L’uomo e il selvatico

[Vedute alaskane. Foto di Blake Guffin da Unsplash.]

Il selvatico non è ospitale, ignora l’esistenza dell’uomo, dei suoi valori e della sua cultura. Non c’è nessuna possibilità per noi di essere così come siamo, intatti, lì dentro. Per questo motivo tutte le spedizioni alpinistiche sono in primo luogo equipaggiamenti, preparazione atletica, training psicologico. L’uomo in quanto tale deve trasformarsi in una specie di mito tecnologico e morale, superiore agli elementi, perché, prima di tutto, non li può vedere.

[Marco Triches, Diario delle Alpi, MonteRosa Edizioni, 2022, pag.125. Per leggere la mia recensione al libro, cliccate qui.]

Marco Triches, “Diario delle Alpi”

C’è quella celebre affermazione di Fernando Pessoa tratta da Il Libro dell’inquietudine – probabilmente la conoscerete già – che dice che «I viaggi sono i viaggiatori», cioè sono i viaggiatori a fare il viaggio, non solo dal punto di vista pratico ma pure da quello dell’idea, del concetto, del senso conferito ad esso, così che il significato del viaggio si fa più pieno e compiuto quanto più il viaggiatore è capace di dargli un senso altrettanto compiuto e fruttuoso. D’altro canto a me piace anche pensare – ovviamente senza voler confutare Pessoa, non mi permetterei mai e non sono nessuno per farlo, semmai per assentire in altro modo a quella sua affermazione – che i viaggiatori sono il viaggio: nel senso che il viaggio più autentico, importante e prezioso è quello che in qualche modo si riverbera dentro chi lo compie, viene assimilato tanto dalla mente quanto dall’animo e dallo spirito, diventa fondamentale esperienza, memoria, conoscenza, cultura, consapevolezza. Un po’ allo stesso modo del paesaggio esteriore che, per poterci dire pienamente in relazione con esso, deve diventare paesaggio interiore, così che il viaggio all’esterno, attraverso territori, paesi, luoghi, genti, è specchio di un similare viaggio intimo e per ciò assolutamente nostro, per così dire identitario – per come il paesaggio stesso sia (anche) l’immagine dell’identità di un territorio, e così chiudo il cerchio.

Quello che racconta Marco Triches in Diario delle Alpi (MonteRosa Edizioni, 2022, prefazione di Goffredo Fofi, illustrazioni nel testo di Giulia Maschera) è un “viaggio” che, nella sua manifestazione e nel modo in cui il viaggiatore, cioè l’autore, lo ha elaborato, vissuto e interpretato, mi pare rifletta bene quanto ho appena scritto riguardo la correlazione (bidirezionale) tra i due elementi – viaggio e viaggiatore, appunto. In Diario delle Alpi Triches scrive il resoconto di una lunga traversata alpina affrontata nell’estate 2015, da Trieste a Belluno cioè verso casa, verso i suoi luoghi natali dai quali è partito anni prima per vivere e lavorare altrove: dunque anche in ciò ritroviamo un’altra peculiarità risaputa del viaggio, il punto di arrivo che è punto di partenza e viceversa e la fine del viaggio che rappresenta sempre (per il viaggiatore “vero”) l’inizio di un altro []

(Potete leggere la recensione completa di Diario delle Alpi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

Scrivere è leggere

[Foto di Devanath da Pixabay]
Se Ralph Waldo Emerson aveva assolutamente ragione quando affermava che «chi scrive per se stesso scrive per un pubblico immortale» (asserzione che si era annotato anche Nietzsche nei suoi Appunti Filosofici), è altrettanto vero che l’atto della scrittura letteraria è sempre – per così dire – una pratica “di lettura”.

E non nel senso più ovvio del termine: è lapalissiano che se qualcosa è stato scritto per essere pubblicato, quel qualcosa sarà (dovrà essere) letto da qualcuno. No, io intendo dire che ogni scrittura deve saper farsi leggere, se non vuole restare un mero esercizio di estetizzante retorica o di futile “talentuosismo”: e penso sia una cosa alla quale noi autori poniamo sempre troppa poca attenzione, per trascuratezza, imperizia o per vanagloria. Scrivere bene per farsi leggere male è forse l’errore più grande che un autore possa fare, quasi peggio che lo scrivere male tout court, cosa che quanto meno rende obiettiva l’incapacità nella pratica letteraria. Senza dimenticare peraltro che lo “scrivere bene per leggere bene” è pure un esercizio di reciproca maturazione ed evoluzione della qualità letteraria: ed è un esercizio costante e continuo, che richiede da parte dell’autore il massimo impegno per migliorare il proprio lavoro di scrittura e da parte del lettore la più perseverante sensibilità nel ricercare e considerare il valore dei testi da leggere. Il tutto, tenendo ben presente quell’assunto di Emerson, la cui importanza è data anche dal correlare saldamente lo scrittore e il lettore grazie al testo letterario, scritto e letto.

Anche in questo sta la meraviglia della letteratura, pratica culturale che forse come nessun altra (ma magari sono di parte, non so) unisce l’utile con il dilettevole, l’impegno e la passione reciproca, il divertimento e l’insegnamento, il materiale e l’immateriale ovvero la realtà con la fantasia, il sapere sempre di più col sapere di non saperne mai abbastanza… potrei continuare a lungo ma, credo, non servirebbe, almeno non quanto leggere un buon libro e, per un autore, scriverne di altrettanto buoni. Ecco.

Solo un quadernetto per appunti?

ads5245_csw_rlSe c’è una cosa affine al libro per la quale trovo altrettanto meritati i soldi spesi per acquistarla, è un quaderno per scrivere. Dei più semplici, non importa che sia di qualche marca in voga o che altro: qualche foglio di carta rilegato, magari in un formato comodo, da tasca, così da poterlo avere sempre con sé, per scriverci qualsiasi cosa ci frulli per la mente. Appunti, idee, intuizioni, dubbi da dirimere, ricordi da tener presenti, nomi di cose e persone interessanti, follie varie e assortite… qualsiasi cosa, ribadisco, ma scritta a mano su carta.

A parte il triste fatto che, nel nostro mondo webizzato e tastierizzato in modo più o meno touch (niente di male, per carità, anzi!), ci stiamo dimenticando come si fa a scrivere a mano e la bellezza di questo gesto tanto antico eppure così preziosamente antropologico e profondamente culturale… inoltre, avere la possibilità di appuntarsi qualche cosa di interessante che si è visto o che è comparso in testa, facendo di ciò un’abitudine consapevole, sia un appunto più o meno utile, più o meno profondo o che altro, è come rendere un po’ più chiara, più determinata la vita che stiamo vivendo, è come mettere agli atti qualche suo elemento più importante di altri, è – prendendo come senza dubbio condivisibile ciò che tanti dicono della lettura in quanto sfogo ovvero fuga dal mondo ordinario quotidiano e dalle sue incombenze spesso grevi – come avere l’opportunità di tracciare da soli la strada da seguire per quella nostra fuga, o almeno di mettere per iscritto alcune delle deviazioni intraprese, ecco.
Eppoi, ogni tanto è bene fissare la memoria delle cose su un supporto reale e fisico, non affidare sempre tutto alle memorie virtuali, meravigliose, comodissime, utilissime ma a volte – paradossalmente – così tanto al punto da diventare causa prima della dimenticanza e dell’oblio!

Jules Renard sosteneva che “Si dovrebbe scrivere come si respira. Un respiro armonioso, con le sue lentezze e i suoi ritmi all’improvviso affrettati, un respiro naturale, ecco, il simbolo del bello stile.” Io, più semplicemente e certo senza proporre un personale indegno paragone con lo scrittore francese, sostengo che si dovrebbe scrivere come si deve respirare. Un qualcosa di naturale, di spontaneo, di umano. Una forma semplice di intelligenza assoluta. E non importa cosa o quanto si scriva, lo ribadisco: bastano poche parole, qualche appunto, una traccia scritta. In fondo, è un segno della nostra presenza attiva nel mondo, anche quando essa resti confinata alla nostra mera personale conoscenza. Una traccia su un foglio di carta che, nel suo piccolo e significativo percorso alfabetico, può riprodurre almeno in parte la traccia della nostra vita, rendendola anche più importante di quanto non sia, più di valore. Anche su un quadernetto acquistato per poco o niente.