Ponti (oltre a cattedrali) nel deserto

Che meraviglia il Ponte Vecchio di Firenze, vero?

Già.

Peccato che quello lì sopra non è il Ponte Vecchio e la città intorno non è Firenze, ecco.

Eh, bisogna proprio ammettere che gli americani sono imbattibili nel creare “non luoghi assoluti. In fondo li hanno inventati, e gli USA sono il paese al mondo più superficialmente identitario ma sostanzialmente quello meno consapevole in assoluto della propria identità: vuoi perché hanno solo poco più di due secoli di storia nazionale condivisa ma, soprattutto, perché la società americana è stata dotata, più o meno funzionalmente, di una non identità totalmente basata su forme simboliche e (auto)referenziali che dentro non hanno praticamente alcuna sostanza culturale – intendendo la “cultura” nel senso più pieno del termine, antropologicamente e umanisticamente.

Comunque, al di là di tali questioni la cui trattazione mi porterebbe altrove, quel finto Ponte Vecchio si trova in realtà nel mezzo del Deserto del Nevada, a 20 miglia da Las Vegas, in un “non luogo” che più rappresentativo della definizione non potrebbe essere (e che, confesso, non conoscevo): Lake Las Vegas, in pratica un mega resort per benestanti costruito attorno a un lago artificiale, con le cui acque si è creata una vera e propria oasi nel deserto ricolma di ville e hotel di lusso, attrazioni d’ogni sorta, ovviamente casinò, il tutto ad imitazione di una città italiana.

Già, nel bel mezzo del Deserto del Nevada.

[Immagine tratta dalla pagina Facebook di Lake Las Vegas. Cliccateci sopra per visitarla.]
Ecco dunque il finto “Ponte Vecchio” ma non solo: le vie hanno nomi italiani, spesso strampalati (date un occhio a Google Maps) e idem i nomi di molti degli hotel e dei complessi residenziali; di contro, di fronte all’imbocco del suddetto “non ponte”, su una altrettanto finta piazza italiana con tanto di ulivi fa bella mostra di sé un ristorante messicano, anche se la chicca del luogo (o forse una delle tante, temo) è questa:

[Immagine tratta da localadventurer.com.]
Ma vi immaginate ora quanti “americani medi” verranno in Italia, a Firenze, e pretenderanno di voler fare un’escursione lungo l’Arno a bordo di una gondola? O che andranno a Venezia e penseranno che i veneziani hanno copiato il modello di barca tipica ai fiorentini? O addirittura che resteranno sconvolti nello scoprire che Firenze e Venezia sono la stessa città? 😲

Fantastico, vero?

Be’, questo per (riba)dire quanto sia distorcente e alienante destruttura la relazione naturale tra territorio e paesaggio in forza di una antropizzazione del tutto decontestuale ai luoghi, che poi inevitabilmente genera immaginari falsati dai quali scaturisce un rapporto delle persone con essi privo di cultura, di consapevolezza e, ovviamente, di identità. Il tipico circolo vizioso dei non luoghi, insomma, tanto più banali e alienanti quanto più disgiunti da ciò che hanno intorno: non a caso si inventano per essi quante più identità fittizie possibili le quali tuttavia, non avendo alcuna base culturale a sorreggerle, svaniscono all’occhio di chiunque possieda un minimo di sensibilità e acume, rivelando quello che alla fine lì – a Lake Las Vegas o altrove ma lì fisicamente – c’è e lì resta sempre: il deserto, geografico e culturale. Il quale peraltro una propria identità, un Genius Loci peculiare ce l’ha: a sua volta soffocato e zittito da tutte le banalizzanti artificiosità costruite sopra.

Tuttavia, come denoto spesso nei miei articoli, molti casi simili, magari meno evidenti ma spesso ugualmente alienanti, li ritroviamo un po’ ovunque e, purtroppo, tra i territori più emblematici al riguardo, ci sono le nostre Alpi, sulle quali, ad esempio, buona parte del costruito a uso turistico è decontestuale, fittizio, di ispirazione meramente cittadina e quasi mai relazionale ai luoghi, alla loro storia, alle culture e alle tradizioni lì presenti e per il luogo identificanti. Quantificare i danni sociali, culturali e antropologici che tali antropizzazioni poco o nulla mediate (e meditate) hanno creato alle montagne e alle rispettive comunità residenti è impossibile e, io credo, solo in minimissima parte compensato da ricadute economiche benefiche per le comunità stesse, peraltro ormai parte di un passato completamente svanito che anzi ora torna a rivalersi sotto forma di debiti, crack finanziari e bancarotte – e di un paesaggio antropico a volte inesorabilmente guastato.

Siamo dunque pronti, per dire, a un lussuoso resort olimpico a forma di Duomo di Milano a Cortina, sotto le Tofane, atto a ospitare turisti dell’altra parte del mondo che così si convinceranno che a Milano si scia? Secondo me qualche immobiliarista particolarmente scaltro, in presenza di “condizioni favorevoli” (è sufficiente qualche mazzetta, nel caso), un’occasione così non se la farebbe sfuggire, già.

INTERVALLO – Las Vegas (Nevada, USA), “Time Changes Everything”

(Photo credit: Justkids, https://www.justkidsofficial.com/)

Una citazione poetica sulla facciata di un edificio che in base alla luce solare compare, si “muove” e poi scompare al calar del buio. È l’installazione letteraria Times changes everything dello street artist indiano DAKU, realizzata nell’ambito dell’annuale festival “Life is Beautiful” curato da JustKids a Las Vegas. Autore di altre installazioni artistiche di matrice letteraria e poetica, DAKU ha posizionato sulla facciata dell’edificio, che ospita (non a caso, ovvio) un negozio di libri, le lettere sporgenti che canalizzano la luce solare e proiettano ombre per formare il testo della citazione.

Una creazione poetica e parecchio suggestiva, insomma. E una bella idea promozionale, per giunta: chissà che altre librerie non la riproducano, con citazioni proprie del luogo in cui si trovano ovvero altrettanto letterariamente significative!

N.B.: di nuovo, lo spunto per questo post viene dal blog – sempre super interessante! – dell’artista Barbara Picci (che, pur indirettamente, ringrazio di cuore), nel quale troverete numerose immagini dell’installazione di DAKU a Las Vegas e di altre sue opere. Barbara über alles!

“God bless America”, oppure “God damn America”?

Inutile sconcertarsi per l’ennesima volta. L’America è questa: quella che ha portato il primo uomo sulla Luna e quella di Nixon e Trump, quella del rock’n’roll, di Harvard e della Silicon Valley ma pure di quasi ogni guerra combattuta sul pianeta negli ultimi settant’anni, quella del chewing gum, dei panini finti di McDonald’s e delle continue stragi nelle scuole e luoghi pubblici. È quella del massacro di Las Vegas e della gente che ad esso reagisce follemente acquistando ancora più armi per paura di restrizioni alla vendita (che non arrivano mai). Tra qualche tempo gli USA probabilmente porteranno un uomo su Marte o ci regaleranno qualche nuovo e fenomenale status symbol tecnologico ma, per ora, il “sogno” americano sta diventando sempre più paradossale e folle.

Dunque, God bless America? No. Semmai God damn America*.

*: damn, “dannare”, “maledire”. Peraltro, sulla vera origine e sul senso ben poco nobile e tanto meno devozionale di quanto si pensi della celebre e abusata (negli USA) espressione “God bless America”, date un occhio qui.

Trumpology

14992076_10210697569536457_545931070250001023_nC’è qualcosa di veramente straordinario in questa foto della famiglia del nuovo presidente degli USA Donald Trump che ho scovato casualmente sul web. Anzi, di extraordinary – in inglese il concetto si esprime meglio: extra ovvero fuori dall’ordinario, sotto molti aspetti.
A partire dal fatto che no, non è come probabilmente state pensando e come ho creduto io appena l’ho vista: non è un fake, è verissima. Circola sui social media dallo scorso mese di agosto ma fa parte di una serie del 2010 realizzata dalla fotografa Regine Mahaux (ne potete sapere di più qui).

Posto ciò, l’immagine è delle più emblematiche che vi siano. È palesemente costruita e posata eppure è assolutamente vera, realistica, obiettiva. Deborda di kitsch in modo esagerato, eppure quello è uno degli studi di lavoro del miliardario, ora Presidente USA, nella Trump Tower di New York – qualcosa che dunque, di logica, dovrebbe essere la più seriosa e meno pacchiana possibile (con quegli stucchi dorati e quei lampadari che, mammamia, sarebbero bburini pure in una balera di quart’ordine d’una periferia malfamata. Eppoi la faccia di lui, con espressione “Io sono io e sono miliardario e voi siete solo merda”, quella di lei in posa da ciò che fu – una modella – con tanto di vestito in preda a inopinato e sublime colpo di vento, quella del di loro figlio in sella a quella specie di mega-Trudi leonino il quale – vien da pensare – avrà appena udito dal padre la solita frase di (tale) circostanza «Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo!» ovvero il “tutto questo” che l’orizzonte sconfinato visibile dalle vetrate alle spalle dei soggetti esemplifica in modo perfetto…
Eppoi ancora i modellini di auto di lusso sul tappeto ai piedi del First Son, le foto di tutti gli altri figli avuti dai precedenti matrimoni del neo-presidente sul tavolino là dietro – perché, sia chiaro, per un cristiano osservante come lui la famiglia è importante, che sia quella del primo, del secondo o dell’ennesimo matrimonio! – il colore della cravatta (la quale tuttavia solo l’anno prima sarebbe stata blu e solo l’anno dopo d’un colore neutro, visto il suo frequente rimbalzello politico.)
Non solo: in quest’immagine vi si possono “vedere” chiaramente Disneyland, Las Vegas, Hollywood e le soap anni ’80 ma anche gli show TV (più o meno reality) contemporanei, il generale Custer che sconfigge i maledetti indiani così come Joseph Mc Carthy che gigioneggia amabilmente con il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, il turbocapitalismo yankee e i fast food nonché quel tipicissimo atteggiamento dei benestanti (arricchiti, generalmente) WASP (del genere “io non sono razzista ma stammi lontano, sporco negro!”) il quale nella pancia dell’America tutt’oggi si autoalimenta e si mantiene più in forma che mai – e che, con diverse accezioni ma equivalenti risultati, è rintracciabile nelle figure similari un po’ ovunque (vedere un po’ questa foto d’un noto “leader” politico europeo – ora decaduto – e poi ditemi se non ha lo stesso identico mood!)

Insomma: c’è buona parte di ciò che è l’America oggi, che inevitabilmente avrebbe finito (e ha finito) per votare Donald Trump come proprio Presidente. In fondo, il suo senso peculiare l’ho già indicato in principio di questo articolo: il fatto che sembri tanto un fake, un fotomontaggio o altro del genere e che invece sia autentica. L’apparente verità che si palesa falsità e viceversa, sempre più legge fondamentale della contemporanea società liquida. In fondo quanti prima dello scorso 8 novembre avrebbero creduto che uno come Trump sarebbe diventato il Presidente della maggiore superpotenza mondiale? Ecco: tutto torna, dunque.

Il podcast della puntata #9 di RADIO THULE 2011/2012

Ecco qui, come tradizione del giorno successivo a quello della diretta, il file in podcast della puntata #9 di RADIO THULE 2011/2012 di lunedì 13 Febbraio 2012, intitolata Un CES di tecnologia!, e dedicata all’edizione 2012 del Consumer Electronic Show di Las Vegas, la più importante fiera al mondo per l’elettronica in generale, nonché a un piccolo, scanzonato e sagace viaggio nel vasto mondo delle novità tecnologiche prossime all’arrivo sul mercato, tra gadget propizi e rivoluzionari e applicazioni tremendamente inutili se non pure francamente idiote – il tutto con una guida d’eccezione: Dario Bonacina, esperto di nuove tecnologie ed editor di alcune delle più importanti testate d’informazione del settore.

Cliccate sulla radio qui accanto per ascoltare e scaricare il file, oppure visitate la pagina del blog dedicata al programma con tutto l’archivio delle puntate di questa e delle stagioni precedenti.
Prossimo appuntamento con RADIO THULE, lunedì 27 Febbraio 2012! Non mancate, mi raccomando, e per ora… Buon ascolto!