C’è quella celebre affermazione di Fernando Pessoa tratta da Il Libro dell’inquietudine – probabilmente la conoscerete già – che dice che «I viaggi sono i viaggiatori», cioè sono i viaggiatori a fare il viaggio, non solo dal punto di vista pratico ma pure da quello dell’idea, del concetto, del senso conferito ad esso, così che il significato del viaggio si fa più pieno e compiuto quanto più il viaggiatore è capace di dargli un senso altrettanto compiuto e fruttuoso. D’altro canto a me piace anche pensare – ovviamente senza voler confutare Pessoa, non mi permetterei mai e non sono nessuno per farlo, semmai per assentire in altro modo a quella sua affermazione – che i viaggiatori sono il viaggio: nel senso che il viaggio più autentico, importante e prezioso è quello che in qualche modo si riverbera dentro chi lo compie, viene assimilato tanto dalla mente quanto dall’animo e dallo spirito, diventa fondamentale esperienza, memoria, conoscenza, cultura, consapevolezza. Un po’ allo stesso modo del paesaggio esteriore che, per poterci dire pienamente in relazione con esso, deve diventare paesaggio interiore, così che il viaggio all’esterno, attraverso territori, paesi, luoghi, genti, è specchio di un similare viaggio intimo e per ciò assolutamente nostro, per così dire identitario – per come il paesaggio stesso sia (anche) l’immagine dell’identità di un territorio, e così chiudo il cerchio.
Quello che racconta Marco Triches in Diario delle Alpi (MonteRosa Edizioni, 2022, prefazione di Goffredo Fofi, illustrazioni nel testo di Giulia Maschera) è un “viaggio” che, nella sua manifestazione e nel modo in cui il viaggiatore, cioè l’autore, lo ha elaborato, vissuto e interpretato, mi pare rifletta bene quanto ho appena scritto riguardo la correlazione (bidirezionale) tra i due elementi – viaggio e viaggiatore, appunto. In Diario delle Alpi Triches scrive il resoconto di una lunga traversata alpina affrontata nell’estate 2015, da Trieste a Belluno cioè verso casa, verso i suoi luoghi natali dai quali è partito anni prima per vivere e lavorare altrove: dunque anche in ciò ritroviamo un’altra peculiarità risaputa del viaggio, il punto di arrivo che è punto di partenza e viceversa e la fine del viaggio che rappresenta sempre (per il viaggiatore “vero”) l’inizio di un altro. Un circolo virtuoso sul quale si basa pure un ulteriore luogo comune sul viaggiare, ovvero la meta è il viaggio: affermazione invero un po’ superficiale ma per molti aspetti senza dubbio valida. Tuttavia le “convenzioni” sul tema correlabili al libro di Triches finiscono qui: il viaggio compiuto dall’autore è assai particolare fin dallo scopo pratico – tornare a casa a piedi da una città lontana qualche centinaio di km per di più affrontando una rotta alpina, dunque geomorfologicamente perigliosa e assai poco confortevole – in autonomia di mezzi e viveri pressoché totale, facendo in modo che siano il viaggio e il paesaggio a decidere quale via percorrere, quali soste affrontare, quanto camminare, eccetera. Solo un luogo da cui partire, un luogo da cui arrivare e le Alpi in mezzo: tutto il resto da inventare, il che rappresenta già un’interpretazione notevole del concetto di “viaggio” e della sua pratica più autentica, la quale rimanda anche all’istinto di esplorazione dello spazio che ogni creatura intelligente e senziente manifesta – e l’esplorazione non avviene solo in luoghi remoti e selvaggi ma si può coltivare anche fuori dall’uscio di casa, in posti dei quali si crede di sapere tutto, se si è capaci farlo.
Da questa sorta di tabula rasa geomentale sulla quale tracciare una rotta costruita passo dopo passo, libera da condizionamenti ma condizionata a una libera relazione con le montagne nonché, in senso lato, con il mondo quotidianamente vissuto, non poteva certamente scaturire un resoconto ordinario del viaggio compiuto, non un classico “diario di viaggio” insomma. In effetti il termine “Diario” nel titolo è quasi fuorviante, pur se consono, perché farebbe pensare di avere da leggere una cronaca cronologicamente ordinata, espressivamente meditata così da ricostruire nelle parole l’itinerario percorso e l’avventura vissuta – genere letterario tanto meraviglioso ma piuttosto abusato, così da presentare grandi capolavori e scritti banalissimi. Invece Diario delle Alpi appare più come una specie di riscrittura di un foglio d’appunti, di quanto è stato annotato su un bloc notes con tutte le peculiarità di tale pratica, durante il cammino, senza pensarci troppo e senza far troppo caso nemmeno a ciò che si scrive: testi poco articolati, a volte minimi (o minimalisti), pensieri apparentemente slegati l’uno dall’altro, note veloci dettate dalle emozioni del momento più che dalla razionalità della mente. Unico filo rosso a dare una “direzione” spazio-temporale al testo oltre che geografica (agevolata questa dagli schizzi con cui periodicamente l’autore illustra la rotta seguita), l’indicazione delle tappe percorse, con partenza, arrivo e punti di passaggio, a far da titolo a capitoletti che diventano come tante piccole tasche nelle quali infilare quelle specie di “post-it” con i vari appunti di viaggio, a volte consequenziali, a volte non troppo o ben poco, appunto. Quello che per tutto ciò si manifesta è dunque una sorta di flusso di coscienza da cammino alpestre, una scrittura quasi automatica ma non perché inconscia, semmai perché istintiva e proprio per questo più sincera, forse confusa nella forma ma anche così più rappresentativa del momento vissuto e del senso della relazione di quel dato momento che l’autore vive con il luogo in cui si trova e con il suo paesaggio. Scrittura peraltro agevolata da un piccolo e fastidioso ma importante (per il testo) incidente di percorso, la perdita della macchina fotografica già nei primi giorni di viaggio, il che obbliga Triches a trasformare le potenziali immagini che avrebbe scattato in altrettante descrizioni di ciò che avrebbe voluto immortalare, istantanee di parole che gioco forza non possono avere una classica forma narrativa ma devono restare il più possibile “attaccate” alla realtà, senza troppi giri linguistici ma di contro senza ignorare dettagli magari minimi ma in verità importanti per riportare la realtà così fotografata non dall’obiettivo ma dalla mente. Nel complesso è un po’ come leggere non tanto i pensieri di Triches ma il pensiero, cioè proprio l’attività intellettuale mediata da quella emozionale che elabora continuamente visioni, percezioni, impressioni e considerazioni sul paesaggio che attraversa, riportata per quanto possibile nelle parole del testo che in questo modo appare senza dubbio più consono a una narrazione di/da viaggio che, appunto, tanti ordinari resoconti letterari, bellissimi nella forma ma fin troppo mediati nella sostanza espressiva.
Goffredo Fofi, nella prefazione al testo, scrive che «Non ci sono soltanto ì grandi viaggi, i grandi avventurieri, i grandi esploratori, specialmente oggi in un mondo diventato così piccolo e sovraffollato. E non ci sono soltanto i maledetti turisti, distruttivi di tutto. Ci sono anche i viaggi più comuni, non di esplorazione o di avventura, non marinari, e anch’essi hanno avuto grandi narratori, li hanno avuti perfino i viaggi a dorso di un asino (Stevenson nelle Cevennes), affrontati per il gusto di muoversi e di conoscere – e infine di godere – piuttosto che per necessità.» Ecco, il cammino attraverso una buona parte delle Alpi compiuto da Triches non è forse un viaggio di quelli “eccezionali”, non è una “grande avventura” nell’accezione che comunemente possiamo dare a tale espressione, qualcosa che rimanda al concetto più ordinario di esplorazione. Tuttavia, come dicevo poc’anzi, veramente possiamo dire di non aver bisogno di esplorare ancora il nostro mondo, anche quello che comincia appena oltre l’uscio di casa nostra? Veramente crediamo di sapere tutto di esso, solo perché magari oggi abbiamo pure tecnologie in grado di svelarci ciò che altrimenti non sapremmo conoscere? E veramente, di nuovo, il viaggio è solo quello che avviene il più lontano possibile la casa, dalla nostra ordinaria quotidianità? Forse, invece, “viaggio” è anche quello che compiamo quando – per fare degli esempi banali – andiamo a comprare il pane o usciamo con il nostro cane oppure, più concretamente, saliamo per l’ennesima volta una montagna sulla quale siamo già stati innumerevoli volte: perché il viaggio siamo noi e solo noi possiamo “fare” il viaggio nel senso più pieno del termine, attraversando un paesaggio, una geografia, un luogo che in fondo diventano sempre ciò che noi siamo. Il viaggio a piedi da Torino a Trieste compiuto da Marco Triches è stato Marco Triches: un cammino nella sua geografia interiore, nel personale paesaggio umano, è stato l’espressione della sua identità e della sua visione della vita, è stato un bisogno e un piacere entrambi profondi in quanto autentici, è stato il frutto concreto della relazione che egli ha intessuto con quello spazio e quel tempo che ha attraversato per giungere alla meta prefissata – e così da questa meta poter ripartire. Il viaggio, quello autentico, non finisce mai: altra cosa che si usa e abusa dire così banalizzandone un senso originale che invece i viaggiatori, quelli autentici, sanno essere qualcosa di irrinunciabile, di vitale. Appena fuori casa o in capo al mondo oppure attraverso le Alpi, il nostro “capo al mondo” appena fuori casa.