Soglio in “fasce”

L’affascinante opera grafica qui sopra riprodotta è uno dei frutti del rilevamento compiuto nel 1983 a Soglio, il bellissimo villaggio della Val Bregaglia (sul quale ho già scritto qui), dagli studenti di architettura della scuola di ingegneria dei due semicantoni di Basilea sotto la direzione del noto architetto svizzero Michael Alder e pubblicato nel volume del 1997 Soglio: Siedlungen und bauten / Insediamenti e costruzioni (testo oggi fuori commercio, purtroppo).

L’opera illustra le costruzioni nelle diverse fasce altitudinali del territorio comunale evidenziandone in maniera tanto immediata quanto chiara la relazione con la porzione di riferimento del territorio locale: dal basso in alto si passa dal fondovalle, dove è ancora presente la vite (800-900 m), alla zona dei castagneti (900-1100 m), dominata dal villaggio terrazzato. Al di sopra del paese seguono poi i monti bassi, la fascia inferiore di alpeggi sopra il limite di crescita delle latifoglie (1500 m), e i monti alti, la fascia superiore, appena al di sotto del limite di crescita delle conifere (2000 m), il massimo limite altitudinale dell’antropizzazione nel territorio di Soglio.

L’immagine (cliccateci sopra per ingrandirla) è tratta dalla voce “Soglio” del Dizionario Storico della Svizzera, che potete consultare qui.

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Soglio, ovvero: (topo)nomen omen

[Immagine tratta da siviaggia.it, la fonte originale qui.]
In uno dei passaggi più suggestivi de La leggenda dei monti naviganti, Paolo Rumiz scrive una cosa che io trovo molto bella e ricca di significati, «Finché ci saranno i nomi, ci saranno i luoghi», che da un lato mette in evidenza l’importanza della conoscenza culturale ovvero vernacolare dei luoghi affinché non vengano del tutto abbandonati e, peggio ancora, dimenticati; dall’altro rimarca l’importanza altrettanto grande del nome dei luoghi cioè dei toponimi, termini lessicalmente tanto semplici, all’apparenza, quanto capaci di condensare in essi numerose nozioni e narrazioni delle località che identificano.

In certi casi, poi, i toponimi riescono anche a rappresentare in un’immagine lessicale di immediata comprensione la sostanza geografica dei luoghi denominati, diventando un elemento estetico ulteriore, ancorché immateriale, che ne compone la bellezza e la rileva, al punto che, a volte, parafrasando scherzosamente la nota locuzione latina, si può dire toponomen omen!

È il caso di Soglio, il bellissimo borgo della Val Bregaglia (e tra i più belli in assoluto della Svizzera), famoso per il suo caratteristico nucleo storico e per i magnifici panorami verso le spettacolari vette della prospiciente Val Bondasca. Ecco: il suo toponimo, ovvero la sua interpretazione, offre alcune considerazioni interessanti e particolari, per come non solo identifichi il luogo ma pure per quanto sappia offrirne l’essenza geografica, storica e antropologica.

[Foto di Kuhnmi, Opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte: commons.wikimedia.org.]
Innanzi tutto delinea geograficamente la sua storia (e non è per nulla un ossimoro, quanto ho appena scritto), dacché il toponimo Soglio deriva probabilmente dal latino solium, con il significato di posta di stalla o soglio o abbeveratoio, anche naturale, per animali al pascolo (fonte), termine forse di derivazione da un antroponimo gallo latino “Sollius” (fonte). Tale accezione rimarca come, nei secoli passati, da Soglio transitava una delle vie principali lungo la Bregaglia, che non passava dal fondovalle ma restava lungamente in quota e percorreva il suo versante solivo e meno soggetto alle piene del fiume (via diventata oggi un frequentato percorso escursionistico), incrociando altri collegamenti storici importanti, come quello verso la Val d’Avers attraverso il Pass da la Duana.

D’altro canto, molti ritengono, e in fondo con numerose ragioni, che al toponimo si debba riferire l’altra principale accezione del termine: «Sòglio, s. m. [dal lat. solium], letter. – Trono, seggio di chi riveste un’autorità sovrana: s. realeimperiales. pontificioassistente al s.» (fonte). Effettivamente non è il borgo posto in posizione dominante sulla val Bregaglia come se fosse ben accomodato su un confortevole e soleggiato trono da quale ammirare alcuni dei più bei panorami delle Alpi?

È pure interessante osservare che il toponimo – e il luogo – Soglio lo si potrebbe pure mettere in relazione con l’essere sotto diversi aspetti una specie di soglia, morfologica ovvero d’ingresso alla parte superiore e più importante della Val Bregaglia, e climatica (in tal caso “soglia” s’intende come luogo di passaggio, di cambiamento), per come dal borgo in su l’ambiente naturale cambi radicalmente e diventi prettamente alpino mentre i pendii sottostanti Soglio sono gli ultimi della valle, salendo dall’Italia, sui quali si possono trovare estese selve di castagni (presenti qui fin da tempo dei Romani) nonché altri alberi da frutto che evidentemente risentono degli ultimi scampoli di clima favorevole generato dalla non lontana presenza del Lago di Como. E come poi non ricordare che Giovanni Segantini, il quale a Soglio soggiornò per alcuni inverni e che definiva il luogo, anch’egli “giocando” selle possibili accezioni del toponimo, “soglia del paradiso”, proprio per la suprema bellezza delle sue visioni panoramiche (che peraltro fissò in una sua celebre opera, Werden / La vita)?

Insomma, «Finché ci saranno i nomi, ci saranno i luoghi»: le parole scritte da Rumiz in quel suo libro citato a Soglio diventano quanto mai pregne di molteplici significati, contribuendo in modi assolutamente intriganti alla bellezza, all’attrattiva del luogo e al desiderio di comprenderne l’essenza storica, geografica, naturalistica, paesaggistica e antropologica nel modo più profondo e compiuto possibile – come il fascino del luogo merita pienamente, d’altro canto.

Ritrarre | raccontare la montagna

[Cliccateci sopra per ingrandire l’immagine.]
Il paesaggio non è mai uguale a se stesso ed è in costante divenire, offrendo “materiale” per narrazioni innumerevoli e continuamente affascinanti proprio perché sempre diverse, le quali d’altro canto richiedono una capacità di lettura tanto naturale quanto rara. Ciò vale in particolar modo per un territorio come quello montano, la cui varietà di geografie, geologie, morfologie, ambienti, cromie, armonie, meraviglie è direttamente proporzionale alle possibilità di visioni, percezioni, cognizioni e raffigurazioni, ma è pure inversamente proporzionale alla capacità di materializzare e fissare un ambito così ricco di infinite suggestioni e dunque, in tal senso, delicatamente ostico.

Cesare Martinato è uno di quelli che, a mio parere, sa narrare le montagne in quel raro modo compiuto, intenso, intrigante, riuscendo a portare chi ammira le sue opere a diretto contatto con l’essenza delle montagne rappresentate, quasi da poter dialogare – seppur a distanza – con il loro Genius Loci. La sua mostra fotografica itinerante Cropped mountain – Venti ritratti di montagne in montagna è a Castasegna, nella splendida Val Bregaglia, dal 25 settembre al 2 ottobre, e per quanto ho appena affermato poco sopra non è assolutamente da perdere. Ancor più se avrete la possibilità di visitarla domenica 26 settembre, quando al grande narratore per immagini Martinato si unirà l’altrettanto grande narratore di montagne per scritture Enrico Camanni, in un incontro intitolato Raccontare la montagna | La montagna raccontata nel quale si rifletterà proprio su come e quanto sia cambiato nel tempo il racconto per parole e immagini della montagna.

Cliccate qui e qui per saperne di più sulla mostra e sull’incontro di domenica 26.

[Cesare Martinato, Engadina. Cliccateci sopra per ingrandirla.]

Alpinismo letterario

A volte si trova molta più “letteratura” (nel senso più artistico ovvero espressivo del vocabolo) ove mai si potrebbe pensare di trovarla che in certi “libri” – cioè, in tanti di quei prodotti di consumo che gli editori vogliono far credere che abbiano un qualche valore letterario e invero ne hanno ormai meno che lo scontrino d’una salumeria.)

Ad esempio, in un semplice schizzo col quale, con pochi ma illuminanti tratti, la guida alpina Michele Comi propone alcune salite nelle Alpi centrali per l’estate in corso. Così, con (all’apparenza) poco, Comi narra tantissimo: racconta cosa sia la montagna autentica e come possa (debba) essere un altrettanto autentico rapporto tra essa e l’uomo che l’affronta, rimarca che l’avventurarsi alpinisticamente in alta quota non potrà mai essere “un’esperienza programmata” e come tale vendibile come un “prodotto di consumo” (appunto, vedi sopra) oppure affrontabile come una vacanza in un villaggio turistico nella quale essere intrattenuti (da altri) è obbligatorio – dacché non più capaci di intrattenersi da soli, ad esempio proprio con lo spettacolo della Natura e delle vette alpine… Uno spettacolo unico e irripetibile perché autentico, non preconfezionato, non adattato e aggiustato al fine di eliminare la sua complessità e rendere tutto più facile – dunque più facilmente vendibile, ribadisco.

Anche a tale proposito, Michele Comi racconta e ribadisce come, inesorabilmente, anche l’Homo Technologicus contemporaneo di fronte alla Natura ridiventi piccolo e quasi insignificante, impotente ad esempio rispetto una meteo inclemente verso la quale l’unica cosa da fare è adattarsi nel modo migliore possibile, dato che sfuggirvi è invece prova evidente di pochezza antropologica (come se i monti dovessero essere chiusi al pubblico ogni qualvolta minacci pioggia o neve!)

E certo, alla fine Comi narra, in questo suo disegnino così letterario, anche di una possibilità meravigliosa: quella di salire una leggendaria vetta alpina (o più d’una) e da lassù guardare il mondo ai propri piedi. In alto, sopra le umane bassezze quotidiane, sopra una frenesia collettiva sempre più insensata e cognitivamente dissonante rispetto a ciò che ha intorno, sopra una “vita” (o quello che riteniamo tale) che troppo spesso si dimentica di quanto possa essere ricca di bellezza e valore e che, proprio per questo, necessita sempre più di elevarsi: culturalmente, spiritualmente, umanamente in primis, ma se possibile anche altitudinalmente. In fondo una vetta non è che un piccolo, angusto spazio di roccia e neve spazzato dalla meteo più inclemente: ma è anche, ogni vetta, un punto di contatto tra la dimensione terrena e quella celeste, tra il materiale e l’immateriale, tra la parte più pratica, più “fisica” del mondo vissuto e quella più emozionale e ultrasensibile. E starci anche solo per qualche istante, su una vetta, non sarà mai una merce da vendere semplicemente perché non ha prezzo.

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