Albione sull’orlo di una crisi di nervi

[Immagine tratta da qui.]
Mi si fa sempre più vivida l’impressione che la Gran Bretagna, dopo la Brexit, stia andando incontro a una generale crisi di nervi.

Ciò in base a molteplici evidenze: in primis dal punto di vista economico e sociale, per come la Brexit stia mettendo in crisi molti settori produttivi e, di conseguenza, un’ampia parte della popolazione ad essi collegata, nel mentre che, di contro, l’entrata nel Regno Unito dei cittadini europei per poter lavorare – dal momento che certe filiere produttive sono andate in difficoltà anche per la mancanza di mano d’opera – è ora diventata parecchio difficile, in base alle restrizione imposte dall’uscita dalla UE. Circostanze difficili previste, queste, ma che ora si comincia a ritenere più gravi di quanto ipotizzato. Quindi dal punto di vista socioculturale, per come la Brexit abbia non solo messo in evidenza ma stia rendendo sempre più drammatiche le fratture esistenti nella società civile britannica, presenti anche prima dell’uscita dall’Europa del paese ma ben più latenti e sottotraccia, mentre ora le condizioni politico-culturali generate dall’autoisolamento post-Brexit – oltre che da leaderships politiche francamente piuttosto discutibili, e non mi riferisco solo a quelle al potere – sembra le stia acutizzando in maniera vieppiù deleteria: un esempio in tal senso, forse “banale” eppure a mio modo di vedere emblematico, è quanto accaduto dopo la sconfitta della nazionale inglese nei recenti campionati europei di calcio. Inoltre temo vi sarà pure una crisi di nervi istituzionale, con le pulsioni separatiste della Scozia sempre più forti, una ben maggior irrequietudine nell’Irlanda del Nord rispetto agli ultimi anni tanto che, al riguardo, si sono manifestati nuovamente fatti violenti tipici del tempo dei Troubles e, soprattutto, con la concreta incertezza su cosa accadrà dopo la dipartita di Elisabetta II, comunque un simbolo e un’icona identitaria per il Regno Unito alla quale non si può che augurare ancora una lunghissima vita ma, con tutto il rispetto del caso, la sua bella età ce l’ha mentre alle sue spalle una figura di simile carisma non c’è proprio, almeno al momento.

Ho sempre pensato alla Brexit come a una grande stupidaggine ma ne ho “compreso” l’attuazione riconoscendo la realtà peculiare della Gran Bretagna e la sua unicità, per tanti motivi, rispetto al resto dell’Europa; tuttavia, ripeto, mi pare che le più fosche previsioni riguardo il dopo Brexit si stiano realizzando – pensando a quelle socioculturali come le peggiori, più che quelle economiche. Mi auguro che qualche suddito di Sua Maestà particolarmente saggio e illuminato sappia rimettere in sesto la situazione generale del paese placando la crescente e sempre più irosa inquietudine ma, ora come ora, stando alla realtà dei fatti e alle figure istituzionali in gioco, questa possibilità mi sembra si stia allontanando ogni giorno di più.

P.S.: per la cronaca, il titolo di questo articolo richiama quello del celebre film di Pedro Almodovar, mentre l’Albione citato è l’antico nome della Gran Bretagna.

Ultrasuoni #2: Depeche Mode, Enjoy The Silence

Ci sono certi brani musicali – non molti, a dirla tutta, anzi, sono rari – che si basano su accordi che io definisco “armonie fondamentali”: suoni eufonici apparentemente semplici eppure di natura ancestrale, elementale, che trascendono l’ordinario giudizio estetico e di gusto – bello / non bello / brutto – per farsi ineluttabile oggettività armonica, cioè qualcosa (per dirla in modo più semplice) che quando la si ascolta tocca le corde più profonde dell’animo, vi pone radici immediate, si accorda con la dimensione emotiva e, per tutto ciò, affascina da subito l’ascoltatore. Il quale poi potrà esteticamente gradire o meno ma, di contro, non potrà mai resistere al fascino ineluttabile di quelle armonie, come se esse esprimessero e manifestassero a loro modo i suoni fondamentali della nostra dimensione vitale e per ciò assumendo a pieno titolo la definizione di opera d’arte – ove l’arte sia intesa nella sua definizione basilare ovvero come la massima espressione e rappresentazione creativa della vita umana.

Ecco: secondo me uno dei quei brani è Enjoy The Silence. Semplice e immediato ma sublime, raffinatissimo, trascendentale, esemplare. Forse una delle canzoni di musica contemporanea (e non solo “pop”) che più si avvicinano al concetto di “perfezione”.

D’altro canto – altra cosa che sostengo da sempre – i Depeche Mode tra 200 anni saranno insegnati nei conservatori di musica esattamente come oggi viene insegnato Mozart. E ho detto tutto.

Ultrasuoni #1: Bowie, Ashes to Ashes

Nella mia appassionata riscoperta della musica anni ’80 – l’ultimo periodo nel quale il pop lo si può considerare un genere artistico, prima dello svacco successivo (con eccezioni rarissime) – un posto fondamentale non può che averlo l’alieno Bowie e, tra i tanti suoi brani notevoli, Ashes to Ashes ultimamente mi risuona in mente con costanza.
Delicata eppure vibrante, coinvolgente e a mio parere non così malinconica come viene ritenuta, quasi ipnotica con quell’andamento cantilenante, da filastrocca vagamente psichedelica (e pure il testo ci mette del suo al riguardo), è uno di quei brani le cui armonie, solo all’apparenza semplici, ti si piazzano in mente al primo ascolto e, decenni dopo, basta riascoltarle per rigenerare le percezioni e le emozioni di quella prima volta, anzi: queste si palesano in modo ancor più intenso, “maturate” e migliorate dal tempo dacché superiori ad esso. È ciò che accade sempre (ma di rado) per la grande musica (rara, appunto), che non sente il passare del tempo e, fosse pubblicato oggi, un brano come Ashes to Ashes, sarebbe ancora qualcosa di assolutamente particolare e distintivo.

Bowie è Bowie, d’altronde, un extraterrestre delle arti caduto sulla Terra per fare che la Terra cadesse ai suoi piedi. Imprescindibile, su qualsiasi lontano pianeta sia finito (o tornato), oggi.

Il principio iconoclasta

[Rimozione della grande croce di Stadelhofer, Zurigo, nel periodo dell’iconoclastia calvinista. Da Illustrierte Reformations-Chronik di H. Bullingers, 1605. Immagine di Roland Fischer, Zürich; Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0; fonte qui.]
E se invece lo stesso principio iconoclasta che oggi abbatte i monumenti di personaggi dalla storia più o meno opinabile fosse applicato agli stati, oppure alle religioni?

Proprio gli Usa, ad esempio: nella loro forma istituzionale contemporanea ci hanno portato sulla Luna e hanno “inventato” internet, ma quante guerre sporche e quante azioni politiche deprecabili hanno messo in atto nel frattempo?

Oppure le religioni monoteiste, appunto, cattolicesimo in primis, la cui storia, a fronte di innegabili opere di bene, presenta una lista di misfatti che all’inferno così lunga e articolata se la sognano!

Se dovessimo utilizzare il classico metodo della bilancia, ponendo su un piatto le cose buone e sull’altro quelle cattive, temo che buona parte delle istituzioni umane avrebbe la sorte segnata, e sarebbe giustissimo che ciò avvenisse. Di contro, io credo, più ancora che l’iconoclastia fanno sempre molto bene alla causa della giustizia la conoscenza e la consapevolezza, gli strumenti che l’intelligenza, la memoria e la coscienza umane hanno a disposizione per giudicare, capire, reagire, accettare o rifiutare e adeguare la relazione di ciascuno con quelle istituzioni.

Non sono gli eroismi, le santità, le venerabilità e i prestigi di sorta che racchiudono la realtà dei fatti, rappresentandone quasi sempre un’iperbole distorsiva creata ad arte, ma l’equilibrio della verità oggettiva e obiettiva che non può ammettere estremismi celebrativi oppure denigratori, a loro volta iperboli irrazionali e devianti. Un equilibro che è pure la condizione migliore grazie alla quale praticare la libertà di pensiero e d’azione, quella che ogni individuo dovrebbe saper esercitare e che spesso proprio certe simbologie iconiche, ovvero il modo con il quale sono state narrate e imposte, hanno contribuito – a volte pur indirettamente – a impedire.

 

Abbattere statue, o sostenere verità

[Immagine tratta da Facebook, fonte qui.]
Non so se sia così giusto – quantunque del tutto comprensibile – che i monumenti dedicati a personaggi storici legati a questioni di colonialismo e razzismo vengano abbattuti, come sta accadendo un po’ ovunque in questi giorni. Sono senza dubbio auspicabili azioni pubbliche di sensibilizzazione sul tema, appunto, mentre qualche storico propone di rimuovere le statue dai luoghi pubblici e conservarle in un museo, per non nascondere il passato e poterlo contestualizzare. Giusto anche questo, ma a me resta il timore che, se da un lato lasciare le statue nelle piazze come nulla sia accaduto impedirebbe la valorizzazione quanto mai necessaria della verità e della giustizia storiche, dall’altro la rimozione – totale o tra le mura di un museo – finisca comunque per attenuare grandemente la portata della memoria storica riguardante i personaggi in questione, musealizzandola e cristallizzandola in un ambito nel quale, tutto sommato, non darebbe fastidio più di tanto.

Io invece, se potessi, proporrei di lasciare le statue di quei personaggi al loro posto ma con accanto a ciascuna – nessuna esclusa – un bel pannello riportante con la massima chiarezza i loro meriti, ove giustificati, e i demeriti, quando comprovati, così da fornire un quadro chiaro e completo delle azioni compiute lasciando che le persone possano giudicare autonomamente sul pregio da riservare ad essi (sempre che le nefandezze non superino di gran lunga gli eventuali meriti, ovvio). Peraltro, in questo modo si potrebbe rendere evidente anche l’ipocrisia di tali figure storiche, benefattrici da un lato e malvagie dall’altro, rivelando come spesso certi convenzionalismi perbenistici sui quali vengono costruite reputazioni storiche, con ampio uso di una retorica che si autogiustifica proprio nella troppo parziale conoscenza della storia, non siano che la prova di esistenze a dir poco opinabili, non certo di vite eroiche o “sante”.

Per sostenere questa mia proposta porto il caso proprio di Edward Colston, la cui statua a Bristol è stata abbattuta e gettata nel fiume, in pratica togliendola alla pubblica vista. Come si racconta su “Open”, la statua venne eretta nel 1895 e per un secolo diede fama e lustro alla figura di Colston. Poi, nel 1998 – cito dall’articolo di “Open”, «qualcuno ha scarabocchiato sulla sua base la scritta “Slave trader”, trafficante di schiavi. Da quel momento, la fama di cui aveva goduto per moltissimi anni e che lo aveva consacrato come filantropo ha cominciato ad assumere contorni diversi. In molti a Bristol lo vedono sotto una luce negativa» al punto che da tempo in diversi, enti pubblici e privati cittadini, ne richiedevano la rimozione. Ecco: è bastato così poco, ovvero tirare fuori dall’oblio un’evidenza storica riguardante la sua vita in quel modo del tutto elementare, per offuscarne il prestigio imposto e creduto. È esattamente ciò che intendo io, con quella mia riflessione: è un modo con il quale si preserva la memoria specifica nella sua interezza e si permette quell’esame di coscienza (particolare e generale) assolutamente indispensabile alla risoluzione di ingiustizie storiche che altrimenti, in un senso o nell’altro, continueranno cronicamente a provocare danni e problemi d’ogni sorta.

Insomma: aveva ed ha sempre ragione Elisabeth Barrett Browning, in generale, quando scrisse che:

I fanatici sulla terra sono troppo spesso dei santi in cielo.