Ultrasuoni #26: Franco Cerri

[In Corso Venezia, a Milano, nel 1999. Immagine tratta da www.francocerri.com.]

Mi chiamo Franco Cerri e faccio del jazz con la chitarra. Suono la chitarra perché ne sono rimasto affascinato fin da piccolo. Sono stato stregato da questo strumento, mi piace la forma: sinuosa, elegante, qualcosa di molto vicino al corpo femminile. Ma soprattutto il suono, il suono mi ha fatto impazzire. Che bello quel suono.
Non mi sono mai sentito tranquillo, non ho mai fatto scale, non sono mai stato sicuro, non ho mai studiato, non ho mai fatto solfeggio, non ho mai fatto esercizio. Ho soltanto suonato. È andata così…

Così si descriveva Franco Cerri nel suo libro autobiografico Sarò Franco. Appunti, pensieri, riflessioni, pubblicato qualche anno fa da Arcana Editrice. Ammetto di non conoscere granché della sua cospicua produzione musicale, ma Cerri è stato un personaggio meraviglioso sotto ogni aspetto. Figlio assolutamente legittimo della Milano d’una volta, quella autenticamente meneghina che ormai non c’è più – la materna città sua e di Jannacci, Gaber, Fo, Svampa, Celentano e di molti altri personaggi inimitabili –, gentile, signorile, raffinato, geniale eppure sempre modesto, discreto, Cerri ha dato la vita per la musica ma in fondo la sua stessa vita è stata musica, un’armonia intensa e attraente che metteva sempre di buon umore, cullando l’animo tra le note sublimi che componeva. Probabilmente anche perché Cerri era pure elegantemente divertente, sempre. Franco D’Andrea, altro grande musicista jazz, ricorda che «Una volta lo incontrai in Stazione Centrale. Gli chiesi dove andava. Risposta: “Sono in viaggio per ragioni biologiche”. Solo dopo un po’ capii: doveva andare a girare i Caroselli del Bio Presto, quelli dell’uomo in ammollo.»

Senza più lui ora anche il jazz italiano, e parimenti quello mondiale, suonerà in modo eccellente ma, per così dire, un po’ più triste.

Roberto Calasso

[Immagine tratta da “Informazione.it“, l’articolo originario è qui.]
Roberto Calasso era “la” letteratura di qualità in Italia, ovvero la figura di più nobile riferimento e di più virtuoso esempio nel panorama editoriale nazionale, colui al quale veniva da pensare, più che ad altri (senza togliere nulla a nessuno, ovviamente), quando c’era da porre in relazione “letteratura” (e libri, e lettura) con “cultura”: un aspetto originariamente scontato ma negli ultimi tempi venuto sempre più a svanire. Calasso invece, da avveduto capitano della sua Adelphi, aveva sempre saputo mantenere la barra del timone editoriale ben dritta anche in mezzo a certi recenti e agitati flutti che il settore ha registrato e subìto, sia dal punto di vista commerciale che della qualità letteraria.
Raro esempio (in Italia) di fondatore, proprietario – cioè maggior azionista – e editore della propria società – che si identificava in lui così come Calasso si identificava in Adelphi, non solo dal punto di vista dell’immagine – è stato parimenti un colto e raffinato autore, latore di una “cultura del libro” a tutto tondo di antico e fiero lignaggio tanto quanto di emblematico e paradigmatico valore contemporaneo e futuro.

Ora che Roberto Calasso non c’è più, e che con la sua assenza il panorama editoriale italiano si ritrova senza un punto di riferimento importante se non indispensabile per la sua stessa fondatezza, se così posso dire, c’è solo da augurarsi che la parte di lui che quaggiù rimane, memoria, esperienza, retaggio e spirito di una vita intera da editore, la sua Adelphi, sappia continuare lungo la rotta così magistralmente tracciata da Calasso e fino a oggi percorsa in modo tanto lodevole oltre che, da oggi, ancor più necessario.

Enrico Vaime

[Immagine tratta da “Il Messaggero“, cliccateci sopra per leggere l’articolo dal quale è tratta.]

In questo paese di ignoranti uno che riesce a distinguere un condizionale da un congiuntivo rischia di passare per intellettuale.

La partenza per altri lidi ultraterreni di Enrico Vaime ci priva di una delle intelligenze umoristiche più brillanti in assoluto, mirabile rappresentante di quel club di grandi umoristi che ha vivacizzato la cultura italiana lungo tutto il Novecento, da Achille Campanile a Leo Longanesi, a Ennio Flaiano, Giovannino Guareschi e Giorgio Manganelli – per citarne solo alcuni, i primi che mi vengono in mente, di quelli che usavano la scrittura per elargire la loro illuminante ironia e senza contare tutti gli altri che hanno usato (anche) altri mezzi di comunicazione, sovente con collaborazioni mediatiche assai fruttuose – proprio come fece Vaime con la TV, nella celebre coppia autorale con Italo Terzoli da loro stessi definita “ditta”.

Leggere e ascoltare Enrico Vaime era un piacere assoluto: la sua capacità di essere serio e ironico al contempo, graffiante e sarcastico eppure illuminante e educativo, sempre elegante e garbato anche quando menava ceffoni umoristici di rara accuratezza, è uno dei modelli migliori di quella peculiare scuola umoristica italiana che, forse come nessun’altra cosa, ha saputo “spiegare” il paese ai suoi stessi abitanti mantenendolo – per così dire – coi piedi per terra, insegnandogli a ridere (grazie ad alcuni tra i più divertenti e innovativi programmi televisivi, di quando la TV italiana era bella e intelligente) e ancor più insegnandogli a ridersi addosso – si veda la citazione lì sopra. Una dote fondamentale per qualsiasi società veramente progredita, che troppo spesso viene trascurata: per questo figure di intelligente ironia come Vaime sono così importanti, ed è per lo stesso motivo che ora faremo un po’ più fatica a ridere con intelligenza e garbo.

Ultrasuoni #15: Casadei

No no, io non l’ho mai ascoltato Raoul Casadei con la sua orchestra.

Anzi, sì invece: io li ho ascoltati un sacco di volte, i Casadei, e come me quasi tutti voi che state leggendo questo articolo, immagino. Perché non c’è stata località di villeggiatura, di mare e non solo, non c’è stata vacanza soprattutto estiva, non c’è stata sagra di città o di paese, festa, serata danzante, mangiata tra amici nella quale non sia risuonata la melodia di uno dei brani composti dai Casadei, così come ci sono state centinaia di spot pubblicitari, spettacoli e programmi Tv, film più meno conosciuti che hanno utilizzato qualcuno dei più suoi celebri pezzi. Non solo: mi viene da immaginare che, forse anche più di Modugno, Battisti, Baglioni e di qualsiasi canzone che ha fatto la storia della canzone pop(olare) italiana, noi tutti, anche senza essere degli appassionati di ballo (e io men che meno) ci siamo ritrovati a canticchiare pezzi come Romagna Mia, Simpatia, Ciao Mare, La Mazurka di Periferia, Romagna e Sangiovese. Perché come pochi altri, forse come nessuno, i Casadei, guidati da Raoul, sono stati il gruppo musicale nazional-popolare italiano par excellence, geograficamente referenziato (Romagna über alles, appunto) eppure nazionalmente riconosciuto e apprezzato.

Insomma: il “Re del Liscio”, come veniva chiamato Raoul Casadei non senza una punta di ironia e di leggerezza, è invero da considerare un vate tra i principali della musica popolare italiana: vacanziera, banalotta, disimpegnata e casereccia quanto si vuole ma, io credo, comunque meno di quella proposta dai “Sanremi” d’ogni tempo, dai talent contemporanei e da quant’altri “fenomeni” musicali in circolazione, già.

Per tutto ciò, l’omaggio a Raoul Casadei è assolutamente doveroso. Anche se non li ho mai (consapevolmente) ascoltati, i Casadei: però riguardo loro e quanto hanno fatto «massimo rispetto!», come si usa dire.

Lou Ottens

[Foto di Dmitriy Demidov su Unsplash.]
Ecco, per dire: io Lou Ottens non sapevo chi fosse, fino a ieri sera. O forse l’avevo sentito nominare, anni fa, dimenticandomelo rapidamente. E invece, a ben vedere, essendo la musica una delle passioni più forti e formative nel corso della mia esistenza, e avendo vissuto appieno, negli anni dell’adolescenza, l’epoca d’oro delle musicassette, dalle quali ascoltavo musica e la scambiavo con “amici di penna” di tutto il mondo (quello che si chiamava tape trading, una roba che sembra parte del Mesozoico, a pensarci oggi), ed essendo Ottens l’inventore delle suddette musicassette, be’, non posso che concludere che Lou Ottens sia stato uno dei personaggi maggiormente fondamentali, per dare forma e sostanza all’esistenza del sottoscritto.

Ma credo proprio, riguardo a quanto ho appena scritto, che fondamentale Ottens lo sia stato per qualche altra centinaia di milioni di persone nel mondo. Un uomo che ha fatto la storia del nostro tempo, insomma, ben più di altre figure che riteniamo “storiche” ma, volendone paragonare l’importanza concreta, quotidiana e collettiva, con presupposti assai meno essenziali, in fondo.
Se poi si considera che Ottens diede il proprio contributo anche all’invenzione del compact disc, lo “Chapeau!” bisogna ancor più considerarlo doveroso e imperituro.

Cliccate sull’immagine per leggere un’articolata storia della nascita delle musicassette e del lavoro di Ottens al riguardo, da “Il Post”.