivere una piccola ma emozionante esperienza dentro una montagna e “dentro” la storia umana di diverse generazioni di montanari che hanno vissuto in e grazie a questi affascinanti territori.
P.S.: per conoscere ancora meglio la zone e non perdervi in essa, vi consiglio di recuperare la “Carta dei sentieri val d’Erve“, edita da Ingenia Cartoguide e alla cui creazione ho collaborato; la potete trovare negli esercizi commerciali della zona.
Sopra la città di Lecco, sostenuta dalle bastionate calcaree dell’omonimo Pizzo e ai piedi delle creste sommitali del Monte Resegone, si trova la bellissima località dei Piani d’Erna, frequentatissima in tutte le stagioni grazie alla facilità di accesso su sentiero e, ancor più, per la presenza di una funivia che la raggiunge partendo dai sobborghi collinari di Lecco. In verità di “piano” i Piani d’Erna non hanno molto, presentandosi come un’ampia conca prativa circondata da boschi i cui pendii in passato, stante proprio la vicinanza alla città, hanno rappresentato i campi sciistici per eccellenza dei lecchesi: bastava un breve viaggio in auto o coi mezzi pubblici, la rapida salita in funivia e in una manciata di minuti dal centro cittadino si era sulla neve, sci ai piedi.
[I Piani d’Erna oggi. Immagine tratta da www.orobie.it.][Un’altra immagine dei Piani d’Erna oggi, tratta da www.eccolecco.it.]Queste caratteristiche particolari hanno fatto sì che tempo fa ai Piani d’Erna non si mirasse solo a creare una “normale” stazione sciistica: negli anni Sessanta del secolo scorso – periodo, inutile rimarcarlo, nel quale il boom economico e industriale faceva pensare che nulla fosse impossibile – qualcuno pensò un progetto tanto grandioso quanto utopico e assurdo ma del tutto emblematico riguardo i meccanismi di pensiero e d’azione che hanno sviluppato il turismo sciistico dalla seconda metà del Novecento in poi. Meccanismi che poi il tempo e la realtà (non solo quella climatica) hanno spesso rivelato come fallimentari e deleteri per la montagna, ma che incredibilmente ancora oggi, e non di rado, in certi luoghi si vorrebbe riproporre e perseguire: come se il mondo fosse ancora quello, come se il tempo si fosse fermato o se non si volesse capire (consapevolmente o no) come stanno realmente le cose, nel presente e ancor più nel prossimo futuro.
[La funivia per i Piani d’Erna in un’immagine di fine anni Sessanta.]La storia del folle progetto sciistico dei Piani d’Erna l’ho rapidamente riassunta in un capitoletto dedicato sul libro Sö e só dal Pass del Fó. In cammino da 75 anni sui sentieri del Resegone che ho scritto e curato nel 2015 per la Sezione CAI di Calolziocorte. Ve lo propongo di seguito, aggiungendo che nel giugno 2020 i rottami degli skilift che erano stati installati sui pendii dei Piani d’Erna, chiusi fin dal 2005, sono stati smantellati e riportati a valle, donando nuovamente al luogo la bellezza e il fascino originari e così preziosi.
L’apertura della funivia che collega Versasio ai Piani d’Erna, nel 1965, nonché gli skilift che per qualche decennio hanno lassù animato i mesi invernali, sono in verità solo una parte di un progetto ben più grande, e francamente utopico, che formularono intorno al 1960 alcuni imprenditori lecchesi, con in testa Angelo Beretta, proprietario della nota ditta di caldaie, e l’ingegner Riva. In effetti Erna era molto frequentata dai lecchesi già prima della Seconda Guerra Mondiale, poi il conflitto e il difficile periodo susseguente fece scemare parecchio quella frequentazione. Beretta e Riva, insieme ad altri professionisti lecchesi, decisero di rilanciare la località e di farlo alla grande seppur con intendimenti in qualche modo avanzati, di sentore contemporaneo: rifiutarono ad esempio la costruzione di una strada carrozzabile, troppo costosa e, soprattutto, tremendamente impattante per quell’angolo montano così piacevolmente integro. Optarono dunque per la funivia, mezzo di trasporto sicuramente più ecologico; in teoria il progetto prevedeva un ulteriore tratto che giungesse fino alla vetta del Resegone, per la cui mancata realizzazione probabilmente oggi non possiamo che essere felici. Ma c’era molto di più: nelle idee della SPER, la società che venne costituita ad hoc per la gestione dei vari interventi, Erna doveva diventare una vera e propria città satellite di Lecco in quota, al fine di attirare il maggior numero possibile di turisti anche da lontano. L’architetto milanese Gianfranco Gelatti Mach de Palmstein venne incaricato di stendere un piano urbanistico per l’edificazione sui terreni, nel frattempo lottizzati di case, alcuni alberghi, una scuola, attrezzature sportive varie, una chiesa, un eliporto e addirittura un piccolo ospedale. Nel complesso la città satellite di Erna avrebbe dovuto constare di sei piccoli quartieri: Funivia, Bocchetta, Romini, Laghetto, Teggia e Ospitale, collegati da un’arteria principale e da una fitta rete di percorsi pedonali. Era un progetto che sotto certi aspetti ricorda nel principio quello di Consonno, scaturente da una visione del progresso urbano tipica di quegli anni di intenso boom economico nei quali pareva che pure le idee più difficili potessero divenire realtà.
Ma le prime difficoltà di realizzazione sorsero presto; solo alcune case vennero edificate (facilmente riconoscibili dal fatto di essere quelle dal disegno architettonico più moderno, lassù) insieme a qualche semplice struttura sportiva, poi nel 1993 la SPER fallì e ci si misero pure i cambiamenti climatici, che resero la neve a Erna una cosa assai rara. Così, il visionario progetto di Erna, la città dello sci a pochi minuti dal centro di Lecco, tornò nel fumoso regno delle utopie irrealizzate. Giudicate voi se sia stato meglio così, oppure no. Di certo l’amenità dei Piani d’Erna, con quel meraviglioso e imponente sfondo delle punte del Resegone appena al di sopra dei suoi verdi prati, resta comunque grande.