Tina Turner

Tina Turner, qui in un’esibizione alla RAI del 1971 – anno nel quale sono nato, per giunta – è stata (è) un’icona vera, nel senso più compiuto del termine. Ovvero qualcuno che «c’era» sempre e comunque nell’immaginario collettivo, una presenza che andava oltre il mondo della musica e anche oltre alle sue canzoni: io che non le ascoltavo granché, piacendomi altra musica, ogni volta che me la trovavo davanti in TV o su qualche periodico ne restavo ammirato, quasi obbligato – metaforicamente – a inchinarmici davanti come di fronte a una figura «super» (nell’etimo originaria del termine) alla quale non si poteva e non si può non manifestare venerazione.

Eppoi la vita che ha vissuto, lei donna nera divenuta “Queen of rock” (musica bianca per eccellenza, nella modernità), l’amore tossico con Ike, la lotta per i diritti degli afroamericani, la forza irrefrenabile sul palco, la voce, la presenza, l’eleganza e al contempo il sex appeal… nonché – cosa che a me la rende ancora più vicina – il buen retiro degli ultimi anni sul Lago di Zurigo e la cittadinanza svizzera. Ma, pure al di là di questo, una come lei avrebbe potuto fare qualsiasi cosa – la presidentessa degli USA, la segretaria dell’ONU, la papessa… – e l’ammirazione collettiva sarebbe rimasta invariabilmente assoluta, ne sono certo. Ce n’è così da inchinarsi riverenti qui, altro che!

Fatto sta che da oggi il nostro mondo ha un po’ di energia in meno. Energia nera e tuttavia luccicante come poche altre. Ineguagliabile.

P.S.: per la cronaca, il brano del video, Proud Mary (famosissimo: lo avrete certamente sentito più volte, in giro), è stato uno dei maggiori successi di Ike & Tina Turner ma in origine è dei Credence Clearwater Revival, pubblicato nel 1968 e pure per loro un gran successo.

Pubblicità

Ultrasuoni #30: Simple Minds

Tutto questo gran ritorno a sonorità anni Ottanta che colgo nettamente in tanta musica pop odierna ascoltata sulle varie radio, anche da parte di artisti molto giovani (evidentemente dotati di produttori più “maturi”), mi piace molto per un motivo fondamentale: perché mi fa rendere conto quanto i suoni originali, quelli di quarant’anni fa, siano sostanzialmente inimitabili e insuperabili, nonostante la tecnologia contemporanea a supporto delle produzioni di oggi, anche perché dotati, gli originali, di un carisma artistico eccezionale.

[Immagine tratta da www.virginradio.it.]
In questi giorni sto ascoltando un “best of” dei Simple Minds, band tra le più influenti di quel decennio anche se, forse, non tra le prime che si potrebbero citare in tema di notorietà assoluta, e quel carisma eccezionale scaturisce da ogni brano o quasi, sia da quelli della prima parte di carriera, considerata eccelsa, che del seguito, quando alcuni enormi successi (Don’t You (Forget about Me), Alive And Kicking) li hanno fatto considerare “mainstream”, anche troppo per alcuni. Eppure io trovo classe sublime sia in uno dei brani simbolo della prima fase (e un po’ di tutto il Synth-pop del tempo), New Gold Dream (81/82/83/84), che diede anche il titolo al loro album del 1982…

che ad esempio in All The Things She Said, non tra i brani più celebri ma comunque un perfetto esempio del loro Pop rock elettronico, armonicamente perfetto o quasi, a tratti epico (ascoltatevi la parte finale), dotato d’un’anima elettrica (comunque i Minds venivano dal punk) eppure assolutamente popular:

Un gran pezzo, insomma, che proprio nel non essere considerato tra i più celebri della band dimostra la grandezza generale dei Simple Minds e la loro capacità di creare brani comunque capaci di lasciare una traccia forte e indissolubile nel panorama musicale degli ultimi decenni – come numerose altre band di quell’epoca, grandissime come forse nessun altra ha saputo (o potuto) essere nei lustri successivi. Dei brani di oggi che riecheggiano così platealmente le sonorità Eighties, quanti sapranno rimanere nel tempo e nella memoria collettiva allo stesso modo?

[Immagine tratta da www.wegow.com.]

Ultrasuoni #26: Franco Cerri

[In Corso Venezia, a Milano, nel 1999. Immagine tratta da www.francocerri.com.]

Mi chiamo Franco Cerri e faccio del jazz con la chitarra. Suono la chitarra perché ne sono rimasto affascinato fin da piccolo. Sono stato stregato da questo strumento, mi piace la forma: sinuosa, elegante, qualcosa di molto vicino al corpo femminile. Ma soprattutto il suono, il suono mi ha fatto impazzire. Che bello quel suono.
Non mi sono mai sentito tranquillo, non ho mai fatto scale, non sono mai stato sicuro, non ho mai studiato, non ho mai fatto solfeggio, non ho mai fatto esercizio. Ho soltanto suonato. È andata così…

Così si descriveva Franco Cerri nel suo libro autobiografico Sarò Franco. Appunti, pensieri, riflessioni, pubblicato qualche anno fa da Arcana Editrice. Ammetto di non conoscere granché della sua cospicua produzione musicale, ma Cerri è stato un personaggio meraviglioso sotto ogni aspetto. Figlio assolutamente legittimo della Milano d’una volta, quella autenticamente meneghina che ormai non c’è più – la materna città sua e di Jannacci, Gaber, Fo, Svampa, Celentano e di molti altri personaggi inimitabili –, gentile, signorile, raffinato, geniale eppure sempre modesto, discreto, Cerri ha dato la vita per la musica ma in fondo la sua stessa vita è stata musica, un’armonia intensa e attraente che metteva sempre di buon umore, cullando l’animo tra le note sublimi che componeva. Probabilmente anche perché Cerri era pure elegantemente divertente, sempre. Franco D’Andrea, altro grande musicista jazz, ricorda che «Una volta lo incontrai in Stazione Centrale. Gli chiesi dove andava. Risposta: “Sono in viaggio per ragioni biologiche”. Solo dopo un po’ capii: doveva andare a girare i Caroselli del Bio Presto, quelli dell’uomo in ammollo.»

Senza più lui ora anche il jazz italiano, e parimenti quello mondiale, suonerà in modo eccellente ma, per così dire, un po’ più triste.

Ultrasuoni #21: Duran Duran

Chi mi conosce, facilmente sa (e chi non mi conosce lo sa da ora) che, musicalmente, ma non solo, la mia “anima” è forgiata nel più tenebroso black metal e rivestita con il più oltranzista hardcore/grind. Tuttavia, nonostante ciò (ma perché mai, poi? Bando ai convenzionalismi, suvvia!), io qui, lo dico e lo ribadisco, confesso che da sempre ritengo i Duran Duran una delle più grandi pop band dell’epoca contemporanea, che peraltro debuttava esattamente quarant’anni fa, il 15 giugno 1981, pubblicando il primo omonimo album.

Icona assoluta dei scintillanti anni Ottanta (dei quali i DD hanno scritto quello che si può definire l’inno definitivo del decennio, Rio – già, non Wild Boys come tanti ritengono) ma capaci di “invecchiare” benissimo e come ben poche altre band – come loro solo i sublimi Depeche Mode, io credo – al punto da pubblicare uno dei migliori album (All You Need Is Now) più di trent’anni dopo il loro esordio, musicisti sopraffini, creatori di una serie impressionante di brani di successo – più di loro forse solo i Depeche Mode, di nuovo – dotati di classe eccelsa, di grande eleganza e stile sempre impeccabile, belle persone anche dal punto di vista umano, pure, hanno forse avuto una sola grande “sfortuna”, ovvero la loro più grande fortuna: l’enorme successo planetario. Che li ha resi un mito generazionale o, più banalmente, un sogno per milioni di teenagers, che ha fatto guadagnare loro un sacco di soldi ma che, di contro, ha offuscato buona parte delle loro notevoli qualità artistiche. Le quali peraltro la critica riconosce loro senza alcuna remora ma oggi, più che ai tempi dell’incontenibile successo e del relativo delirio adolescenziale degli anni Ottanta, quando il mondo cantava le loro canzoni ma in fondo era più interessato alle apparizioni TV, al look, ai vari gossip e a quant’altro di off topic rispetto alle suddette grandi qualità artistiche.

Li voglio celebrare con un brano famoso ma non come le loro più celeberrime hits, eppure in grado di presentare al meglio la classe, la raffinatezza e l’eleganza musicale, la capacità compositiva e l’inimitabile appeal che si può riscontrare di frequente lungo tutta la loro carriera: New Moon On Monday. Melodia sopraffina, arrangiamento elegantissimo, fascino irresistibile, orecchiabilità assoluta e un “classico” testo alla Simon Le Bon, cioè bizzarramente criptico alla sua maniera.

Nota divertente: NMOM ve lo propongo anche in qualità di eccezione (video) che conferma la regola. Già, perché sia Andy Taylor che Nick Rhodes (chitarrista e tastierista dei DD) hanno dichiarato che il brano abbia il video peggiore mai girato dalla band. Nelle sue memorie, citate da Wikipedia, Taylor scrive che «Tutti… lo odiano, in particolare la scena terribile alla fine, dove balliamo tutti insieme. Ancora oggi, alla sua vista rabbrividisco e me ne vado.»

Be’, cari Duran Duran, di video peggiori nel frattempo la musica contemporanea ne ha offerti molti altri; di grandi band come voi, invece, ben poche. È questo, insieme alla vostra musica, che alla fine conta. E basta.

P.S.: cliccando sulle fotografie, tratte dalla pagina Facebook della band, potrete leggere una ampia e articolata biografia dei Duran Duran, tratta da Onda Rock.

Ultrasuoni #20: il “mio” Franco Battiato

Il “mio” Franco Battiato è stato ed è tante cose, molte di esse sicuramente condivise con innumerevoli altri suoi cultori, che nel complesso ne hanno fatto una delle figure culturali di riferimento più importanti, per chi vi scrive. Ma, se nella sua produzione musicale devo indicare qualcosa, cioè un brano a me particolarmente caro, allora indico Summer on a solitary beach, ecco.

Anno 1981: ho dieci anni e nei primi sussulti preadolescenziali comincio ad apprezzare non più solo le sigle dei cartoni animati ma pure musiche “da adulti”. In TV un tizio piuttosto strano, ma intrigante, presenta il suo ultimo album, La Voce del Padrone, e per le radio (non avevo impianti stereo o cose simili a quell’età e non ce n’erano a casa, solo un ordinario “mangiacassette”, come si chiamava allora, ed era la radio il principale media musicale) girano brani poi divenuti celeberrimi: Bandiera Bianca, Cuccurucucù, Centro di Gravità Permanente. Però quello che a me colpisce e si stampa in testa da subito è il primo brano del disco – sentito non ricordo dove e come, visto che non fu un singolo ma uscì, oltre che sull’album, come lato B di Bandiera Bianca – dal titolo in lingua inglese e dotato di una melodia particolarissima, suadente, facilissima e al contempo raffinata, vagamente orientaleggiante ma invero indefinibile e non poco ipnotica, ispirata dal paesaggio marino siciliano eppure capace di generare, con il testo altrettanto particolare, quasi surreale, la sensazione di uno spazio-tempo sospeso. Una dimensione metafisica, ecco: forse uno dei pezzi del periodo “pop” di Battiato più capaci di fornire questa specifica percezione, che diventerà centrale ed emblematica in tutta la produzione musicale (e non solo in quella) del Maestro siciliano. Non a caso, «secondo le intenzioni del cantautore il brano doveva rievocare una “spiaggia metafisica”» sottolinea l’articolo di Wikipedia dedicato a La Voce del Padrone.

Ovviamente allora, a dieci anni, non potevo capire tutto ciò; però sono certo che comprendessi o quanto meno fossi sensibile al fascino profondissimo del brano, alla sua capacità di far viaggiare l’ascoltatore cullato da un continuum armonico ammaliante, a quell’accordo elettronico primario tanto semplice quanto “assoluto”, ed ero assai incuriosito dall’autore del brano, così serio, compito, diverso da ogni altra “popstar” del tempo, quasi che lui per primo venisse da un’altra dimensione a proporre i suoi brani per poi tornarsene nel proprio (apparente) mistero.

Fatto sta che, ribadisco, da quel tempo in poi Battiato è diventato uno dei riferimenti culturali fondamentali per me, e quel brano, che compie 40 anni esatti, non ha perso un grammo della sua peculiare bellezza. E non ne perderà mai, senza alcun dubbio.